Nel corso del Novecento le donne italiane hanno fatto i conti con l’alternanza di periodi in cui si compivano piccoli passi verso l’emancipazione e periodi caratterizzati da un ritorno verso ideali di conformità tradizionali e ruoli stereotipati.
In un citatissimo saggio sul rapporto con i consumi da un punto di vista femminile pubblicato su “Italia contemporanea” quasi vent’anni fa, l’autrice Maria Chiara Liguori suggeriva l’utilizzo di fonti di riferimento “alternative”, poco sfruttate dalla storiografia, per ricomporre le trasformazioni culturali che negli anni Cinquanta hanno avuto come protagoniste le donne; il suo auspicio muoveva dalla constatazione che negli studi esistenti le ricostruzioni fossero integrate per lo più da ricordi personali dell’autore o da memorie di soggetti intervistati e che, tuttavia, gli studi sulle donne nel secondo dopoguerra si focalizzassero molto sui temi del lavoro e dell’impegno politico, mentre meno attenzione era stata data al tentativo di ricostruire le interazioni tra le scelte quotidiane e le trasformazioni visibili nella società[1].
Per questo motivo appare interessante conciliare la storia delle donne con la storia del cinema e, in particolare, analizzare i film in una lettura di genere, attraverso i modelli culturali proposti dal testo filmico dal genere più diffuso e prolifico nel secondo dopoguerra: la commedia.
Con questo contributo ci si propone l’analisi di alcune commedie prodotte negli anni Cinquanta – un periodo significativo in cui l’Italia può affermare di essere uscita dalla fase della ricostruzione post bellica ed essere proiettata verso quello che sarà definito “miracolo economico”– con una particolare attenzione rivolta alla seconda metà del decennio. Infatti, il focus di questo intervento è definito dal gruppo di pellicole aventi come protagonista Marisa Allasio tra il 1954 e il 1958: la filmografia dell’attrice costituisce un insieme omogeneo, una serie di case study che rappresentano una tendenza significativa, soprattutto in relazione alla complessità presente nel panorama italiano, sia nell’ambito della differenziazione delle produzioni nazionali che nei confronti dell’espressione dell’identità di genere. Sono film che enfatizzano la protagonista e femminilizzano la commedia, ironizzando direttamente e prendendosi gioco dei prototipi di mascolinità italiana: Marisa Allasio incarna praticamente in ogni opera il personaggio di una «ragazza moderna, moderatamente libera e anticonformista»[2], un possibile modello di sintesi di un modo di essere e di un comportamento che è allo stesso tempo un esempio sia di rottura che di continuità con i modelli femminili del passato[3].
Le donne italiane del secondo dopoguerra
Per comprendere quale sia stato il ruolo del personaggio incarnato da Marisa Allasio nel panorama sociale italiano degli anni Cinquanta sembra opportuno contestualizzare quale fosse l’immagine della donna in un momento considerato particolarmente “significativo nella storia delle trasformazioni sociali e culturali riguardanti la vita delle donne e lo sviluppo della loro identità”[4].
La questione femminile vive nel Novecento differenti stagioni che hanno caratterizzato i rapporti all’interno della storia e della società italiana, con momenti di fermento e rivoluzione, così come da repentine battute d’arresto: se le conquiste dei primi anni del ventesimo secolo sono paragonabili al percorso emancipatore vissuto dalle donne negli Stati Uniti, in Italia la retorica fascista dell’angelo del focolare aveva innescato un processo di annullamento di tutte le conquiste economiche, culturali e legislative già ottenute, relegando la donna a una posizione subalterna all’uomo, il quale deteneva in famiglia (e in società) il patrimonio economico e culturale. L’immagine della donna era così confinata nella dimensione domestica, identificabile solo nei ruoli tradizionali di moglie e madre, funzionali all’ideologia fascista.
Seppure la Costituzione Repubblicana avesse stabilito l’uguaglianza formale fra i sessi[5] e le donne avessero ottenuto il diritto di voto[6], gli anni Cinquanta si caratterizzano per essere anni di grandi cambiamenti e profonde contraddizioni: nel dopoguerra si è manifestato in modo evidente il passaggio da questo quadro culturale rigidamente patriarcale, gerarchico, tradizionale a uno scenario di lenta e conflittuale secolarizzazione, laicizzazione, modernizzazione in senso lato[7].
Sebbene la questione femminile si sia affermata con più evidenza solo alla fine degli anni Sessanta (quando il movimento femminista darà un segno forte della sua presenza mettendo in discussione le asimmetrie esistenti nel rapporto tra uomini e donne all’interno della famiglia, della società e nel mondo del lavoro), è possibile definire questa fase transitoria sulla base della frizione tra valori e norme morali appartenenti al retaggio tradizionale e il crescente manifestarsi di nuovi desideri di autonomia da parte delle giovani italiane: negli anni Cinquanta, i ruoli femminili cominciano ad articolarsi alla ricerca di modelli di autorappresentazione inediti, rivelando una crescente mobilità nei desideri, nelle aspirazioni e nei comportamenti, grazie anche all’esposizione mediatica di stili di vita provenienti da oltreoceano e legati alla nascente società dei consumi.
Sembra difficile quindi ricostruire in un’istantanea un momento di mutazione costituito da percorsi soggettivi di emancipazione[8]: il vissuto delle donne è sempre diverso e varia in base alla loro generazione di appartenenza, al luogo dove vivono, al loro status sociale ed economico.
La donna, grazie alle sue doti fisiche e all’emancipazione del lavoro, parte alla conquista del sociale, forte dell’appoggio di alcuni miti diffusi dai mass media e di altri che cerca di vivere e riprodurre in forme più ridotte[9].
Secondo David Forgacs, il consumo dei diversi prodotti culturali di massa – film, musica registrata, immagini pubblicitarie, abiti, cosmetici, alimenti e bevande industriali – è strettamente collegato al mutamento degli usi sociali del corpo e implica la comunicazione di questi mutamenti agli altri. Nell’atto di consumare prodotti culturali, se ne assimilano anche i significati socialmente condivisi attraverso delle pratiche corporee, rendendoli visibili attraverso comportamenti e consumi[10]. Questo sembra rispecchiare il rapporto tra spettatrici e i modelli femminili del grande schermo: non solo il cinema una forma di socializzazione che permetteva loro una pratica sociale rituale come quella dell’uscir di casa in gruppi di amiche, acquisendo e condividendo così un certo immaginario sociale, ma proponeva anche “altre” identità femminili, mediante la ripetuta messa in scena di stili e comportamenti diversi, per cui copiare «‘sti vestiti a campana, ‘sti cappelli girati in su» come quelli di Ava Gardner e delle dive di Hollywood, significava sentirsi «gratificata, un pochino più simile a quel mondo», così come per molti uomini «pettinare i capelli come Marlon Brando e indossare i jeans» era un modo per manifestare la propria emancipazione nei confronti di un modo di vivere considerato superato[11]. Tutto concorre ad attivare quei meccanismi di definizione di una nuova femminilità: i vestiti copiati dalle riviste, il trucco e le pettinature delle attrici, particolari posture e movimenti del corpo, rendono visibili nuove possibilità di essere e apparire al mondo.
Sono soprattutto le più giovani a rielaborare queste nuove “performance” del femminile; come nota Enrica Capussotti, «il ruolo di rottura che ricoprì l’età emerge con chiarezza nelle rappresentazioni che costruiscono l’idea di femminilità: le giovani donne […] introdussero delle contraddizioni nelle trame proposte dalla tradizione, aprendo spazi in cui articolare nuovi desideri, nuove immagini di sé e nuove possibilità di essere giovani donne»[12]. Il modello femminile che inizia a prevalere in questi anni tra le giovani donne e le ragazze è quello della donna autonoma, la cui emancipazione era legata alla conquista di uno stile di vita urbano, poiché nell’atmosfera più libera della città era possibile liberarsi di una parte dei controlli sociali tradizionali e raggiungere una certa autodeterminazione[13].
Solo in seguito – nel corso del decennio successivo – queste tendenze si concretizzeranno nei movimenti femministi, i quali porranno l’attenzione non solo sui temi dei diritti all’uguaglianza e alla propria autodeterminazione, ma innescheranno una più ampia contestazione del modello sociale complessivo, ancora basato su dei valori culturali maschilisti e patriarcali che impedivano, di fatto, una reale parità sociale tra uomini e donne.
Le donne della commedia: dive, miss, maggiorate e fidanzatine…
Per proporre un riepilogo critico dei modelli femminili proposti dalla commedia, nell’intento di offrire una sintesi del panorama femminile cinematografico degli anni Cinquanta, è opportuno fare delle premesse che diano la misura di quanto il cinema abbia intrecciato la sua storia con quella delle trasformazioni del contesto sociale italiano, al fine di evidenziare come certe commedie siano state in grado di anticipare il cambiamento che si sarebbe dispiegato nei decenni successivi, proponendo con crescente intensità alcuni modelli di comportamento, richiesti dalla modernizzazione e in rottura con la tradizione, che proponevano una visione pacificata del passaggio dal “vecchio” al “nuovo”.
Il cinema del dopoguerra, in una misura del tutto inedita rispetto al passato, racconta le dinamiche e le trasformazioni nella vita degli italiani, nei comportamenti e nella mentalità collettiva, in forma di «diario pubblico»[14]: la visione diventa, perciò, il mezzo di definizione di un’identità collettiva.
Un primo aspetto da considerare è quindi il peso dello spettacolo cinematografico nel panorama mediale: durante gli anni Cinquanta la produzione di commedie in Italia aumenta in modo consistente, passando da 30 commedie su 98 film prodotti nel 1950 (30,6 %) a 58 commedie su 132 film nel 1959 (43,9 %). Comparando gli incassi dei film italiani, si può notare come la commedia sia il genere prevalente nei gusti del pubblico: dalla metà del decennio sostituisce progressivamente il melodramma, fino a quel momento in testa alle classifiche. Se si considerano gli incassi per genere dal 1949 al 1959, si riscontra che il 41% degli incassi proviene da commedie (includendo nel genere anche commedie-comiche e film comici), il 17% dal melodramma, il 15% dal genere storico, il 6% dal neorealismo minore e il restante 21% da generi vari.[15]
Va notato come nei generi più popolari sia predominante la presenza di personaggi femminili; infatti, sia la commedia che il melodramma ruotano attorno a narrazioni in cui le protagoniste comunicano tuttavia ruoli della donna differenti: nei mélo le donne sono viste non come nuovi soggetti sociali, ma nella loro veste più tradizionale, nei loro atteggiamenti più remissivi, nei loro desideri più modesti e circoscritti[16]. È nelle commedie che sembra manifestarsi in modo più concreto il mutare dei tempi: non solo la modernità è associata alla gioventù, ma in particolare è quasi sempre il personaggio femminile più giovane ad essere portatore di ideali “nuovi”, trasgredendo alle norme tradizionali di comportamento.
Inoltre, secondo Vittorio Spinazzola, erano due i motivi di forza dei racconti della commedia negli anni Cinquanta: l’innata capacità degli uomini di adattarsi furbescamente ad ogni situazione e la splendente avvenenza delle donne. In contrasto con il divismo americano però, nella nostra produzione nazionale la bellezza è messa in mostra in modo autentico, naturale[17].
Gino Frezza nota che la differenza più spiccata delle attrici italiane rispetto a quelle americane è il grado di preponderanza per cui prevale la dimensione corporale rispetto a quella luminosa della diva: quest’ultima è il risultato di una trasfigurazione che rende il corpo dell’attrice luminoso, quasi trasparente nella sua folgorante seduzione e bellezza; all’opposto, la maggior parte delle attrici italiane presenta una corporalità assai spiccata, dalla forte individualità.[18]
Nel panorama cinematografico del dopoguerra molte attrici si impongono, effettivamente, attraverso la propria avvenenza fisica: sono gli anni delle maggiorate[19] del cinema italiano. Silvana Pampanini, Silvana Mangano, Lucia Bosè, Eleonora Rossi Drago, Gina Lollobrigida, provengono tutte da concorsi di bellezza: nel dopoguerra le loro morbide e abbondanti forme sono una promessa di rimozione definitiva dei patimenti vissuti a causa della scarsità, ostentano una garanzia della sconfitta definitiva del pauperismo; il loro corpo diventa il simbolo carnale della prosperità riconquistata dopo le privazioni degli anni di guerra e del primo dopoguerra. Secondo Stephen Gundle, il corpo femminile serve come “luogo” in cui inscrivere ciò che costituisce il nazionale. Il corpo femminile del dopoguerra italiano rappresenta una nuova dinamica nazionale, basata su una corporeità femminile fortemente erotizzata, che rappresenta l’orgoglio nazionale, la modernità e la fecondità[20].
Ma l’immaginario cinematografico degli anni Cinquanta non è popolato solo dalle forme delle maggiorate: altra faccia della femminilità cinematografica sono le “fidanzatine”, ragazze acqua e sapone, generalmente appartenenti alla nuova leva di attrici che faranno carriera nella seconda metà del decennio. Tra loro si riconoscono studentesse, sartine, dattilografe, telegrafiste, maestrine, amiche e sorelle. Il loro marchio di fabbrica è la timidezza e una femminilità debole, da bambina ingenua: la loro acerba sensualità non ha nulla di erotico[21].
Il caso Marisa Allasio
Nelle commedie di maggior successo degli anni Cinquanta la vera protagonista è sempre una donna. Le protagoniste femminili non assolvono più solo a funzioni di supporto e di fiancheggiamento dell’azione del protagonista maschile, ma diventano esse stesse il perno attorno a cui ruota tutto il film, conducendo il gioco attivamente, in prima persona, spesso attraverso la presa in giro del gallismo tradizionale e la sdrammatizzazione del rapporto fra i sessi, posto su un piano di naturalezza cordiale[22]. A queste caratteristiche corrisponde pienamente Marisa Allasio, la cui breve carriera cinematografica condensa e cristallizza il suo personaggio: più che meteora, è possibile definirla una “supernova” del cinema italiano, proprio perché non attraversa semplicemente il panorama cinematografico, ma “esplode” nella sua celebrità.
Stella emergente e uno dei volti nuovi della seconda metà degli anni Cinquanta, il cui successo divampa grazie a Poveri ma Belli (Dino Risi, 1956), sembrava dovesse affermarsi nel firmamento delle dive del cinema italiano quando scomparirà dal grande schermo nel 1958, dopo aver girato Venezia, la luna e tu (Dino Risi, 1958), sposando il conte Pier Francesco Calvi di Bergolo (figlio della principessa Jolanda Margherita di Savoia, primogenita di Vittorio Emanuele III) e abbandonando per sempre il set, ritirandosi a vita privata.

Maria Luisa Lucia Allasio, classe 1936, è diversa dalle altre sue colleghe proprio per la sua unicità per la quale non è classificabile né tra le maggiorate, né tra le fidanzatine: non appartiene alla leva delle Miss come Silvana Pampanini, Eleonora Rossi Drago, Lucia Bosè e Gina Lollobrigida.
È più giovane, ma a differenza di Sophia Loren non ha fatto una lunga gavetta con fotoromanzi e particine. Il suo approdo al grande schermo è diretto e la propone subito in parti da protagonista.
È una delle nuove leve del cinema italiano, ma a differenza delle giovanissime Lorella de Luca e Alessandra Panaro, fanciulle verginali e prive di civetteria con le quali ha condiviso la celebrità della saga Poveri ma Belli, è dotata di una fisicità da “minimaggiorata”[23] che la qualifica immediatamente a fenomeno divistico della seconda metà degli anni Cinquanta.
Nata nel 1936 a Torino, esordì in Cuore di mamma (Luigi Capuano, 1954)[24], cominciando poi a farsi notare per la sua fisicità in Ragazze d’oggi (Luigi Zampa, 1955), Le diciottenni (Mario Mattoli, 1955) e in Maruzzella (Luigi Capuano, 1956).

È in particolare nel film di Zampa che Marisa Allasio comicia a veicolare l’insieme di qualità che ne caratterizzeranno il personaggio cinematografico: nel film è Anna e condensa in sé gli aspetti fisici e morali della femminilità tradizionale con aspirazioni”moderne” come il desiderio di studiare e sposarsi per amore e non per convenienza con il fidanzato Sandro (Mike Bongiorno). Enrica Capussotti ne identifica chiaramente l’idealtipo, sottolineando come Anna sia una «figura positiva che contiene in sé passato e presente, valori tradizionali e aspirazioni legate alla contemporaneità. Nel film [Ragazze d’oggi], la storia di tre sorelle ventenni in cerca di marito è l’espediente per educare spettatori e spettatrici alla figura di una «donna nuova»: spigliata, interessata al lavoro e allo studio, desiderosa di essere compagna del proprio sposo, disposta a seguire i sentimenti piuttosto che il calcolo e la ricchezza, […] pura, che rifiuta i rapporti sessuali prima del matrimonio ed è pronta al sacrificio in nome dei propri nobili principi»[25].
Si chiama Anna anche il personaggio che Marisa Allasio incarna nella commedia collegiale Le diciottenni, remake del film del 1941 Ore 9: lezioni di chimica, sempre dello stesso Mattoli: Marisa Allasio, nel ruolo che fu di Alida Valli, è la studentessa più intraprendente e battagliera del collegio.
Il personaggio chiave della sua carriera è però Giovanna, interpretata in Poveri ma belli (Dino Risi, 1956) [26] e nel sequel Belle ma povere (Dino Risi, 1957): in entrambi i film della saga l’esuberanza del personaggio di Marisa Allasio è in giustapposizione con le co-protagoniste femminili, “le cognatine” Lorella De Luca e Alessandra Panaro. In particolare però Giovanna incarna una nuova concezione del rapporto di coppia e delle dinamiche di corteggiamento, si dimostra spigliata e si prende gioco dei protagonisti maschili – Maurizio Arena e Renato Salvatori – scardinando il tradizionale rapporto tra maschile e femminile [27].

Grazie al successo di Poveri ma belli, Marisa Allasio giunge brevemente al culmine della sua popolarità, diventando la protagonista unica di una serie di commedie che caratterizzeranno definitivamente il suo personaggio: Camping (Franco Zeffirelli, 1957), Marisa la civetta (Mauro Bolognini, 1957), Susanna tutta panna (Steno, 1957) e Carmela è una bambola (Sergio Puccini, 1958) e Venezia, la luna e tu (Dino Risi, 1958).
In Camping, opera prima di Franco Zeffirelli, la Allasio interpreta Valeria, ventenne spigliata e disinvolta che parte con il fratello Nino (Nino Manfredi) e il fidanzato Tao (Paolo Ferrari) in motocicletta e sidecar per fare una vacanza in tenda. La trama è esile e ruota attorno all’esuberanza della protagonista femminile: Valeria sa quello che vuole, risponde per le rime a chi le fa i complimenti per strada, non esita a rivendicare con parole e comportamenti la propria indipendenza.
Nel film il suo corpo viene esaltato dai vestiti aderenti e scollati, dai pantaloncini e dal bikini; lo sguardo della macchina da presa la segue e si sofferma su di lei; le inquadrature sono quasi tutte a figura intera, sottolineando costantemente la sua veemenza caratteriale e fisica.
In modo simile viene mostrata anche in Marisa la civetta, in cui interpreta una diciassettenne orfana, cresciuta nella stazione di Civitavecchia.

Nel film Marisa è consapevole del proprio fascino e “civetta” per far innamorare di sé tutti i personaggi maschili del film, un po’ per gioco e un po’ per scommessa. L’enfasi sul corpo di Marisa Allasio percorre anche tutto il film Susanna tutta panna, sin dai titoli di testa, costruiti su un gioco ammiccante e seducente tra la macchina da presa e la protagonista. In Carmela è una bambola, la Allasio interpreta Carmela, giovane avvocato e promessa sposa, che soffre di sonnambulismo a causa dei suoi desideri repressi nei confronti del concorrenti in affari del padre, Toto, interpretato da Nino Manfredi. Anche l’ultima apparizione cinematografica la vede interpretare Nina, un personaggio simile a quello degli altri suoi film: anche qui è contesa fra due pretendenti, il fidanzato Bepi (Alberto Sordi) e il devoto corteggiatore Toni (Nino Manfredi). Anche Nina è una ragazza molto decisa e spigliata, sa quel che vuole e non esita a rivendicarlo con veemenza fisica e verbale; gioca con il proprio fascino ma alla fine sceglierà comunque di sposarsi per amore con il fidanzato gondoliere, che continua a fare il cascamorto con le turiste – e che lei continuerà a sorvegliare e ricondurrà alla fedeltà coniugale con lanci di lattuga.
È possibile rintracciare una certa somiglianza tra tutti i ruoli da lei interpretati: in tutti i suoi film continua ad incarnare il ruolo della bella del quartiere la cui vistosa femminilità è esibita attraverso l’enfasi sul corpo; caratterialmente i suoi personaggi sono sempre quelli della ragazza moderatamente spregiudicata e con il sorriso negli occhi, che gioca a sedurre, consapevole della propria avvenenza. Sul grande schermo esprimeva un nuovo modello sociale di donna allegra e spigliata, intraprendente, dal carattere fiero e caparbio, consapevole del proprio potere sugli uomini ma allo stesso tempo dotata di grande ingenuità e saldi principi morali, la cui condotta poteva comunque essere considerata accettabile perché comunque sempre ricondotta alla tradizione[28].
Secondo Pierre Sorlin, «Il ritratto degli attori nasce dai ruoli interpretati, dal loro aspetto (e dalla voce), dal modo in cui sono stati filmati, e questi elementi sono le basi per la costruzione di un’immagine. […] Le immagini cinematografiche sono inseparabili da quelli che sono i personaggi, e l’uso del verbo “essere” è intenzionale dato che i personaggi di finzione non esistono al di fuori dello schermo e al di là della loro interpretazione e ripresa»[29]: Marisa Allasio era perciò associata immediatamente alle caratteristiche fisiche e di comportamento che caratterizzavano il suo personaggio di scena e che, in un orizzonte cinematografico popolato da maggiorate o fidanzatine, poteva essere interpretato come una proposta ideologica di un nuovo modo di essere donna: nonostante le giovani interpretate dalla Allasio siano sempre accomunate da una grande disinvoltura nell’affrontare la vita e soprattutto il rapporto con gli uomini, esse mettono in scena una figura femminile che è un campione dell’emancipazione dal quale le giovani spettatrici possono mutuare alcuni esempi di modernità consentita e, proprio per questo, depotenziata nei tratti più liberatori”[30]
Il suo personaggio è evocativo di un’immagine contraddittoria: non è un corpo di donna-oggetto passivo dello sguardo maschile, ma è al contrario una ostentazione consapevole delle proprie forme in modo intraprendente, che tuttavia rientra sempre nei canoni del lecito e non ha nulla a che fare con la spregiudicatezza inquieta e la libertà sessuale introdotta da Brigitte Bardot[31], alla quale viene tuttavia paragonata per una certa somiglianza fisica.
Il personaggio di Marisa Allasio è più una figura di derivazione goldoniana, che usa la sua bellezza per giocare con gli uomini, senza trasgredire davvero le regole morali[32]. Le sue ribellioni sono scevre di intenzioni polemiche e conflittuali; il suo modo di essere è la sintesi degli aspetti rassicuranti della femminilità tradizionale con tratti caratteriali moderni: incarna un condensato di valori tradizionali nella figura curvilinea da “maggiorata fisica”, ma non è pura e semplice presenza corporea. Professa aspirazioni legate alla modernità, come il voler essere libera nelle proprie scelte, secondo un modello positivo e consentito di indipendenza.
[1] Maria Chiara Liguori, Donne e consumi nell’Italia degli anni cinquanta, in “Italia contemporanea”, dicembre 1996, n.205, p.665 – 689: 683
[2] Enrico Giacovelli, La commedia all’italiana, Gremese, p.28
[3] Secondo Enrica Capussotti «i corpi delle donne sono […] al centro delle configurazioni discorsive e si presentano come testi culturali, che contemporaneamente raccontano i modelli femminili sedimentati nell’immaginario collettivo e i desideri di libertà delle donne» in Enrica Capussotti, Modelli femminili e giovani spettatrici: donne e cinema in Italia durante gli anni Cinquanta, p.417, in N. M. Filippini, T. Plebani, A. Scattigno (a cura di), Corpi e storia, Roma, Viella, 2002, pp. 417- 434.
[4] Simonetta Piccone Stella, Per uno studio sulla vita delle donne negli anni Cinquanta, in “Memoria”, n.2, ottobre 1981, pp. 9 -35; 9.
[5] L’art. 3 della Costituzione italiana recita “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso […]”.
[6] Già il 1 febbraio 1945 venne emanato il decreto legislativo luogotenenziale n. 23 che conferiva il diritto di voto alle italiane che avessero almeno 21 anni; l’elettorato passivo fu conferito alle italiane di almeno 25 anni dal decreto n. 74 datato 10 marzo 1946 e lo stesso anno le donne furono chiamate a votare prima per le elezioni amministrative e poi per il referendum istituzionale del 2 giugno 1946.
[7] Sandro Bellassai, La legge del desiderio. Il progetto Merlin e l’Italia degli anni Cinquanta, Carocci, Roma, 2006, p.7
[8] Simonetta Piccone Stella, Per uno studio sulla vita delle donne negli anni Cinquanta, in “Memoria”, n. 2, ottobre 1981, pp. 9 – 35
[9] Gian Piero Brunetta, Storia del cinema italiano, vol.III, Editori Riuniti, Roma, 1993, p.592
[10] David Forgacs e Stephen Gundle, Cultura di massa e società italiana 1936 – 1954, Il Mulino, Bologna, 2007, p.97.
[11] Maria Grazia Franchi, Roberta Lietti, Il ruolo del cinema nella formazione dell’identità italiana lungo gli anni ‘50, in F. Anania, La pedagogia dei media nel secondo dopoguerra, Memoria e Ricerca, n.10, 1997, pp. 28-29. Inevitabilmente dunque, il cinema in questi anni ha avuto anche un’influenza sull’immaginario maschile, preparando i cambiamenti che sarebbero avvenuti nella vita dei futuri mariti e padri in relazione alle nuove dinamiche di coppia e familiari.
[12] Enrica Capussotti, Modelli femminili e giovani spettatrici: donne e cinema in Italia durante gli anni Cinquanta, cit., p.418.
[13] Stephen Gundle, Figure del desiderio. Storia della bellezza femminile italiana dall’Ottocento a oggi, Laterza, Bari, 2007, p. 286
[14] Gian Piero Brunetta, Il cinema legge la società italiana, p.786
[15] Roberta Lietti, Campioni d’incasso nel cinema italiano degli anni Cinquanta, nell’Appendice in Federica Villa (a cura di), Cinema e cultura popolare nell’Italia anni Cinquanta, “Comunicazioni sociali”, 2-3, aprile settembre 1995, p. 329
[16] Gian Piero Brunetta, Storia del cinema italiano, op. cit., p.557.
[17] Vittorio Spinazzola, Cinema e pubblico. Lo spettacolo filmico in Italia 1945 – 1965, Bompiani, Milano, 1974 p.113.
[18] Gino Frezza, Figure dell’immaginario, Areablu edizioni, Salerno, 2015, pp.173 e ss.
[19] Il termine viene usato per la prima volta dal personaggio di Vittorio De Sica nell’episodio blasettiano Il processo di Frine in Altri tempi (1952) per definire Gina Lollobrigida.
[20] Stephen Gundle, Feminine Beauty, National Identity and Political Conflict in Postwar Italy, 1945-1954, in “Contemporary European History” 8, n.3, 1999, pp.359-378.
[21] Stefano Masi, Enrico Lancia, Stelle d’Italia. Piccole e grandi dive del cinema italiano dal 1945 al 1968, Gremese Editore, Roma, 1989, pp. 61 e ss..
[22] Vittorio Spinazzola, op. cit., p.121.
[23] è come la definisce Masolino d’amico in La commedia all’italiana. Il cinema comico in Italia dal 1945 al 1975, p.136.
[24] Le vengono attribuiti anche Gli eroi della domenica (Mario Camerini, 1952) e Perdonami (Mario Costa, 1953) ma lei ha chiarito il suo esordio in un colloquio con Franco Cauli, Marisa Allasio tra autocritica e verità, in Dario Quarta (a cura di), Festival del cinema italiano. Sesta edizione Palazzo delle Esposizioni, Roma, 1-6 dicembre 1993, Actas, 1993, p.77 e ss. e anche in Fabio Melelli, Storie del cinema italiano. Quarantacinque interviste, Perugia, Morlacchi Editore, 2002, p.7.
[25] Enrica Capussotti, Gioventù perduta. Gli anni cinquanta dei giovani e del cinema in Italia, Firenze, Giunti, 2004, p.188.
[26] Poveri ma belli è il primo film negli incassi della stagione 1956-1957 ed è il lavoro con cui Marisa Allasio consacra la propria immagine nell’immaginario collettivo degli italiani: il personaggio di Giovanna nel film di Risi non è caratterialmente molto diverso dagli altri che ha interpretato.
[27] Secondo Gian Piero Brunetta, l’atteggiamento dissacrante nei confronti della mascolinità «è frutto del nuovo ruolo assunto dalla donna durante la guerra e dalla perdita di credibilità dell’uomo che l’esito bellico ha prodotto». Cfr. Gian Piero Brunetta, Il cinema legge la società italiana, in Storia dell’Italia repubblicana, vol. II, La trasformazione dell’Italia: sviluppo e squilibri, tomo II “Istituzioni, movimenti, culture”, Einaudi, Torino, 1995, p. 786.
[28] Nonostante l’ostentazione di indipendenza e libertà, anche i personaggi interpretati da Marisa Allasio aspirano a realizzare il più tradizionale dei sogni da fanciulla: il matrimonio.
[29] Pierre Sorlin, Cinema e identità europea: percorsi nel secondo Novecento, Milano, La Nuova Italia, 2001 p.15
[30] Enrica Capussotti, Gioventù perduta, op. cit., p.188.
[31] Gian Piero Brunetta, Storia del cinema italiano, op. cit., p. 591.
[32] Gian Piero Brunetta, Il cinema legge la società italiana, op. cit., p.804