Il titolo dell’ultimo volume di Marco Mondini è già una proposta storiografica. Di una “guerra italiana” nel più vasto conflitto europeo discussero a lungo i protagonisti della generazione interventista, ma ovviamente non è in chiave nazionalistica che l’autore torna a evidenziare la specificità dell’esperienza italiana nella conflagrazione europea. In questione, semmai, è la perdurante attitudine della storiografia internazionale a ignorare o sottovalutare la rilevanza del caso italiano nella storia della Grande Guerra. Emblematico, in questo senso, l’impianto di quella Encyclopédie de la Grande Guerre, coordinata da Stéphane Audoin-Rouzeau e Jean-Jecques Becker (Bayard 2004), che ambiva a costituire una sorta di bilancio dei nuovi studi culturali e transnazionali sul primo conflitto mondiale e dalla quale l’Italia era praticamente assente. Curando l’edizione italiana (Einaudi 2007), Antonio Gibelli aveva quindi dovuto operare una vasta revisione, inserendo alcune voci sull’Italia e apponendovi un’introduzione in cui marcava le peculiarità della guerra italiana, dai mesi di neutralità, alla guerra di montagna, alla esasperazione delle fratture sociali e politiche che favorì l’ascesa del fascismo, del primo regime reazionario di massa europeo. Non la giustapposizione di un’altra storia nazionale, dunque, ma un caso studio che contribuisce a illuminare i complessi sconvolgimenti che interessarono l’intera Europa nel corso del conflitto. Le abitudini mentali sono però difficili da modificare e anche la recentissima The Cambridge History of the First World War curata da Jay Winter (Cambridge University Press 2014), pur dispiegandosi in tre volumi, ospita un solo saggio dedicato all’Italia (di Nicola Labanca, curatore del nuovo Dizionario storico della Prima guerra mondiale, Laterza 2014). Profondo conoscitore della letteratura nazionale e internazionale, lui stesso autore di vari studi sulla società militare italiana e la Grande Guerra, con questo lavoro Mondini intende riproporre nel dibattito storiografico la rilevante specificità dell’esperienza bellica italiana, integrando alcuni aspetti di storia militare con l’interesse prevalente per la storia culturale del conflitto, per l’analisi «delle rappresentazioni e dei discorsi», ovvero della complessa trama del «consenso delle popolazioni» alla guerra (p. 11).
Il contesto generale è naturalmente quello della guerra totale e di massa ampiamente indagato dalla storiografia (in particolare proprio da Audoin-Rouzeau e Becker, ma anche da George L. Mosse e John Horne), un conflitto che per essere combattuto ha avuto bisogno di suscitare adesione emotiva, senso di obbligatorietà, implicando articolate strategie di elaborazione del vissuto individuale e collettivo. In questo quadro comune a ogni società in guerra Mondini introduce i peculiari «paradossi» dell’esperienza italiana (p. 7): presentata come l’ultima campagna del Risorgimento, la guerra fu in realtà decisa e condotta dal governo in base a obiettivi geopolitici, in virtù dei quali pretese il Brennero ma non Fiume; celebrata come “prova nazionale”, la guerra fu nondimeno dichiarata dopo mesi di incertezze e trattative che alimentarono uno scontro interno senza precedenti nell’Europa del 1914, scivolata rapidamente e quasi inconsapevolmente nel conflitto; una prova, peraltro, che avrebbe presupposto una fiducia negli italiani in armi largamente assente nello Stato maggiore dell’Esercito e in particolare in Luigi Cadorna, che stremò e dissanguò le proprie truppe con una disciplina brutale e moduli tattici inadeguati, vedendo infine materializzarsi il suo incubo peggiore nello «sciopero militare» di Caporetto, a cui tuttavia fece seguito una strenua resistenza sul Piave e la tenuta dell’Esercito sino alla vittoria; una guerra, ancora, prevalentemente raccontata come un eroico duello cavalleresco tra le cime innevate delle Alpi, una raffigurazione lontana dalla realtà dei combattimenti di trincea sul fronte dell’Isonzo e poi del Piave. Una serie di paradossi che appaiono più come classiche contrapposizioni tra il bagaglio risorgimentale del paese e la prassi delle classi dirigenti, tra i codici culturali dei capi militari e la solidale comunione delle truppe, tra la narrazione dei combattenti e quella del fronte interno: è comunque seguendo questa traccia che l’autore indaga sia le variegate matrici del consenso alla guerra sia la precoce emersione di sentimenti di «disillusione» e «fallimento» (p. 11) che resero ardua la conquista della pace. Le fonti utilizzate nella ricerca sono ampie e variegate, dalla documentazione d’archivio istituzionale, alle opere letterarie e memorialistiche, alle testimonianze artistiche e fotografiche, sino alle pellicole cinematografiche e ai fumetti.
Il volume si articola in tre sezioni, quanti sono i passaggi storici e tematici della guerra italiana. Nella prima parte – Partire – l’autore analizza la stagione della neutralità, percorsa dai negoziati diplomatici che convinsero il governo a optare per l’intervento a fianco dell’Intesa solo nel marzo 1915 (p. 22), quando ormai la contrapposizione tra interventisti e neutralisti aveva assunto «l’aspetto di una guerra civile» (p. 18). Secondo Mondini ne risulta quindi sconfessata la narrazione offerta dall’allora presidente del Consiglio Antonio Salandra riguardo alla prematura determinazione del governo a condurre l’Italia in guerra contro gli Imperi centrali ma non rispetto alla sostanziale estraneità alla montante mobilitazione in favore dell’intervento. In più occasioni l’autore torna a sottolineare il carattere «spontaneo» del movimento interventista e per l’assistenza civile, sostenendo ad esempio che le autorità politiche e militari vennero «colte di sorpresa» e cercarono di «frenare gli ardori guerreschi della gioventù universitaria» (pp. 51-52) – una lettura in parte smentita dalla contestuale analisi delle radicate inclinazioni guerresche dei giovani, che furono semmai incanalate in formazioni sorvegliate e affidabili – o riconducendo l’arcipelago di comitati patriottici del fronte interno nel seno di una sociabilità borghese di cui non rileva la strutturale prossimità ai circuiti politico-amministrativi e agli ambienti militari (pp. 86-96). Le radici dell’interventismo sono allora interamente ricondotte alla cultura risorgimentale della nazione, immaginata come comunità maschile fondata sull’onore e il sacrificio militare; un mito fondativo che non aveva retto alla serie di sconfitte belliche dell’Italia, alimentando soprattutto nelle giovani generazioni l’aspettativa di una «prova del fuoco», di una guerra di rigenerazione nazionale di cui la Libia aveva offerto solo un’anticipazione. Il tema dell’attesa richiama il classico studio di Mario Isnenghi, riletto attraverso Mosse e soprattutto Alberto Banti, privato cioè dell’attenzione allora prevalente per le questioni politico-ideologiche. Particolarmente efficace è comunque la valutazione complessiva del portato storico della stagione di neutralità, durante la quale, in virtù della mobilitazione dei circoli irredentisti, della stampa e in particolare dei periodici illustrati, la «guerra anticipata e immaginata» (p. 25) raggiunse una platea amplissima di italiani, delineandosi in primo luogo come lotta per «l’abbattimento del nemico interno» (p. 18), mentre gli «aspetti orripilanti» della battaglia che si svolgeva Oltralpe venivano banalizzati o rimossi con il ricorso alla tradizionale iconografia della morte eroica sul campo dell’onore (p. 43). Giunti alla prova del conflitto, Mondini offre al lettore un affresco dell’Esercito mobilitato, della sua composizione sociale e delle sue «sperequazioni», in ragione delle quali l’«imposta del sangue» (p. 65) ricadde sugli italiani in modo non uniforme per fascia d’età, provenienza sociale e regionale, arma di appartenenza. Centrale è la figura dell’ufficiale di complemento, istituita nel 1882 per offrire ad alcuni civili una posizione più gratificante del semplice soldato e assicurare all’Esercito una riserva di subalterni, ma guardata con sospetto, apertamente ricambiato, dai militari di carriera. Il gioco delle accuse reciproche tra ufficiali di complemento ed effettivi ebbe inizio sin dai primi giorni di conflitto, con i primi pronti a denunciare la tendenza dei secondi a imboscarsi nelle retrovie, nei comandi e negli stati maggiori, e questi ultimi inclini a disprezzare l’incompetenza e indisciplina dei borghesi in divisa. Fratture che tornarono ad animare il dibattito storiografico del primo dopoguerra e che l’autore indaga con obiettività, rilevando la sommaria formazione sia degli ufficiali di complemento sia dei loro parigrado di carriera, dettata dall’urgenza di rimpinguare un corpo ufficiali precocemente decimato dagli anacronistici imperativi dell’assalto frontale. E tuttavia il nodo fondamentale rimane quello della spietata legislazione militare perorata da Cadorna e delle discrepanze con il contegno più indulgente dei giovani borghesi al comando dei plotoni, a cui Mondini sembra attribuire, con una lettura in parte aderente alle testimonianze letterarie, le ragioni della sostanziale tenuta disciplinare dell’Esercito italiano rispetto ad altre armate europee.
Il nucleo centrale del volume – Raccontare – è dedicato proprio alle rappresentazioni del conflitto, ai racconti elaborati per dotare di senso l’esperienza bellica ed edificarne la memoria. Non a caso il primo capitolo di questa sezione, intitolato Scrivere della guerra, si apre con una citazione di Paul Fussel, la cui opera – assieme all’altro classico studio di Eric J. Leed – ha inaugurato e orientato la storia culturale della prima guerra mondiale. Le scritture dei soldati semplici suscitano ormai da vari anni l’interesse degli studiosi (da ultimo il volume di Quinto Antonelli, Storia intima della Grande Guerra. Lettere, diari e memorie dei soldati dal fronte, Donzelli 2014), ma giustamente Mondini ne rileva sia i dispositivi di censura e autocensura sia il carattere privato e riservato. Diverso il caso della produzione memorialistica e letteraria dei «combattenti-scrittori», a cui si deve la «variante italiana» del mito dell’esperienza di guerra diffuso fra i reduci (p. 168). Eccone la descrizione offerta dall’autore: «ufficiale di complemento, subalterno o al massimo capitano, tra i venti e i trent’anni, testimone della guerra per averla vissuta quasi sempre in trincea combattendo in fanteria e nelle sue specialità, spesso (ma non necessariamente) interventista» e ovviamente colto (p. 173). Si tratta di una trentina di autori, fra cui primeggia Paolo Monelli, portati a delineare un’immagine divisiva della guerra: da un lato i «plotonisti», gli ufficiali di complemento con i loro soldati, e dall’altro lato una casta militare incompetente e un paese composto largamente di imboscati. Come sul fronte occidentale, dunque, anche in Italia l’esperienza di guerra diede forma a una cultura strutturata per antitesi, ma con una diversa accentuazione: laddove altrove la contrapposizione principale rimase tra il “noi” dei combattenti e il “loro” dei barbari nemici, sul fronte italiano il contrasto dominate divenne tra il “noi” dei trinceristi e il “loro” dello Stato maggiore, dei militari e civili al riparo nelle retrovie o a casa. Mondini lo deduce dalla presenza «evanescente» del nemico nella letteratura di guerra italiana (p. 192), tutta incentrata invece sulla «fratellanza in armi», sul senso di appartenenza a una «comunità in cui crescere e rigenerarsi attraverso la scoperta (o riscoperta) dei canonici valori del guerriero: coraggio e forza […] ma soprattutto lealtà, amicizia, spirito di sacrificio, in una parola cameratismo» (p. 178). Nel racconto degli italiani, quindi, a sospingere nella lotta poté più il sentimento di fraternità in trincea che le ragioni della patria, benché la comunità in armi rimanesse intimamente gerarchica. Si vedano le pagine di Monelli sulla «tribù dei combattenti di montagna» (p. 194), i cui caratteri distintivi – la giovinezza iniziata all’eticità virile in una guerra “premoderna” e il rinnovato senso gerarchico di comunità – erano peraltro già presenti nei suoi scritti goliardici sulle virtù patriottiche dell’alpinismo (Catia Papa, L’Italia giovane dall’Unità al fascismo, Laterza 2013). Una sottolineatura che rafforza l’approccio dell’autore, la centralità attribuita ai valori nazional-patriottici borghesi nell’orientare la visione collettiva della guerra, e che dovrebbe scongiurare il rischio di cedere alla seducente opposizione tra il «racconto genuino del combattente» (p. 212) e l’«industria dell’immaginario» (p. 225) in piena attività nel fronte interno. A quest’ultima, ai principali attori della propaganda di guerra rivolta alle popolazioni civili, ossia ai giornali, periodici illustrati e per l’infanzia impegnati a restituire un’immagine «glorificante, entusiasmante e rassicurante» del conflitto (p. 214) è dedicato il capitolo conclusivo della sezione, che conta anche un paragrafo sulla messa in scena cinematografica della conflagrazione mondiale sino al secondo dopoguerra.
La terza e ultima parte del volume affronta il tema del ritorno (Tornare). Vi si legge del penoso e umiliante rimpatrio dei prigionieri italiani alla fine della guerra, passati dai centri di detenzione tedeschi e austro-ungarici ai campi di concentramento e smistamento emiliani e triestino; o del tortuoso viaggio verso casa degli italiani arruolati nell’esercito asburgico e finiti nei centri di prigionia russi, un viaggio che passò dalla Cina e per alcuni rifece tappa nell’ex impero zarista in qualità di militi ausiliari del piccolo corpo di spedizione inviato dall’Italia contro il regime bolscevico. A conclusione di questa sezione Mondini esamina infine la questione del culto dei morti (Quelli che non ritornano) e dei rituali della vittoria. Quanto al primo tema l’autore offre una dettagliata disamina – a tratti ripetitiva per il lettore giunto ormai oltre la trecentesima pagina – delle strategie di elaborazione del lutto sviluppate sia negli opuscoli in memoria, fioriti nell’ambiente degli ufficiali di complemento, sia nei monumenti ai caduti edificati lungo tutta la penisola, per iniziativa locale, sino alla cesura degli anni Trenta, quando il regime centralizzò, nazionalizzò e fascistizzò il culto dei caduti nella Grande Guerra. La storia della «monumentomania municipale» (p. 330), a cui non si sottrassero neppure alcune giunte socialiste nel segno dell’“orribile carneficina”, racconterebbe d’altronde del ben più inadeguato contegno della classe dirigente liberale riguardo ai quei rituali della vittoria che soli avrebbero potuto offrire una «occasione di pacificazione» degli italiani (p. 329). La mancata organizzazione di una grande liturgia patriottica in omaggio alle Forze armate vittoriose e la tardiva proclamazione ufficiale del 4 novembre come festa nazionale – a cui non poté rimediare la celebrazione del milite ignoto – offesero il mondo combattentistico e l’opinione pubblica moderata, gettando «discredito» sugli ultimi governi liberali (p. 345) e favorendo quella «rimobilitazione patriottica che avrebbe trovato la sua espressione più efficiente e brutale nello squadrismo» (p. 362).
Con queste brevi battute siamo alle Conclusioni del volume, nelle quali Mondini ridimensiona quindi il peso della “vittoria mutilata”, delle questioni di politica estera e della stessa impresa di Fiume, nella parabola dell’Italia del primo dopoguerra, accentuando semmai la rilevanza – come già nel suo La politica delle armi. Il ruolo dell’esercito nell’avvento del fascismo (Laterza 2006) – di un «contesto nazionale che preoccupava o più spesso irritava i reduci, i quali si sentivano minacciati dall’esplodere di una violenza politica di cui si sentivano ingiustamente vittime» (p. 361). Lasciati soli ad affrontare, materialmente e simbolicamente, la «metodica offensiva» della sinistra massimalista contro gli emblemi nazionali e in particolare i borghesi in uniforme – la cosiddetta «caccia all’ufficiale» comunque circoscritta rispetto allo studio precedente – gli ex combattenti avrebbero maturato la convinzione che la guerra non potesse finire fintantoché il nemico interno non fosse stato debellato. Al termine della lettura di un volume peraltro ricchissimo di storie, storiografia e fonti, si ha dunque l’impressione che, almeno per quanto attiene alla fuoriuscita dalla guerra, Mondini rimanga nell’alveo di una interpretazione tradizionale e discussa, cosicché la vera specificità italiana, in definitiva, sembra risiedere nella peculiare inettitudine delle classi dirigenti e nell’indomito massimalismo del Partito socialista.