Recensione: Marco Adorni, Voci di vetro. Testimonianze di vita alla Bormioli Rocco di Parma

Marco Adorni è un ricercatore del Centro studi movimenti di Parma. I suoi interessi di studio spaziano dalla storia urbana e del territorio alla massoneria e alla vita economica, e la sua produzione copre un vasto arco cronologico che si estende dal Medioevo all’età contemporanea. È quindi un ricercatore estremamente versatile quello che in questo lavoro si confronta con gli approcci e le metodologie della storia orale. Voci di vetro è infatti una raccolta di racconti di vita di quindici persone – in prevalenza operai, ma anche un impiegato e due dirigenti – che hanno lavorato alla Bormioli Rocco di Parma, un grande stabilimento del gruppo italiano leader nella lavorazione del vetro attivo nella città emiliana dai primi del Novecento fino alla chiusura nel 2004.

Il volume si compone di un’introduzione che illustra struttura e obiettivi del lavoro e di due lunghi capitoli, nei quali sono raccolte le trascrizioni delle interviste, realizzate dall’autore nella maggioranza dei casi con l’ausilio di un altro ricercatore del Centro studi movimenti, William Gambetta. Il testo è poi corredato da un inserto iconografico comprendente una trentina di fotografie in bianco e nero – tratte sia dall’archivio della Biblioteca Bormioli Rocco che da vari archivi privati – che ritraggono lo stabilimento, i dirigenti e le maestranze in posa, scene di lavoro e momenti di vita aziendale, iniziative sindacali e manifestazioni di piazza dei dipendenti.

Il punto focale intorno al quale verte il lavoro di Adorni è dichiaratamente quello della soggettività delle persone intervistate: ciò che all’autore interessa esplorare, attraverso i ricordi dei testimoni, è la loro esperienza alla Bormioli Rocco, la loro visione del lavoro e della propria identità professionale, i loro rapporti con i colleghi, i capi e i dipendenti, il loro atteggiamento nei confronti della vita di fabbrica e il loro coinvolgimento nelle attività sindacali e nei conflitti di lavoro. In altre parole, ciò che qui si vuole proporre non è una ricostruzione complessiva della storia della Bormioli Rocco di Parma, ma un mosaico di storie di persone che hanno attraversato quello spazio della produzione nel corso di un secolo (le «voci di vetro» che danno appunto il titolo al volume).

Adorni si mostra, giustamente, molto attento alla dimensione dell’intersoggettività che – com’è ampiamente noto – è un elemento costitutivo della fonte orale. Egli introduce dunque la trascrizione di ciascuna intervista con una breve descrizione della persona intervistata, del luogo in cui si è svolto il colloquio (spesso, ma non sempre, a casa degli intervistati stessi) e dei rapporti tra i ricercatori, i testimoni e gli eventuali mediatori. Ciò consente al lettore di contestualizzare adeguatamente i racconti di vita, valutando l’occasione in cui furono prodotti e facendosi un’idea di massima della personalità e degli atteggiamenti dei narratori. A ciascuna intervista segue poi una scheda analitica, nella quale l’autore, riflettendo sui ricordi dei testimoni, interpreta i temi principali che emergono dai loro racconti e le loro modalità di autorappresentazione. A differenza di altre raccolte di testimonianze autobiografiche, qui non ci si limita, insomma, a registrare e trascrivere la storia di vita presumendo che essa “parli da sé”, ma ci si premura di analizzarne criticamente forma e contenuti attraverso un apprezzabile lavoro di destrutturazione e interpretazione delle memorie personali.

Attraverso i racconti dei testimoni, il lettore è proiettato all’interno dello stabilimento ed è messo di fronte alle dure condizioni di lavoro in un ambiente estremamente caldo, rumoroso e insalubre, il cui ciclo produttivo si estende senza interruzioni per tutte le ventiquattr’ore di ogni giorno della settimana. Gli intervistati raccontano le grandi trasformazioni della fabbrica tra gli anni Trenta e la fine del secolo scorso: dalla lavorazione manuale del vetro all’introduzione delle prime macchine, fino alla completa automazione del processo produttivo. Gli altri temi principali che emergono dalle narrazioni di memoria sono i rapporti personali in fabbrica, le lotte intraprese dagli operai, le conquiste raggiunte in termini di miglioramento delle condizioni di lavoro, ampliamento delle libertà sindacali, dotazione di strutture e servizi di assistenza e solidarietà, ecc.

Nel complesso, il quadro interpretativo proposto da Adorni è piuttosto semplice. Nei racconti di alcuni testimoni (quelli che sono riuniti nel primo capitolo) egli ravvisa una tendenza di fondo a presentare la propria esperienza alla Bormioli Rocco in chiave di sostanziale condivisione degli obiettivi produttivi dell’azienda e di partecipazione a una forte dimensione comunitaria, declinata secondo codici familiari e ricordata non di rado con accenti di nostalgia. All’interno di questo «filone sentimentale-comunitarista» (p. 16), l’autore distingue tra coloro che esprimono un sentimento di appartenenza all’azienda globalmente intesa come comunità affettiva, e coloro che invece limitano la dimensione di condivisione e solidarietà alla componente operaia dei colleghi. In un altro gruppo di racconti (quelli che compongono il secondo capitolo), al contrario, le linee di conflitto prevalgono nettamente su quelle di condivisione e solidarietà. Non si tratta solo dello scontro politico-sindacale tra gli operai e la dirigenza, ma anche, in alcuni casi, di relazioni conflittuali interne allo stesso corpo operaio: tra lavoratori di diversi reparti e addetti a diverse mansioni, tra esponenti di generazioni differenti, tra uomini e donne, ecc.

A dire il vero, questo impianto interpretativo non appare sempre pienamente convincente, e in alcuni casi rischia di risultare un po’ schematico, se non addirittura forzato. Ad esempio, sulla base della lettura delle rispettive interviste, l’inclusione di alcuni operai (come Emilio Boni e William Atti) tra coloro i cui racconti sono incentrati sul registro dell’identificazione con la comunità aziendale suscita più di qualche riserva. Un altro appunto che si può muovere al lavoro – e che rivela una certa tendenza all’autoreferenzialità propria di molta storia locale – è che forse non avrebbe guastato, nell’introduzione, una sintetica ma più precisa illustrazione dei principali snodi della vita dello stabilimento (a partire dalla sua entrata in funzione, genericamente collocata nel primo decennio del Novecento senza più precise indicazioni cronologiche in merito). Diverse vicende cruciali per la comprensione delle narrazioni dei testimoni (trasformazioni del sistema produttivo, mobilitazioni operaie e conflitti di lavoro, ecc.), sono infatti illustrate in modo frammentario qua e là nel volume, il che, per chi non conosca il contesto specifico, appesantisce la lettura delle interviste rendendola piuttosto dispersiva.

Si tratta, comunque – almeno nel primo caso –, di aspetti di cui Adorni stesso mostra di essere consapevole, e che nel complesso non inficiano il valore di un lavoro di ricerca che si rivelerà senz’altro prezioso per quanti si cimenteranno con la storia di Parma e del suo territorio, ma che potrà offrire stimoli interessanti anche a quanti vorranno studiare più in generale i temi del lavoro industriale, della soggettività operaia, delle relazioni di fabbrica e dei conflitti sindacali nell’Italia del Novecento.

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