Boom edilizio, condizioni alloggiative e culture dell’abitare sul piccolo schermo: La casa in Italia di Liliana Cavani*

Incastonata tra lo spettacolo di varietà Alla ribalta, dedicato a Mina, e Cristo contemporaneo, «conversazione religiosa di Padre Giulio Bevilacqua dell’Oratorio di Brescia», nella seconda serata di sabato 2 maggio 1964 andava in onda sul Canale nazionale Rai la prima puntata dell’inchiesta La casa in Italia[1]. Realizzata da Liliana Cavani con la consulenza di Alberto Ronchey e Filippo Ponti e il commento di Fabrizio Dentice, l’inchiesta era suddivisa in quattro puntate, frutto di otto mesi di lavorazione durante i quali la troupe aveva percorso in lungo e in largo la penisola raccogliendo trentamila metri di girato[2]. Riccamente documentata e rigorosa nell’analisi, quella realizzata da Cavani e i suoi collaboratori si segnala come una delle non numerosissime trasmissioni attraverso cui la televisione degli anni del boom dimostrò di saper raccontare senza reticenze o compiacimenti i cambiamenti tanto repentini e profondi quanto disomogenei e irti di contraddizioni che l’Italia stava allora conoscendo[3].

Attraverso la lente di questa fonte audiovisiva di straordinario interesse si può guardare ad alcuni tra gli aspetti più significativi della “grande trasformazione” maturata tra gli anni Cinquanta e Sessanta, come l’impetuoso sviluppo edilizio, gli enormi squilibri nel panorama abitativo, il mutare delle condizioni e degli stili di vita. Questo articolo prende in esame La casa in Italia concentrandosi sui temi trattati dall’inchiesta e sui principali elementi che ne emergono in relazione all’Italia del boom, nella consapevolezza naturalmente che un prodotto mediale – anche di genere documentaristico – non è mai un rispecchiamento oggettivo della realtà ma piuttosto una rappresentazione che seleziona, interpreta e intesse elementi specifici di quella realtà in una delle sue molte narrazioni possibili. Per ragioni di spazio non potrò invece qui soffermarmi su questioni quali la ricezione del programma, il dibattito pubblico che suscitò e i problemi che ebbe con la censura, su cui dunque mi riprometto di tornare in altra sede.

La prima puntata dell’inchiesta mette a fuoco i contorni del problema abitativo nelle principali città. Dopo aver fornito alcuni dati d’insieme per restituire la dimensione complessiva del fenomeno, essa propone «un viaggio nell’Italia provvisoria» tra gli immigrati a Torino, i baraccati della periferia romana, gli abitanti dei catòi palermitani e dei bassi di Napoli[4].

Si parte dal capoluogo piemontese, dove in pochi anni si sono riversati centinaia di migliaia di lavoratori provenienti soprattutto dal Sud. Qui il problema abitativo investe tanto la città quanto i Comuni della cintura come Venaria Reale, nelle cui Casermette – ex strutture militari di epoca sabauda – trovano un tetto molti nuovi arrivati. Dovrebbe trattarsi di una sistemazione provvisoria, ma l’elevato prezzo degli alloggi spinge spesso a trattenervisi a lungo. Dalle riprese aeree e dalle immagini girate lungo le strade si passa all’interno degli edifici, dove vediamo ampi locali suddivisi con sistemi rudimentali in piccoli alloggi: «patetici tentativi di vita intima ricavati con coperte e con tavole», li definisce la voice over. Seguono le testimonianze di un immigrato e della moglie, la quale racconta che dopo aver trascorso alcune notti in strada hanno deciso di occupare uno spazio qui: «Siamo venuti dentro e non c’era proprio niente. E così con mio marito mi son messa lì, abbiamo raccolto un po’ di legna, un po’ di tavole, cartone, e ci siamo fatti questa piccola baracca, così».

Fig. 1 Un alloggio ricavato all’interno delle Casermette di Venaria Reale (TO).

Ci si sposta quindi nei quartieri centrali di Torino «fatti di stanze strette e buie – recita lo speaker –, di soffitte gelide senza acqua e senza servizi: i torinesi le hanno lasciate, gli immigrati ci si adattano». Un uomo dall’accento meridionale lamenta che la stanza in cui vive «è brutta, sporca, nera: che io quando vado là a dormire mi sembra che… insomma si muore». Un altro dice con un sorriso amaro: «Vivo in una stanza dove ci sono quattro lettini, una stanza buia, tetra, pagando ottomila lire al mese. Queste soffitte sembrano fatte… tipo come Alessandro Dùmas, le prigioni, identiche: buie, senza luce… proprio fatte malamente». Il commento evidenzia che il Comune, avendo fatto costruire case popolari per 200.000 persone, «non fa torto alle tradizioni della città e al suo spirito civile»: tuttavia le richieste sono 13.000 l’anno e gli alloggi disponibili solo 800, cifre che «danno la misura della sproporzione tra il bisogno e la possibilità di soddisfarlo».

In città come Napoli e Palermo, invece, il disagio abitativo ha radici più antiche, legate alla strutturale arretratezza del Meridione. Nel capoluogo siciliano esso assume la forma tipica dei catòi, i miseri alloggi dei quartieri centrali come la Kalsa costituiti da «uno o due vani al massimo privi dei servizi igienici, dell’acqua e talvolta perfino della luce elettrica». Mentre la telecamera si sofferma sugli ambienti e su scene di vita quotidiana, seguendo bambini cenciosi che giocano nei vicoli sconnessi tra il fango, l’immondizia e gli animali da cortile, lo speaker cita un rapporto del Provveditorato regionale delle opere pubbliche secondo cui nei catòi «l’affollamento, la promiscuità portano alla degradazione fisica e morale che si può ben ritenere, senza tema di esagerazione, spaventosa».

Fig. 2 L’interno di un basso napoletano.

La sezione su Napoli inizia con riprese all’interno di un basso che mostrano gli abitanti stipati nell’unico letto presente, mentre la voce narrante informa che gli alloggi di questo genere sono circa 10.000 e ospitano 50.000 persone. Viene quindi intervistato un signore assai distinto che vive in uno di questi bassi con la moglie e sei figli:

 

Come fate la sera qui per dormire, come vi arrangiate?

È un problema, è un problema. Perché facciamo un letto a due piazze per le bambine femmine e un letto, un lettino per il maschio più grande […]; poi c’è l’ultimo, il sesto, che dorme con me e mia moglie. È un problema molto delicato questo qui. Ci piacerebbe avere una stanzetta per [noi due], anche… per restare un po’ soli una volta, diciamo: e invece questo non può più avvenire in queste condizioni.

 

Ritorna dunque il tema della privacy, della ricerca di intimità da parte degli abitanti: una sorta di fil rouge che attraversa l’intera puntata. Qui si tratta di un’intimità intrafamiliare, ovvero del desiderio di avere una forma di protezione dagli sguardi dei propri cari, mentre nelle Casermette si cercava piuttosto un’intimità interfamiliare mettendosi al riparo dalla forzata condivisione dello spazio con i vicini. Dettata naturalmente dalle condizioni di estremo disagio in cui vivono queste persone, la ricerca di privacy va anche letta nel più ampio quadro delle culture abitative degli anni del boom, caratterizzati dal convergere – prima a livello di aspirazioni, e solo più lentamente sul piano delle effettive condizioni di vita – dei ceti popolari verso un modello di domesticità di ascendenza borghese incentrato appunto sui valori del comfort e della privatezza[5]. Eloquenti, al riguardo, anche le parole della figlia maggiore di quest’uomo, una ragazza sedicenne che dà voce all’aspirazione ad abitare «in un’altra zona certamente», non su strada («sopra») e in «una casa modesta, non tanto bella e non brutta», che immagina composta da «una camera da letto, una da pranzo, la cucina bene, il bagno; insomma… una casa». Una casa vera, dunque, sufficientemente spaziosa e con ambienti distinti per le varie funzioni.

Non tutti, però, condividono questa prospettiva. Mentre la telecamera si inoltra nei vicoli del rione Pallonetto, sentiamo delle donne dichiarare con enfasi: «Voglio sta’ qua: ca’ so’ nata e ca’ voglio murì». La voce narrante spiega che è «l’economia del vicolo» a trattenerle qui, dove «la vita è una specie di cooperativa: ciascuno ha la sua rete di clienti abituali, di traffici e di baratti, di finestra in finestra e di porta in porta»; trasferirsi vorrebbe dire perderli, e «non tutti riescono a vedere al di là delle abitudini e degli interessi immediati, o immaginare quale potrebbe essere la vita in case più sane e più ampie, in quartieri nuovi». Emerge dunque uno iato tra i costumi e la mentalità di una parte degli abitanti e la visione modernizzatrice sposata dagli autori dell’inchiesta, con i primi che evidentemente antepongono altre priorità ai valori di igiene, ordine, comfort e decoro che orientano l’agenda di questi ultimi. Agenda che trova la sua incarnazione nel quartiere Traiano, costruito dall’Istituto per le case popolari, dove – evidenzia la voice over – «centinaia di famiglie, dopo tanti anni trascorsi nei bassi o nei centri di raccolta per i senza tetto, hanno trovato […] non soltanto un alloggio decoroso ma anche un nuovo sistema di vita, una speranza per il futuro». Il punto è illustrato attraverso le parole di un’assegnataria che, seduta al tavolo di una sala da pranzo tirata a lucido, si dice assai contenta della casa popolare perché ha molto spazio e diversi ambienti a disposizione, mentre la baracca dove viveva prima era formata da un’unica stanza, si dormiva tutti in un letto, la cucina era all’esterno, mancava il gabinetto e bisognava prendere l’acqua alla fontana.

Fig. 3 Intervista a un’assegnataria di un alloggio popolare del quartiere Traiano, Napoli.

L’ultima tappa del viaggio è Roma. Veniamo condotti dapprima al Borghetto Prenestino, la più grande e popolosa tra le numerose bidonville che allora costellavano il territorio della capitale[6]. Le immagini mostrano le baracche in muratura, legno e bandone, i panni stesi all’aperto, i bambini che giocano sulle strade sterrate, gli uomini che s’intrattengono sull’uscio, le donne che prendono l’acqua alla fontanella o fanno il bucato al lavatoio. In una scena vediamo il postino che, radunati gli abitanti con un fischietto, legge ad alta voce i nomi sulle buste per chiamare chi ha ricevuto una lettera a ritirarla; interpellato dalla voce fuori campo, spiega che deve ricorrere a questo sistema «perché le strade… ce so’ pe’ modo de di’ insomma» e «tutti i giorni nascono dei nummeri novi: 22/a, 22/b… perché continuamente fabbricano, arrivano e se fermano insomma». Un’immagine del borghetto come insediamento dinamico, in continuo movimento oltre che in espansione, la forniscono anche alcuni abitanti intervistati, che raccontano di essere in procinto di vendere le proprie baracche per acquistarne di più grandi dove le rispettive famiglie, cresciute per l’arrivo di nuovi figli, potranno stare più comode. L’itinerario attraverso i luoghi più rappresentativi del disagio abitativo si conclude infine al dormitorio pubblico di Primavalle: «l’ultimo gradino nella scala delle abitazioni», dove vengono accolte le famiglie sfrattate o sbaraccate. Dopo aver visto gli stanzoni coi letti allineati su varie file, ascoltiamo l’accorato lamento di un gruppo di donne che deplorano la forzata condivisione della camerata e l’impossibilità di avere una vita familiare: c’è chi si vergogna a far sapere che abita qui, chi paragona il dormitorio a un campo di concentramento, chi esclama sconsolata «meglio stare in baracca cento volte!».

Fig. 4 Consegna della posta al Borghetto Prenestino, Roma.

La seconda puntata guarda alla questione casa dall’angolatura della speculazione sulle aree fabbricabili: argomento assai delicato in un momento in cui risuonava l’eco delle polemiche sollevate dal progetto di riforma urbanistica presentato dal ministro democristiano dei LL.PP. Sullo e affossato dal suo stesso partito l’anno precedente, e mentre si discuteva sul disegno di legge messo a punto dal suo successore Pieraccini, che ne costituiva in sostanza una versione più leggera[7]. Può forse non stupire, dunque, che questa puntata incappò nelle maglie della censura televisiva: ne fu bloccata la messa in onda prevista per sabato 9 maggio e venne trasmessa la settimana seguente dopo aver subito tagli per circa un terzo della sua durata[8].

La puntata si apre evidenziando l’elevato costo degli alloggi e il continuo aumento dei fitti, dovuti soprattutto al prezzo del terreno che, tra le voci che concorrono al costo di una costruzione, costituisce «la maggiore e sproporzionata in confronto a tutte le altre». Introdotto da titoli di giornale sull’argomento, lo speaker riferisce che tra il 1951 e il 1961 il costo delle aree fabbricabili nelle città è aumentato del 1600% in centro e del 1200% in periferia. Mentre le immagini dei giornali si alternano con riprese aeree di quartieri di nuova costruzione, si spiega che processi di inurbamento come quelli che sta vivendo l’Italia comportano inevitabilmente un’aumentata domanda di case: «Il rincaro delle aree è quindi in un’economia libera un fatto automatico e naturale. Ma oltre certi limiti diventa un danno sociale, cioè contrasta con il bene di tutti i cittadini. Si parla allora di speculazione».

Per inquadrare il fenomeno si dà voce agli operatori del settore, che ne forniscono un’immagine piuttosto riduttiva: «Per me la speculazione edilizia non è che non esista, tuttavia va contenuta soltanto in certi casi particolari. L’operazione edilizia è una normale operazione commerciale, che viene definita speculativa solo perché demagogicamente è indicata come operazione riservata ad una certa classe», sostiene il presidente degli agenti immobiliari Palmiro Consoli; mentre il costruttore palermitano Francesco Vassallo è più categorico: «Per me non c’è nessuna speculazione. È proprio la vita che è andata così: i terreni hanno avuto un prezzo, dopo mano mano che va passando del tempo hanno aumentato un poco». Ma lo speaker puntualizza: «I terreni non sono aumentati soltanto un po’. A Milano, per esempio, un metro quadro di terreno in periferia nel ’51 costava 5.000 lire, nel ’54 era già salito a 23.000, nel ’58 era arrivato a 44.000, e da allora è raddoppiato». Vengono quindi passati in rassegna i diversi sistemi adottati dagli speculatori: vi è chi compra un terreno a prezzo agricolo e inizia a costruirvi qualche abitazione, spingendo il Comune a portare le strade e i servizi, e poi lucra sull’aumento di valore delle aree circostanti; chi acquista terreni nei pressi di erigendi complessi di edilizia pubblica con la prospettiva che diventino presto edificabili; chi demolisce «vecchie case modeste» in centro ricostruendo al loro posto palazzi intensivi «col conseguente congestionamento della zona»; chi dona una porzione delle proprie aree affinché sia destinata a verde pubblico, in cambio dell’autorizzazione a edificare la restante parte.

Il commento denuncia poi che, dovendo fronteggiare interessi forti senza disporre di strumenti adeguati, i poteri pubblici non sono in grado di contrastare la speculazione e contenere il boom edilizio «entro limiti non dannosi al bene comune». Infatti, oltre all’alto costo delle abitazioni, alla speculazione va imputato anche «lo sviluppo caotico delle città». Sebbene non manchino esempi di «quartieri moderni, razionali e insieme umani», lo sfruttamento intensivo del suolo, il disordine edilizio e la carenza di verde e servizi hanno portato le città a perdere «i loro contorni tradizionali per trasformarsi in agglomerati di cemento tristemente simili l’uno all’altro». Su una sfilata di condominii affastellati uno sull’altro ripresi dal basso, dopo una pausa segnata dal rullare di tamburi, la voice over pone un’amara domanda retorica: «Qui, chi riconoscerebbe Napoli per esempio?».

Fig. 5 Edilizia intensiva a Napoli.

Infine si sottolinea che il fabbisogno di alloggi andrà soddisfatto «con dei precisi progetti concepiti e realizzati secondo le esigenze della vita moderna», poiché non basta costruire case ma bisogna creare quartieri ben collegati e dotati di tutti i servizi. È così che «il problema dell’alloggio diventa un problema urbanistico». Saranno infatti questi elementi a determinare «se saremo prigionieri forzati nella città o padroni della città e della nostra vita». Tali considerazioni preludono alla sottolineatura dell’esigenza di una riforma urbanistica che consenta di contenere l’incidenza del prezzo delle aree fabbricabili sui costi di costruzione e su quelli per le opere di urbanizzazione e i servizi. Per quanto «logici e intelligenti», infatti, i programmi dei piani regolatori restano spesso sulla carta perché «urtano contro molti ostacoli per l’insufficienza delle attuali leggi urbanistiche». Sebbene implicito, il riferimento ai progetti Sullo e Pieraccini appare evidente.

La terza puntata è dedicata alla casa contadina, che non è solo spazio abitativo ma anche strumento di lavoro[9]. Nella Sicilia centro-occidentale, dove i contadini spesso lavorano su più fondi e quindi vivono accentrati in paesi piuttosto che in case coloniche sparse sulle terre, le anguste e misere abitazioni che fungono anche da stalla e deposito per gli attrezzi sono parte di un ambiente che presenta condizioni igienico-sanitarie quanto mai deficitarie. Un rilevante elemento di novità in questo contesto è rappresentato dai borghi costruiti nell’ambito della riforma agraria varata nel 1950: sebbene lo speaker evidenzi che «la scarsa produttività della terra e la mancanza di infrastrutture hanno impedito in certe zone l’insediamento dei contadini», il contrasto visivo tra questi borghi, con la loro struttura ordinata e le case coloniche immacolate, e i paesi mostrati in precedenza non potrebbe essere più netto.

Fig. 6 Un paese della Sicilia occidentale e un borgo della riforma agraria.

Poi ci si sposta in Lucania, soffermandosi in particolare su Matera, dove «si sta attuando un piano urbanistico fra i più radicali per una zona depressa, ma i segni del passato sono ancora evidenti». La telecamera ci porta infatti in una delle abitazioni tradizionali dei Sassi: mentre il commento riferisce che gli abitanti di queste case scavate nella roccia sono scesi dai 24.000 del 1957 a circa 7.000, vediamo una famiglia riunirsi per il pasto, con la madre che mette la tovaglia poggiandovi sopra un barattolo con il companatico e il padre che distribuisce fette di pane ai familiari; alle loro spalle il letto, nello stesso ambiente, e sullo sfondo un vano delimitato da una tenda dove viene preparato il fieno per gli animali. Nei pressi della città, invece, sorge «un’immagine del nuovo mondo»: il borgo La Martella che, «progettata da alcuni dei migliori architetti italiani, è la figlia bella della riforma». Qui si vive in «case pulite, spaziose, ben divise in locali di uso diverso»; ma resta «il solito antico problema della casa contadina del Sud: la terra è lontana», rileva lo speaker mentre vediamo una scritta muraria che recita appunto: «Vogliamo le terre vicine»[10].

Fig. 7 Famiglia a tavola in un’abitazione dei Sassi a Matera.

Dopo aver fatto tappa in Maremma, la risalita attraverso la penisola prosegue raggiungendo una fattoria in provincia di Bologna. «Nelle terre ricche della Pianura padana la situazione è diversa», annuncia lo speaker mentre scorrono immagini di contadini impegnati nei lavori agricoli: qui infatti «si abita sulla terra in una casa che è una vera casa colonica, con la grande cucina, le stanze da letto, e fuori stalla, fienile, magazzino. In questo tipo di insediamento la casa è adeguata al lavoro». A giudicare dalle riprese che mostrano locali ampi, puliti e ordinati, le condizioni abitative sono ben migliori rispetto ai miseri alloggi del Sud visti in precedenza. Ciò non basta, tuttavia, a trattenere i giovani in campagna: il capofamiglia racconta che otto dei suoi nove figli si sono trasferiti in città perché qui «è una vita sempre in bolletta»; e pure il nono, che è ancora troppo piccolo, tra qualche anno li seguirà. Neanche qui, del resto, mancano i problemi sul versante abitativo. Lo stesso intervistato lamenta infatti che il proprietario non provvede alla manutenzione, con il risultato che quando piove entra l’acqua dal tetto e devono spostare i letti per non bagnarsi: «I padroni – conclude avvilito – son buoni solo di prendere, ma di spendere non spendono».

Infine si approda a Moncalieri, nel Torinese, tra i mezzadri e i coltivatori diretti provenienti dal Delta padano che qui hanno raggiunto un certo benessere. I Beltrame, ad esempio, sono arrivati nel 1949. Il capofamiglia, Albino, spiega che solo un figlio è rimasto a lavorare la terra, mentre gli altri sono andati in città a fare gli operai. Quando l’intervistatore chiede al figlio rimasto di parlargli della casa, lui riferisce delle frequenti discussioni con la moglie, che non ne è affatto soddisfatta. La parola passa quindi a lei che, pur dicendosi contenta di vivere in campagna, aggiunge:

 

Ma certo mi piacerebbe anche avere una bella casetta arredata come tutte le mie amiche, le mie cognate, che quando vado a trovarle, loro c’hanno… non le manca nulla. Invece qua in campagna bisogna abituarsi, bisogna stare così come si è, perché non abbiamo i mezzi di poter… di esser come loro. Ma io lavoro sempre con la speranza di poter arrivare un giorno come loro, di avere una casetta e un pezzo di terra, di poter coltivare il mio giardino ma essere a casa mia. E invece qua…

 

Dopo uno stacco su Albino, che la segue con sguardo assorto aggrottando le sopracciglia – come a registrare la sua distanza, se non incomprensione, rispetto ai desideri della nuora e alla sua frustrazione per la forzata convivenza coi suoceri –, interviene il marito, che nel frattempo le si è accostato quasi a voler ribadire la propria autorità, ponendo una domanda retorica: «Però te hai tutto quello che vuoi, no?»; al che lei abbozza una risposta: «Sì, tutto quello che voglio sì, ma…»; e lui prosegue: «C’è il pomodoro, c’è il latte, c’è il burro, c’hai i polli, c’hai i conigli: c’hai tutto»; ma lei ribatte: «Sì, la verdura: sì, ma il più manca, il più manca»; quindi s’inserisce l’intervistatore chiedendole cosa manchi, e lei conclude: «Eh, per esempio mi piacerebbe aver la televisione, oppure anche una bella cucina, arredata come tutti; invece in campagna non si può, e non si può neanche tenere [pulita la casa] come tengono loro, perché in campagna è più sporco, anche i bambini vanno dentro e fuori…».

Fig. 8 A sinistra, Albino Beltrame; a destra, il figlio e la nuora.

La dialettica tra i membri di questa famiglia è rivelatrice. Il marito appare ancorato ai valori tradizionali della società contadina, gli stessi in cui si riconosce suo padre, e fatica a comprendere le nuove aspirazioni a godere dei moderni standard residenziali urbani cui dà voce la moglie. Aspirazioni che possiamo supporre abbiano contribuito a spingere verso la città i fratelli di lui e le rispettive consorti, ma che non indurrebbero lei ad abbandonare la campagna se qui potesse beneficiare di condizioni abitative e livelli di comfort assimilabili a quelli urbani. Si evidenzia così un doppio cleavage, generazionale e di genere, tra questa giovane donna da un lato e il suocero e il marito dall’altro, con la città che agli occhi della prima incarna il modello di un abitare moderno, confortevole, igienico e intimo che si è imposto come ideale di domesticità anche per chi vive in campagna. Se dunque, sulla scia del boom, il modello residenziale di riferimento è ormai prettamente urbano, l’aspirazione al miglioramento e alla modernizzazione delle condizioni abitative non passa necessariamente per l’abitare in città, ma può assumere anche le vesti di un abitare come in città[11].

L’ultima puntata ha carattere miscellaneo e mette a fuoco diversi aspetti dell’abitare contemporaneo[12]. Si comincia con le abitazioni di lusso, come quella di una signora dall’accento settentrionale che, elegantemente seduta in poltrona in un ampio salone, elenca gli ambienti della sua casa: ingresso padronale e di servizio, sala da pranzo e appunto salone, due camere da letto per lei e il marito «con lo spogliatoio e i bagni», altre due camere per le bambine «che hanno il loro bagno particolare», e quella del figlio più piccolo, insieme al quale esce nel giardino dove lui, spiega, può «divertirsi, giocare, e mettere meno disordine in casa». Oltre alle abitazioni moderne come questa, aggiunge lo speaker, vi sono «appartamentini ricavati in antichi e famosi palazzi, arredati con mobili antichi, con sguardo su piazza Navona»: questi raffinati alloggi, frutto della ristrutturazione di residenze aristocratiche nel cuore della Roma storica – riferisce una principessa di origini russe – sono richiestissimi da uomini d’affari, diplomatici, attori e professori universitari.

Fig. 9 Intervista a un camionista in pensione nell’hinterland di Milano.

Certo, precisa la voice over, sono «casi del tutto singolari, semplici curiosità di costume nel problema della casa», mentre «il punto centrale, l’aspirazione più diffusa degli italiani» è la proprietà dell’abitazione: traguardo che, grazie anche alle agevolazioni pubbliche, è stato raggiunto da quasi il 50% della popolazione. Queste dinamiche vengono illustrate attraverso la storia di una famiglia operaia di un Comune della cintura milanese, che vediamo riunita in soggiorno: il capofamiglia, originario del mantovano, racconta di aver acquistato la casa grazie ai sacrifici, investendo i soldi risparmiati «con delle fatiche dure, trent’anni di camionista», e contraendo un mutuo per la parte residua. Per chi vive in affitto, invece, il problema è il costante aumento delle pigioni. Vengono intervistati due coniugi, anch’essi di estrazione operaia e immigrati a Milano, ma stavolta dal Meridione: seduti in sala da pranzo, spiegano che il salario del marito non basta per far fronte al canone, quindi deve lavorare in fabbrica anche la moglie. Dettaglio significativo, rispetto alle culture abitative, il fatto che in entrambe le case la telecamera indugi sulle pattine che gli abitanti mettono ai piedi per proteggere il pavimento, come a evidenziare che i valori di igiene e decoro domestico di matrice piccolo-borghese vengono fatti propri anche dalle classi lavoratrici.

Fig. 10 Uso delle pattine nelle abitazioni operaie del Milanese.

Si passa quindi all’edilizia popolare. Mentre scorrono immagini di una famiglia che trasporta le proprie masserizie con un carretto a cavallo sullo sfondo di palazzoni di periferia, lo speaker riferisce che l’intervento pubblico in questo settore è stato notevole, in particolare grazie al piano Ina Casa che tra il 1949 e il 1963 ha visto costruire 1.400.000 vani[13]. L’opera dell’Ina Casa è stata «in molti casi esemplare», come dimostra il quartiere milanese della Comasina, fornito di «tutti i servizi e le attrezzature necessarie: una centrale termica, negozi di vario genere, asili, scuole, nidi d’infanzia, centri sociali, chiesa, biblioteca pubblica, un centro di manutenzione del quartiere». Altrove però il nodo dei servizi è rimasto irrisolto. Un caso significativo è Falchera, a Torino: l’autore del progetto Giovanni Astengo, intervistato sulla piazza che avrebbe dovuto essere il cuore del quartiere (e che successivamente gli verrà intitolata), lamenta che il centro di servizi alle sue spalle non è ancora entrato in funzione a causa del mancato coordinamento tra i vari enti coinvolti. Deficitari anche i quartieri Tiburtino a Roma e Traiano a Napoli: in quest’ultimo «ci sono le case ma praticamente nient’altro: scuole, giardini, negozi, altre attrezzature devono ancora venire», riferisce lo speaker mentre vediamo gli abitanti fare acquisti alle bancarelle ambulanti che suppliscono alla mancanza dei negozi e i bambini ammassati nella casa di una signora cui le madri, in assenza di asili, sono costrette a lasciarli per andare al lavoro.

Poi si cambia decisamente scenario. La telecamera segue un gruppo di uomini in tenuta da equitazione che galoppano in campagna: siamo all’Olgiata, una quindicina di km fuori Roma, dove va sorgendo un centro residenziale di lusso con un’esclusiva dotazione di strutture comuni comprendente piscina e campo da golf. Da qui si passa a Carimate, «l’equivalente milanese dell’Olgiata», dove vediamo gli abitanti prendere il sole a bordo piscina e le governanti accudire i bambini che giocano nel parco[14]. In una delle ville, la padrona mostra orgogliosa il giardino in stile nipponico che ha fatto realizzare dopo un viaggio in Giappone. Nella scena successiva parla la figlia, un’elegante ragazza seduta con inappuntabile compostezza su una poltroncina di vimini: «Qui c’è un po’ troppa… Tutto deve stare al suo posto, c’è una precisione eccessiva che opprime, che paralizza»; la madre si siede accanto a lei scuotendo la testa: «No, no: questo non mi sembra», dice; e la figlia, con un sorriso ironico, ribatte: «Perché per te va bene così: è il tuo carattere», mentre l’altra prosegue: «Non mi sembra di paralizzare: anzi, ho detto che nella tua camera puoi fare quello che credi; ma logicamente fuori ci deve essere un certo ordine, perché così mi piace. Poi c’è il particolare che la casa è stata fatta per me e per papà, ed è logico che risponda alle nostre esigenze»; al che la figlia conclude in tono sarcastico: «Sì, effettivamente questa casa è venuta… In origine probabilmente ci sarebbe stata solo la camera di mia madre, il suo giardino giapponese e il suo pensatoio, come lo chiamiamo noi: una specie di studio dove lei può sentir la musica, può scrivere, può allevare i suoi fiori, coltivarli, eccetera». Un confronto dialettico tra culture abitative diverse e difficilmente compatibili, che riflette alcuni tratti di fondo dei conflitti intergenerazionali che iniziano a palesarsi negli anni del boom, quando rilevanti fasce del mondo giovanile non si riconoscono più, o quantomeno non pienamente, nei valori, nei modelli sociali e negli stili di vita dei genitori[15].

Fig. 11 Madre e figlia in una villa di Carimate (CO).

Pur se riservati a un’élite, questi centri residenziali offrono l’occasione per rilanciare il più generale discorso urbanistico. Infatti, evidenzia il commento:

 

soluzioni analoghe, sia pure su un piano più modesto, con meno cose superflue, possono estendersi a categorie più vaste di cittadini, se lo sviluppo edilizio del nostro Paese si svolge secondo piani urbanistici preordinati e razionali in un continuo rapporto tra città e campagna.

 

Vengono presi a modello «alcuni tra i Paesi europei più evoluti», ossia Regno Unito, Olanda, Danimarca e Svezia, dove la crescita urbana è stata indirizzata verso la creazione di unità autonome riccamente dotate di verde e servizi. Nelle città di questi Paesi, rimarca la voice over su riprese di sobborghi ariosi e ordinati, non esiste più «periferia nel senso dispregiativo in uso da noi», poiché le zone di espansione rappresentano «quanto di meglio può essere oggi raggiunto da una società previdente per garantire a tutti i cittadini […] l’ambiente più adatto alla vita quotidiana». Come esempi si portano le New Town sorte intorno a Londra su aree preventivamente espropriate su cui è stato ceduto il solo diritto di superficie, e Copenaghen, dove il Comune ha acquisito vaste estensioni di terreno nella fascia periferica che concede in affitto con diritto di riscatto dopo 99 anni. Esempi improntati al criterio della subordinazione della proprietà del suolo all’interesse pubblico, che non potevano non richiamare ancora una volta alla mente dello spettatore i progetti di riforma urbanistica di cui si discuteva in Italia.

Infine, mentre scorrono una serie di fermo-immagine tratti dalle quattro puntate, la voce narrante evidenzia che tra i molti elementi emersi

 

uno è tornato di continuo, insistente eppure variato: la casa non è soltanto un bene economico, ma uno dei valori fondamentali della vita, della famiglia, dell’uomo. Essa è la chiave di volta della civiltà industriale, uno strumento di libertà nella società di massa, la condizione del nostro futuro.

 

Sono parole che riassumono l’impostazione di fondo dell’inchiesta, improntata a quel che potremmo chiamare un umanesimo del costruire e dell’abitare, ossia una concezione della casa che ne mette in rilievo tanto la dimensione sociale quanto la valenza per così dire morale. Un’impostazione che si esprime anche attraverso le scelte di regia, come il puntare sulle storie personali e le testimonianze autobiografiche, e un linguaggio visivo che privilegia i piani medi e ravvicinati soffermandosi spesso sui volti delle persone, la cui espressività restituisce con efficacia il portato soggettivo delle vicende indagate. Ciò si accompagna a un attento lavoro di documentazione che consente di misurarsi con un tema complesso come quello della casa coniugando gli aspetti economici, i risvolti sociali, gli assetti territoriali e le implicazioni politiche. Con un approccio critico ma equilibrato, distante dal taglio encomiastico di molta produzione televisiva coeva ma che non scade nella faziosità, si evidenziano nitidamente i problemi senza trascurare quel che i poteri pubblici hanno fatto per porvi rimedio.

Ricapitolando, l’inchiesta documenta il permanere di estese sacche di disagio abitativo tanto nelle campagne quanto nelle città e testimonia così i profondi squilibri che il miracolo economico, pur favorendo un miglioramento delle condizioni di vita che ha coinvolto anche settori delle classi popolari, non ha certo rimosso. Essa rivela inoltre le trasformazioni che andavano maturando nelle culture abitative, tra l’affermarsi di nuovi modelli residenziali, l’aspirazione alla proprietà della casa e alla modernizzazione dello spazio domestico, il desiderio di più elevati livelli di comfort e di una maggiore intimità, nonché il sorgere di nuovi conflitti lungo linee generazionali e di genere. Infine, facendo affidamento sui saperi esperti e prendendo a riferimento modelli nord-europei, essa lega il problema degli alloggi alle criticità degli impetuosi processi di espansione urbana, puntando il dito contro la speculazione fondiaria ed edilizia e l’inadeguatezza della legislazione urbanistica. In conclusione, quello di Cavani e dei suoi collaboratori si segnala come uno sguardo particolarmente lucido sull’Italia del boom, capace di abbracciarne gli elementi di progresso insieme ai limiti e alle contraddizioni.

 

 

Riferimenti bibliografici

Enrica Asquer, La rivoluzione candida. Storia sociale della lavatrice in Italia (1945-1970), Roma, Carocci, 2007.

Ada Becchi, La legge Sullo sui suoli, “Meridiana”, 29 (1997), pp. 107-134.

Bruno Bonomo, Strategie e realizzazioni di un grande promotore edilizio privato: la Società generale immobiliare, in Città a confronto. Lo sviluppo edilizio a Roma e Milano nella seconda metà del Novecento, a cura di Francesco Bartolini, “Dimensioni e problemi della ricerca storica”, 18, 1 (2006), pp. 208-214.

Flavia Cumoli, “Ill.mo signor sindaco, abbi pietà della mia triste situazione…”. Lettere al sindaco della Stalingrado d’Italia negli anni Cinquanta, “Contemporanea”, 12, 2 (2009), pp. 293-308.

Fanfani e la casa. Gli anni Cinquanta e il modello italiano di welfare state. Il piano INA-Casa, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2002.

La grande ricostruzione. Il piano Ina-Casa e l’Italia degli anni ’50, a cura di Paola Di Biagi, Roma, Donzelli, 2001;

Franco Monteleone, Storia della radio e della televisione in Italia. Costume, società e politica, Venezia, Marsilio, 2009.

Irene Piazzoni, Storia delle televisioni in Italia. Dagli esordi alle web tv, Roma, Carocci, 2014.

Simonetta Piccone Stella, La prima generazione. Ragazzi e ragazze nel miracolo economico italiano, Milano, Franco Angeli, 1993.

Chiara Saraceno, La famiglia: i paradossi della costruzione del privato, in La vita privata. Il Novecento, a cura di Philippe Ariès e Georges Duby, Roma-Bari, Laterza, 2001, pp. 33-78.

Vittorio Vidotto, Italiani/e. Dal miracolo economico a oggi, Roma-Bari, Laterza, 2005.

Il villaggio La Martella a Matera, Roma, s.n., 1953.

Stephanie Zeier Pilat, Reconstructing Italy: The Ina-Casa Neighborhoods of the Postwar Era, Farnham, Ashgate, 2014.

* L’autore ringrazia Rai Teche per l’autorizzazione a riprodurre alcuni fotogrammi dell’inchiesta.

[1] “Radiocorriere TV”, 26 aprile-2 maggio 1964, p. 48.

[2] Alberto Pacifici, Nove signore in cabina di regia, “Settimana Incom illustrata”, 5 aprile 1964, p. 26.

[3] Sulla televisione italiana degli anni del boom si vedano Franco Monteleone, Storia della radio e della televisione in Italia. Costume, società e politica, Venezia, Marsilio, 2009, pp. 295-376; Irene Piazzoni, Storia delle televisioni in Italia. Dagli esordi alle web tv, Roma, Carocci, 2014, pp. 63-113.

[4] Rai Teche, La casa in Italia, I – Un mondo provvisorio, Canale nazionale, 2 maggio 1964, ore 22:15, 47’, Identificatore Teca C4503.

[5] Cfr. Chiara Saraceno, La famiglia: i paradossi della costruzione del privato, in La vita privata. Il Novecento, a cura di Philippe Ariès e Georges Duby, Roma-Bari, Laterza, 2001, pp. 33-78: 52 sgg.; Enrica Asquer, La rivoluzione candida. Storia sociale della lavatrice in Italia (1945-1970), Roma, Carocci, 2007, pp. 68 sgg. Si veda anche Flavia Cumoli, “Ill.mo signor sindaco, abbi pietà della mia triste situazione…”. Lettere al sindaco della Stalingrado d’Italia negli anni Cinquanta, “Contemporanea”, 12, 2 (2009), pp. 293-308.

[6] Comune di Roma, Ufficio di Statistica e Censimento, Alloggi precari a Roma. Indagine disposta dalla Commissione consiliare speciale per lo studio del problema della casa sugli abitanti delle grotte dei ruderi e delle baracche, Roma, s.e., 1958.

[7] Il progetto Sullo introduceva un nuovo regime dei suoli urbani prevedendo l’esproprio generalizzato delle aree fabbricabili, che sarebbero state urbanizzate dai Comuni e sulle quali sarebbe poi stato ceduto ai costruttori il solo diritto di superficie, impedendo così l’appropriazione privata del plusvalore dei terreni agricoli divenuti edificabili. Nel disegno di legge Pieraccini il sistema per calcolare l’indennità di esproprio era più favorevole ai proprietari e scompariva il diritto di superficie. Si veda Ada Becchi, La legge Sullo sui suoli, “Meridiana”, 29 (1997), pp. 107-134.

[8] Rai Teche, La casa in Italia, II – Un posto per costruire, Canale nazionale, 16 maggio 1964, ore 22:15, 36’, Identificatore Teca C4504.

[9] Rai Teche, La casa in Italia, III – Vivere sulla terra, Canale nazionale, 23 maggio 1964, ore 22:10, 42’, Identificatore Teca C4527.

[10] La Martella, progettata tra gli altri da Federico Gorio e Ludovico Quaroni, è uno degli interventi architettonico-urbanistici più significativi degli anni ’50: si veda Il villaggio La Martella a Matera, Roma, s.n., 1953.

[11] Sulla diffusione delle tipologie edilizie, delle culture abitative, degli stili di vita e dei modelli di consumo di matrice urbana nelle campagne, si veda Vittorio Vidotto, Italiani/e. Dal miracolo economico a oggi, Roma-Bari, Laterza, 2005, pp. 39 sgg.

[12] Rai Teche, La casa in Italia, IV – Abitare oggi, Canale nazionale, 30 maggio 1964, ore 22:10, 40’, Identificatore Teca C4603.

[13] Cfr. La grande ricostruzione. Il piano Ina-Casa e l’Italia degli anni ’50, a cura di Paola Di Biagi, Roma, Donzelli, 2001; Fanfani e la casa. Gli anni Cinquanta e il modello italiano di welfare state. Il piano INA-Casa, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2002; Stephanie Zeier Pilat, Reconstructing Italy: The Ina-Casa Neighborhoods of the Postwar Era, Farnham, Ashgate, 2014.

[14] Su Olgiata e Carimate si veda Bruno Bonomo, Strategie e realizzazioni di un grande promotore edilizio privato: la Società generale immobiliare, in Città a confronto. Lo sviluppo edilizio a Roma e Milano nella seconda metà del Novecento, a cura di Francesco Bartolini, “Dimensioni e problemi della ricerca storica”, 18, 1 (2006), pp. 208-214.

[15] Cfr. Simonetta Piccone Stella, La prima generazione. Ragazzi e ragazze nel miracolo economico italiano, Milano, Franco Angeli, 1993.

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