Una famiglia in esilio. I Trentin nell’antifascismo europeo

La mostra storico-fotografica Una famiglia in esilio. I Trentin nell’antifascismo europeo è stata inaugurata a Venezia il 15 febbraio 2017 alla Fondazione Querini Stampalia. Veneziani sono i curatori – Giovanni Sbordone, Lorenzo Ghidoli e Luisa Bellina – e veneziane sono le associazioni che hanno promosso l’evento: il Centro documentazione e ricerca Trentin, l’Istituto veneziano per la storia della Resistenza e della società contemporanea (Iveser) e l’Associazione per la memoria e la storia delle donne in Veneto “rEsistenze”, in collaborazione con gli Archivi fotografici e digitali del Comune di Venezia. La mostra, tuttavia, non si limita a documentare il periodo veneziano della famiglia Trentin, ma ha il merito di restituirci, attraverso una ricca collezione fotografica, il senso del percorso antifascista autenticamente europeo dei Trentin. Tale viaggio inizia nel gennaio del 1926, quando Silvio Trentin[1] – allora docente di Diritto pubblico presso l’Istituto Superiore di Commercio a Venezia – prende la decisione di dimettersi come forma di protesta contro il processo di fascistizzazione del mondo universitario. Sebbene l’anno prima ben 143 docenti antifascisti (tra cui lo stesso Trentin) avessero sottoscritto il Contromanifesto redatto da Benedetto Croce, in antitesi a quello di Giovanni Gentile, soltanto pochi – appena tre: Silvio Trentin, Gaetano Salvemini e Francesco Saverio Nitti – decidono di abbandonare l’insegnamento quando, per legge, è chiesto a tutti i funzionari dello Stato di attenersi all’ideologia politica fascista.

In genere, per l’ambiente universitario è difficile poter utilizzare la categoria di «antifascismo»[2]. L’antifascismo dichiarato, infatti, è stato un fenomeno che ha riguardato uno sparuto gruppo di docenti – e Silvio Trentin spicca fra questi – e che, per effetto di esili ed espulsioni, è stato per lo più circoscritto agli anni iniziali del regime. Quando infatti nel 1931 avviene la “resa dei conti”, all’Università di Padova, la più numerosa e importante del Triveneto, nessuno si rifiuta di prestare giuramento al regime; solamente Giulio Alessio, una delle «tre anime nere della reazione antifascista», come lo definisce Mussolini, in pensione dal 1928, figura tra i dieci accademici che scelgono di non giurare all’Accademia dei Lincei[3].

Secondo Elisa Signori, dunque, il mondo universitario «si adattò al nuovo contesto senza divenire il fulcro di una resistenza aperta al fascismo»[4].

Silvio Trentin decide di non adattarsi: si tratta di una scelta gravida di conseguenze poiché è costretto a lasciare l’insegnamento. Molti giuristi, invece, si adattarono; altri addirittura, come Alfredo Rocco, si prestarono a codificare il nuovo diritto fascista. Silvio Trentin no: «se fossi un professore di matematica forse potrei restare», scrive il giurista a Luigi Luzzatti, «ma come professore di diritto, come posso restare qui a insegnare quando l’attuale regime è contrario a tutto ciò in cui credo?»[5]. Con lucida coerenza, decide di abbandonare tutto: il lavoro, la città di Venezia, la bella casa in cui vive con la moglie Beppa e i figli, e l’Italia, il suo paese, in cui non vede più garanzie di libertà. I Trentin partono per la Francia: nell’arco di un mese, tutti i beni della famiglia sono caricati su un treno che li porta a Pavie, un paesino vicino a Tolosa. Lì Silvio sente finalmente di poter «godere a pieni polmoni la libertà»[6]. E in questo clima crescono i figli Giorgio e Franca, che, al momento dell’esilio, hanno appena 8 e 6 anni. Bruno, l’ultimogenito – il futuro leader sindacale e deputato – nasce alla fine del 1926, già in esilio.

La famiglia veneta crede che l’esilio possa essere breve; durerà, invece, ben 17 anni. Sono anni di privazioni: i Trentin, famiglia ben integrata nell’alta borghesia veneziana, perdono tutto, ma non l’onore e la dignità. I piccoli Trentin sono quelli che, forse, soffrono di più per la scelta del padre: ridicolizzati dai loro coetanei, appellati come “petits macaronis”, si sentono derisi quando i francesi si riferiscono all’Italia di Mussolini. Sulla loro pelle brucia il dilemma – eterno – del migrante: svestire i propri panni d’origine per farsi accettare dalla nuova comunità, oppure rivendicare con orgoglio la propria nazionalità, rischiando quasi di mitizzarla? I fratelli Trentin, infatti, vivono l’esilio con animi molto differenti: Franca subisce il sentimento della vergogna per il suo essere italiana; Giorgio, il maggiore e quello che ha vissuto più a lungo a Venezia, si sente sradicato e non riesce a pensare alla Francia come alla sua nuova patria; Bruno, che in Italia non ha mai messo piede, si considera francese a tutti gli effetti, ma non esiterà a mettersi in gioco in prima persona durante la Resistenza italiana. Sullo sfondo sempre la patria, alla quale Silvio non ha mai voltato le spalle.

Nel 1934 i Trentin affrontano l’ennesimo trasloco, questa volta diretti a Tolosa, dove Silvio acquista e gestisce la famosa librarie du Languedoc: da lì osserveranno la catastrofe della guerra europea. Due anni dopo scoppia infatti la guerra civile spagnola e la libreria tolosana diviene uno snodo fondamentale per la causa repubblicana in Spagna: «Oggi in Spagna, domani in Italia». La guerra di Spagna è un’esperienza generazionale e un punto di svolta in casa Trentin: i ragazzi sono affascinati dai volontari che transitano per casa prima di raggiungere le Brigate Internazionali. E l’antifascismo di Silvio diviene transnazionale, un sentimento che lo accomuna a tutti i libertari d’Europa.

Da quel momento l’impegno dei Trentin è costante: non solo in Spagna, ma anche in Francia, prima tra i rifugiati spagnoli a seguito della vittoria di Franco, poi nella lotta clandestina durante l’occupazione tedesca. È l’intera Europa a essere messa sotto scacco – l’idea europea dei diritti dell’uomo e del cittadino – e non ci sono frontiere, reali o personali, che possano circoscrivere l’impegno antifascista e libertario di questa famiglia veneta.

Il 25 luglio 1943 sembra aprirsi uno spiraglio per riabbracciare finalmente l’Italia. L’impellenza di tornare a casa porta Silvio a mettere a repentaglio la sua stessa salute fisica: è disposto a percorrere un lungo viaggio clandestino dalla Francia – passando per Spagna e Nord Africa, fino a sbarcare in Sicilia – ma il suo cuore, messo a dura prova, dà segni di cedimento e lo obbliga a desistere. Riesce a raggiungere comunque l’Italia da Ventimiglia, quando il governo Badoglio apre le frontiere e permette il rientro degli esuli. A San Donà di Piave, sua cittadina natale, Silvio è accolto da una folla festante: quegli stessi italiani che avevano abbassato il capo al momento della sua partenza per la Francia ora lo guardano come guida e riferimento morale.

Tuttavia l’8 settembre segna il ritorno alla clandestinità. Come leader del Partito d’Azione, Silvio si impegna nella Resistenza antifascista. Al suo fianco ha il figlio minore, Bruno che, per dare ordine al suo straripante entusiasmo, sente il bisogno di fermare sulla carta le proprie emozioni tenendo un diario di guerra[7]. Anche Giorgio partecipa alla Resistenza nel Basso Piave e si prende cura della madre Beppa. Franca, invece, è rimasta in Francia, impegnata nella resistenza antitedesca. Ciascuno ha un ruolo attivo nella lotta di Liberazione dal nazi-fascismo, fino alla morte di Silvio, avvenuta a Monastier il 12 marzo 1944, che segna l’epilogo di questa vicenda famigliare eccezionale.

Non vi è rimpianto, tuttavia, per gli anni trascorsi in esilio e clandestinità. Quando la famiglia Trentin si riunisce a Venezia nel 1949, sul camino di casa faranno incidere: «Et s’il était à refaire, je referais ce chemin» («E se bisognasse rifarlo, rifarei questo cammino»). Del resto, le foto presenti in mostra – rinvenute per lo più nel ricco archivio fotografico che Franca Trentin, alla sua morte, ha lasciato all’Associazione rEsistenze – parlano chiaro: i volti sono fieri, negli occhi il guizzo di chi non si è piegato alle traversie della vita, ma si è impegnato a dare un senso che travalichi la propria piccola individualità. I Trentin hanno vissuto e combattuto per una causa, quella della libertà.

Questo è un album di famiglia, ma che parla a noi, a noi europei che viviamo una crisi d’identità e valori. Grazie al patrocinio del Consiglio d’Europa, l’auspicio è che la mostra possa proseguire il proprio cammino lungo le rotte europee dell’antifascismo. Mai come adesso l’Europa dovrebbe ricercare le proprie radici identitarie in esempi di chi ha vissuto e lottato, travalicando i confini nazionali, per la libertà e la democrazia.

Dopo la “prima” veneziana, nel maggio 2017 la mostra sarà ospitata a Torino nella sede del Consiglio Regionale del Piemonte (Palazzo Lascaris).

 

Prima dell’esilio: Beppa Trentin (a destra) con i figli Giorgio e Franca e due amiche in piazza S. Marco, 1923 ca.

 

Trascrizione della lettera con cui Silvio Trentin rassegnava le sue dimissioni dall’Istituto Superiore di Scienze Economiche e Commerciali di Ca’ Foscari.

 

La famiglia Trentin nei primi tempi dell’esilio in Francia, Pavie 1926.

 

«Professore con vacche»: Silvio Trentin dirige i lavori nella tenuta agricola di Pavie, 1926.

 

La libreria dei Trentin a Tolosa.

 

6 settembre 1943: Silvio Trentin, di ritorno dopo 17 anni di esilio, viene accolto da una folla festante a San Donà di Piave, sua città natale; alle sue spalle si scorge il figlio Bruno.

 

Locandina della mostra storico-fotografica “Una famiglia in esilio. I Trentin nell’antifascismo europeo”

 

[1] Silvio Trentin, Diritto e democrazia, a cura di Giannatonio Paladini, Marsilio, Venezia 1988; Frank Rosengarten, Silvio Trentin dall’interventismo alla Resistenza, Feltrinelli, Milano 1980; Carlo Verri, Guerra e libertà. Silvio Trentin e l’antifascismo italiano (1936-1939), Roma, XL edizioni, 2011.

[2] Sulla complessità nel definire l’atteggiamento degli intellettuali di fronte al fascismo e sull’uso e l’abuso della categoria di «nicodemismo» cfr. Angelo Ventura, Sugli intellettuali di fronte al fascismo negli ultimi anni del regime, in Id., a cura di, Sulla crisi del regime fascista 1938-1943. La società italiana dal «consenso» alla Resistenza. Atti del convegno nazionale di studi. Padova, 4-6 novembre 1993, Marsilio, Venezia 1996, pp. 365-386. Cfr., inoltre, Gabriele Turi, Casa Einaudi. Libri uomini idee oltre il fascismo, il Mulino, Bologna 1990.

[3] Alba Lazzaretto, Giulio Alessio e la crisi dello Stato liberale, Cleup, Padova 2012, in particolare p. 146. Sul giuramento cfr. Giorgio Boatti, Preferirei di no. Le storie dei dodici professori che si opposero a Mussolini, Einaudi, Torino 2001; Helmut Goetz, Il giuramento rifiutato. I docenti universitari e il regime fascista, La nuova Italia, Firenze 2000.

[4] Elisa Signori, Università e fascismo, in Storia delle Università italiana, a cura di Gian Paolo Brizzi, Piero Del Negro, Andrea Romano, Sicania, Messina 2007, p, 385.

[5] Cfr. Rosengarten, Silvio Trentin, cit., p. 87.

[6] Così in una lettera a Gaetano Salvemini datata 5 marzo 1926 (Archivio dell’Istituto storico della Resistenza in Toscana).

[7] Bruno Trentin, Diario di guerra (settembre-novembre 1943), introduzione di Iginio Ariemma, postfazione di Claudio Pavone, Donzelli, Roma 2008.

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    By: Giulia Simone

    Giulia Simone è dottore di ricerca in “Storia sociale europea dal medioevo all’età contemporanea” (Università Ca’ Foscari di Venezia, 2011). Attualmente svolge attività di ricerca presso il Dipartimento di Scienze storiche, geografiche e dell’antichità (DISSGEA) dell’Università di Padova. Si occupa in particolare della storia dell’Università italiana nell’età contemporanea, del nazionalismo, della persecuzione antiebraica.
    Tra le sue recenti pubblicazioni: Sui banchi di scuola tra fascismo e Resistenza. Gli archivi scolastici padovani (1938-1945), Padova, Padova University Press, 2016 (con Fabio Targhetta); Fascismo in cattedra. La Facoltà di Scienze politiche di Padova dalle origini alla Liberazione (1924-1945), Padova, Padova University Press, 2015; Il Guardasigilli del regime. L’itinerario politico e culturale di Alfredo Rocco, Milano, Franco Angeli, 2012.

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