Ufficio Zone di confine. La difesa dellʼitalianità in funzione anticomunista

 

Introduzione

Questa rassegna presenta tre recenti opere[1] che, nel panorama degli studi dedicati alle zone di confine, offrono un oggetto di ricerca inedito, specialmente per ciò che riguarda la categoria della “italianità”: lʼUfficio per le Zone di Confine[2].

La sua documentazione, rimasta per decenni nel limbo delle ricerche archivistiche[3], è riemersa nel corso delle indagini sullʼinchiesta giudiziaria Argo 16, avviata dal giudice istruttore del tribunale di Venezia Carlo Mastelloni nel 1987, e grazie al lavoro che Aldo Giannuli ha svolto in qualità di perito della Commissione Stragi, presso i depositi degli archivi della Presidenza del Consiglio di Castelnuovo di Porto (Roma)[4].

L’UZC fu un ufficio di assoluto rilievo per il coordinamento del rapporto governo centrale (Roma) e periferie settentrionali (Alto Adige), Nord-orientali (Trieste e Venezia Giulia) e Nord-occidentali (Valle dʼAosta)[5] nel secondo dopoguerra. Attraverso una persistente comunicazione intercorsa tra governo e amministrazione locale e regionale, lʼUZC garantiva un attento controllo del territorio per mezzo dellʼerogazione di ingenti finanziamenti, che spesso andavano oltre i meri scopi assistenziali e propagandistici dichiarati. Le carte dellʼUZC confermano che servizi segreti e gruppi paramilitari clandestini (composti per la maggior parte da ex militari, partigiani anticomunisti e militanti della destra neofascista) agirono congiuntamente per difendere “lʼitalianità” nelle aree di confine, potenzialmente in pericolo dai ricatti nazionalisti e (per la Venezia Giulia) ideologici degli Stati attigui.

 

  1. UZC, una panoramica generale

Il volume “La difesa dellʼitalianità. LʼUfficio per le zone di confine a Bolzano, Trento e Trieste (1945 -1954)”, curato da D. DʼAmelio, A. Di Michele, G. Mezzalira, racchiude i risultati di un gruppo di studio composto da storici italiani, sudtirolesi e sloveni sullʼUZC, che definisce le funzioni di tale Ufficio, dipendente dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, e delle ragioni per cui nel 1954, esso venne sciolto e le sue competenze trasferite allʼUfficio Regioni.

Il volume è composto da venti saggi, ciascun intervento elabora una propria chiave interpretativa specifica, e per questo complementare nellʼinsieme del lavoro, che si articola in due sezioni: la prima inerente allʼAlto Adige e il Trentino, mentre la seconda relativa alla Venezia Giulia.

Il saggio introduttivo di A. Di Michele inquadra il problema del trattamento delle minoranze, rilevando quanto lʼItalia fosse impreparata a gestirlo poiché «i tedeschi, gli sloveni e i croati che, contro il loro volere, da un giorno allʼaltro si ritrovarono cittadini italiani, rappresentavano una presenza qualitativamente e quantitativamente assai differente da quelle preesistenti»[6].

Lʼesistenza di tali gruppi minoritari inquieti e concentrati a ridosso dei confini, aveva posto seri problemi di ordine pubblico. Ruolo preminente fu quello del prefetto, quale organo periferico delegato del governo nelle singole province, che garantiva il monitoraggio dei problemi locali, e la tutela dellʼordine pubblico. In principio fu il prefetto Mario Micali, nominato il 15 aprile del 1944 capo della Direzione generale degli Affari generali e del personale del Ministero dellʼInterno, a venir posto alla guida dellʼUfficio per lʼAlto Adige e lʼUfficio per la Venezia Giulia.

Alla fine delʼ47 il Presidente del Consiglio De Gasperi, coadiuvato da Andreotti sottosegretario alla Presidenza, accorpò entrambi questi due Uffici nellʼUZC, affidandone la direzione al prefetto Silvio Innocenti sino al suo scioglimento[7].

Con questa impostazione lʼUZC divenne il centro strategico di controllo e attuazione delle politiche nelle regioni di frontiera, prefissando saldamente come obiettivo, il sostegno e la propaganda dellʼitalianità, davanti ad una complessa e problematica presenza di minoranze linguistiche, che rivendicavano la propria identità territoriale. L. Blanco osserva giustamente che le convivenze, tra plurime minoranze linguistiche, erano rese difficili dal presupposto di base che i territori di confine «per la loro intrinseca natura, sono oggetto di contesa: militare, diplomatica, politica e non meno significativa, culturale»[8].

Per ciò che riguarda la regione trentina, L. Steurer spiega le origini dellʼ“inimicizia ereditaria” tra austriaci e italiani, riconducendo la questione trentina alla percezione che gli austriaci avevano dellʼItalia: «la nazione che aveva “tradito” la Triplice alleanza nel maggio 1915 e lʼAsse italo-tedesco lʼ8 settembre 1943»[9]. Nel maggio delʼ45 fu fondata la Südtiroler Volkspartei[10] in qualità di “portavoce etnico” di tutti gli abitanti sudtirolesi di lingua tedesca e ladina, che rivendicava il diritto di autodeterminazione e di ritorno del territorio conteso allʼAustria, ponendosi in contrasto con le scelte politiche di De Gasperi e dei partiti locali del Cln.

Il 5 settembre 1946 fu siglato lʼAccordo di Parigi tra De Gasperi e il Ministro degli Esteri austriaco Karl Gruber, che prevedeva la tutela e il rispetto di una «completa eguaglianza di diritti»[11]. La Svp assunse il ruolo di garante affinché le clausole dellʼAccordo venissero ottemperate, ma le reazioni a seguire non mancarono, diversificandosi tra aspettative disattese e aspettative rispettate. Per G. Pallaver, con lʼAccordo De Gasperi – Gruber, si trasformò in «conflitto di interessi»[12]: se da un lato lʼAustria e la popolazione sudtirolese rivendicavano il territorio del Sudtirolo, dallʼaltro lʼItalia voleva mantenere il suo confine e per la sua tutela si rivelò essenziale «il forte legame tra società e partiti»[13].

G. Mezzalira sostiene che lʼapporto del fenomeno migratorio italiano, «si prestò a servire le ragioni della propaganda e della lotta politica»[14]: un richiamo politico del quale fruì la minoranza tedesca per infiammare lʼattenzione sulla questione dellʼAlto Adige. De Gasperi bloccò il flusso dei profughi giuliano dalmati, a seguito delle forti accuse della Svp al governo «di aver favorito, lʼimmigrazione allo scopo di alterare il rapporto numerico dei gruppi a favore di quello italiano»[15]. Il consolidarsi di una cospicua maggioranza italiana era obiettivo delle linee intraprese dal governo, «unʼazione diretta a soddisfare le istanze di tutela degli interessi italiani della provincia di Bolzano e che si sarebbe dovuta dispiegare in modo coordinato e incisivo grazie allʼopera dell’UZC»[16].

Tuttʼal più, nel modo in cui dà rilievo A. Di Michele, «solo conquistando il possesso del suolo ci si poteva considerare a buon diritto detentori del territorio, allo stesso modo in cui […] per rivendicare legittimamente un luogo bisognava prima di tutto essere in grado di chiamarlo nella propria lingua, senza affidarsi a toponimi «stranieri»»[17]. Prioritario fu il cercare di regolamentare la questione della cittadinanza – come emerge dallo studio condotto da S. Lechner – dal momento che lʼItalia non voleva «rinunciare in nessun caso a criteri di esclusione»[18].

C. Romeo spiega come allʼinterno del vasto circuito associazionistico, finanziato dallʼUZC in Alto Adige, la matrice cattolica fosse predominante grazie soprattutto al contributo del «Piano Campanile»[19]. Molteplici furono i fini sostenuti da questo piano, tra cui «lʼassistenza religiosa e spirituale»[20], atto principalmente a rafforzare il radicamento degli italiani nelle città di Bolzano e Merano e nei centri periferici[21].

La necessità di rientrare nei canoni della normalità era forte, ma ciò non bastava per superare certi retaggi istituzionali ancora legati al fascismo. E fu quasi impossibile superarli poiché, afferma L. Gardumi, «lʼelites antifascista non disponeva di personale «tecnico», tale da poter sostituire quadri e personale amministrativo», tanto più «non aveva senso epurare gli apparati dello stato se questi servivano alla ricostruzione del paese»[22].

Chiude la sezione trentina, una riflessione di M. Cau, che spiega come sul tema dellʼidentità nazionale, vi sia la costanza a farne un uso strumentale: lʼappartenenza ad un territorio, non può sintetizzarsi solo con fattori di carattere etnico, ma si misura anche con i «processi di costruzione sociale e culturale dellʼunità territoriale» [23].

Nella seconda sezione del volume dedicata al Friuli Venezia Giulia, M. Bucarelli ripercorre lʼaccendersi delle rivalità tra italiani e jugoslavi fin dalla Prima guerra mondiale. La degenerazione si estremizza durante la Seconda guerra e  si aggiunge il fattore politico ideologico: «in Jugoslavia, le vicende belliche permisero lʼaffermazione del partito comunista, impegnato non solo nella lotta contro l’occupazione nazifascista, ma anche nella trasformazione dello stato in una repubblica federale, socialista e anticapitalista»[24].

Per lʼItalia, che non intendeva rinunciare ai territori per i quali aveva combattuto nella Grande Guerra, la linea Morgan, definita con gli accordi di Belgrado il 9 giugno 1945, aveva un significato transitorio, cosa che invece si tradusse in unʼamara sconfitta, con la sigla del Trattato di Parigi il 10 febbraio 1947. Trieste si trovò nel vivo della propaganda per lʼespansione, il rafforzamento e la difesa del concetto di “italianità”, legato al tema della rinascita e della fondazione della Repubblica come nuovo ideale di Patria.

A. M. Vinci puntualizza come il rafforzamento dellʼ“italianità” fu tra le finalità che lʼUZC si pose: «per sovvenire tutte le realtà che in qualsiasi modo e a diverso titolo, operavano nelle zone di confine per il mantenimento dellʼidentità nazionale italiana»[25]. Questo clima, generatosi in tutta risposta ideologica anticomunista, aprì la strada ai giovani neofascisti. Lʼintento «era quello di fare di Trieste il punto focale di una battaglia da portare velocemente sulle piazze dʼItalia»[26].

In contro risposta, da parte jugoslava si trattò – oggetto di riflessione di J. Pirjevec – di una «vittoria di Pirro»: difficile infatti «scalfire lʼostilità di coloro che continuavano a guardare gli sʼciavi come razza inferiore»[27]. Gli italiani che subirono atrocità e persero la vita durante i rastrellamenti e nelle deportazioni nei campi di internamento sloveni, o nelle foibe, furono tragedie dal forte impatto emotivo, che hanno lasciato unʼeredità, solo recentemente riconosciuta con lʼistituzione del Giorno del Ricordo, che tuttʼora divide[28].

D. DʼAmelio osserva quanto lʼazione dellʼUZC fosse rilevante: «operò insistenti pressioni sulle organizzazioni politiche per la creazione di un blocco senza confini a destra, ritenendo lʼarea nazionalista e il Msi fondamentali per massimizzare il «plebiscito dʼitalianità»»[29].

A. Millo, affronta le connessioni «tra ambienti governativi, servizi segreti e forze dellʼeversione nera», come «diretta conseguenza del modo prescelto dal governo di Roma per condurre sul terreno, nei luoghi contesi» di quella che parrebbe sia stata a tutti gli effetti, «una parallela battaglia per la definizione dei confini orientali»[30].

N. Troha specifica che gli orchestratori della politica jugoslava, «furono i più ristretti vertici del partito jugoslavo e sloveno (o croati)»[31] e che anche da parte jugoslava furono costituite delle organizzazioni e associazioni di stampo nazionalistico, supportate finanziariamente dalle autorità istituzionali, per propagandare lʼannessione dei territori italiani alla Jugoslavia; allo stato attuale però, non si è in grado di verificare e quantificare lʼammontare delle spese di propaganda jugoslava[32].

Secondo lʼanalisi di P. Karlsen, la documentazione dellʼUZC offre carteggi molto interessanti «sul posizionamento geografico, le tecniche di addestramento e di indottrinamento ideologico messe in atto nei campi di reclutamento dell’Udba, la polizia politica del regime jugoslavo»[33]. Il governo centrale avvertiva la presenza slovena nella città come una vera minaccia: lʼincremento di nuove imprese slovene e la crescita demografica slovena nel corridoio Trieste-Monfalcone, lasciavano intuire che dietro ci fosse un piano strategico ben prestabilito. Per «controbilanciare ed arrestare la silenziosa colonizzazione slovena»[34], occorreva far confluire nel territorio quanti più profughi giuliani, valutando la portata delle conseguenze sul depotenziamento della presenza italiana dalla penisola istriana.

Una peculiarità riguardante i finanziamenti erogati dallʼUZC ai profughi, è stata approfondita da I. Bolzon: essi erano subordinati all’ottenimento della qualifica di «ottimi elementi italiani», qualità individuata in base a specifici parametri, tra i quali la fede politica di appartenenza e la lingua dʼuso comune[35].

L’esodo «risultò uno sforzo senza precedenti»: coloro che scelsero la via dellʼesilio, dovettero essere ricollocati con tutti i loro beni materiali, in unʼItalia che versava in condizioni disastrate. Lʼaccoglienza da parte dei connazionali non fu quella attesa, come testimoniano i numerosi problemi (atti di sciacallaggio, furti, ammanchi, danneggiamenti, trasporto masserizie, trasporto degenti, gestione salme), riportati da R. Spazzali, che i profughi si trovarono a risolvere[36]. Lʼentrata in vigore del Trattato di Parigi, siglò per lʼItalia «una sconfitta senza onore»[37].

D. DʼAmelio conclude il volume, considerando le frontiere come «ottimi laboratori per riflettere su rilevanti fenomeni dellʼetà contemporanea»[38]. La normalizzazione statuale avvenne con molte perplessità e reticenze, ma per De Gasperi fu inevitabile «ricreare lʼunità morale e territoriale della nazione, coltivando anche in chiave anticomunista lʼorgoglio patriottico attraverso il recupero delle retoriche prefasciste»[39].

Cʼè da chiedersi tuttavia, quanto sia stata effettivamente incidente la strategia dei finanziamenti dellʼUZC nel rafforzamento e nella difesa della italianità, e se dietro le tattiche delle covert operations, non ci fosse al vaglio lʼipotesi di stabilizzare e normalizzare la posizione della “neonata” Repubblica, per esercitare su di essa un maggiore controllo dallʼalto, tramite lʼadozione di “misure correttive” anticonvenzionali.

 

  1. Il pericolo rosso

In “Il pericolo rosso. Comunisti, cattolici e fascisti fra legalità ed eversione 1943-1969”, P. Neglie si è concentrato sul periodo 1943-1969, sui rapporti intercorsi tra Pci, Dc e Msi, e sulle organizzazioni paramilitari clandestine di cui ciascun partito si era dotato.

Neglie adotta con frequenza il termine “rivoluzione”, scelta che risulta funzionale nella suddivisione dellʼimpianto dellʼintero lavoro, e dove, capitolo primo a parte, “rivoluzione” trova nei successivi il suo participio consequenziale: «tradita», «fallita», rimandata», «sognata».

Cantava Giorgio Gaber, «se potessi mangiare unʼidea, avrei fatto la mia rivoluzione», denunciando le difficoltà della società nellʼassimilare e accettare determinati concetti, quando escono dal campo dellʼastrazione; in tal senso Neglie nel primo capitolo analizza il biennio 1943-1945, e si interroga sugli effetti di quella che è stata una vera e propria “guerra civile” “rivoluzionaria”.

Uno dei primi effetti riscontrati è stata la difficoltà di riconoscere le proprie colpe, la non accettazione di una realtà «più complessa di quella che per scelta è assurta a mito fondante»[40], il mancato superamento della «tara morale»[41], che avrebbe dovuto richiamare una revisione autocritica sulla condotta e i comportamenti degli italiani durante la guerra.

La mancata epurazione dei fascisti dalle funzioni pubbliche, il referendum del 2 giugno, lʼamnistia Togliatti, lʼentrata in vigore della Costituzione e poi le oltre 15.000 richieste di grazia accolte dal Presidente della Repubblica Einaudi, potevano davvero intendersi cesure con il passato, e quindi convergenze «sulle ragioni nuove dello stare insieme come comunità nazionale»[42]?

Due sono le contraddizioni che appaiono evidenti: 1) La Costituzione, che nellʼantifascismo trova il suo «fondamento giuridico e politico»[43], ha consentito il ricostituirsi di un partito con posizioni in netta continuità con il passato regime; 2) La Repubblica, si è trovata in una situazione sui generis, poiché al suo interno non solo aveva due partiti antisistema, ma uno di questi, il Pci, era in contrasto con la posizione italiana, che nel quadro delle relazioni internazionali era entrata a far parte del blocco occidentale anticomunista.

La “rivoluzione” del sistema di governo, che la stessa Resistenza si era auspicata di portare a compimento, venne «tradita», per lʼimpraticabilità politica, statale, militare e amministrativa: la continuità dello Stato aveva retto a quella prova, grazie alla coesione tra forze politiche, «in un paese dove il fascismo era stato condiviso troppo largamente»[44].

Nel 1947 lʼincrinarsi dei rapporti tra Stati Uniti e Unione Sovietica, mise in allerta la classe politica democristiana, che al fine di scongiurare quello che stava configurandosi come «pericolo rosso», sostenne la costruzione della Stay Behind in funzione anticomunista ed in ambito NATO. La rottura dei rapporti tra Tito e Stalin del giugno del 1948, aggravò ulteriormente lo scenario di Guerra Fredda, e pose al centro dellʼattenzione internazionale la questione di Trieste, «zona che segnava il confine tra due civiltà, due mondi decisamente ed irriducibilmente nemici»[45].

Sul piano nazionale la spaccatura si rifletté con la costituzione di formazioni clandestine partigiane bianche, verdi e nere, composte rispettivamente da cattolici, ex combattenti appartenenti alla Brigata Osoppo, uomini della X Mas e neofascisti, pronte allʼazione contro le formazioni, a loro volta clandestine, rosse, composte dai comunisti e filosloveni. Le strutture paramilitari clandestine furono numerose e operavano in stretta connessione con i vertici militari.

Neglie le passa in rassegna sinteticamente: Api (Associazione partigiani dʼItalia), Odi (Organizzazione difesa italiana), Fratelli dʼItalia, 3° Cvl (3° Corpo volontari della libertà, (mutato dopo alcuni incidenti di frontiera in Volontari Difesa Confini Italiani VIII e poi Organizzazione O), Avanguardia Cattolica, Movimento avanguardia cattolica italiano[46]. Per quanto riguarda invece le formazioni paramilitari comuniste, le informazioni non permettono ad oggi di ricostruire «la stessa versione in quanto a composizione, funzioni e attività, periodo di “azione”»[47].

Le conseguenze della guerra di Corea lasciavano presagire riflessi anche in Italia: occorreva blindare la democrazia e farne una «democrazia protetta» attraverso un duplice piano di azione, che prevedeva lʼassimilazione della cultura statunitense, lo sviluppo economico, e lʼutilizzo di «strumenti di natura repressiva ed offensiva» che agivano per il controllo e il condizionamento di tutti i settori sociali[48].

La guerra psicologica rivestì una funzione fondamentale, condizionando e orientando la libertà di pensiero degli individui: la “rivoluzione” era «fallita», perché lʼItalia finì per essere soggiogata dagli altri Stati internazionali, in virtù di quella etichetta di Stato vinto e sconfitto, rimarcata durante le conferenze di pace.

In realtà i tentativi da parte italiana per uscire da questa condizione di assoggettamento ci furono. Sulla scia delle giornate di rivolta ungheresi, il Psi, si allontanò dalla “scomoda” vicinanza con il Pci, coalizzandosi con la Dc. Siglò una svolta anche per la stessa Dc, che intravedeva nelle dirompenti trasformazioni della società, nuove consapevolezze per i lavoratori, per le donne e per gli studenti: «il tema sociale era particolarmente delicato e potenzialmente pieno di implicazioni politiche»[49]. Questa apertura a sinistra non piacque allʼamministrazione americana, che alimentò nuovamente gli apparati di guerra non ortodossa e le strategie del contenimento.

Secondo Neglie le finalità di Gladio, non erano volte soltanto a contrastare il «pericolo rosso» di invasione, ma anche contenere le spinte delle sinistre e del movimento operaio. Le svolte autoritarie internazionali della Turchia, dellʼAlgeria, del Brasile potevano essere prese come esempio di contenimento. Si trattava di dissuadere le classi proletarie da idee troppo riformiste e drastiche per il sistema, e quindi «democratizzarle e istituzionalizzarle»[50].

Il Piano Solo dellʼestate delʼ64, ideato dal generale Giovanni De Lorenzo, più che un tentato colpo di stato fu «un avvertimento»[51], per tenere sotto scacco i partiti riformisti, le istituzioni e la democrazia stessa, dal quale scaturì unʼazione politica della Dc, più prudente.

La “rivoluzione” in tal caso poteva dirsi «rimandata», anche se la violenza politica rientrò a far parte della ragion di Stato, «come modalità di espressione dell’azione politica a livello di massa e persino un progetto ed un valore»[52].

Dalle tre giornate del convegno Pollio del 1965 sugli aspetti della guerra rivoluzionaria e le strategie di contro-intervento emerse lʼinadeguatezza del sistema democratico per contrastare le idee insurrezionali del comunismo. Il rimedio correttivo risultò lʼestensione dei poteri di azione delle Forze Armate, poiché «lo strumento militare doveva essere adeguato al nuovo tipo di scontro in atto»[53]. La rivoluzione «sognata», divenne un incubo: la strage di piazza Fontana del ʼ69 segnò lʼavvio alla strategia della tensione in cui attraverso il disordine sociale e il terrore, gli apparati repressivi statali si consolidarono a favore di una democrazia tenuta sotto controllo, con lo scopo ultimo di arginare una volta per tutte proprio quel «pericolo rosso», non in linea con gli interessi dellʼélite borghese capitalista[54]. Severo e magistrale è rimasto tuttavia il giudizio di Piero Calamandrei: «Per compensare le forze di sinistra di una rivoluzione mancata, le forze di destra non si opposero ad accogliere nella Costituzione una rivoluzione promessa»[55].

 

  1. La questione Gladio

G. Pacini, in “Le altre Gladio. La lotta segreta anticomunista in Italia 1943-1991”, approfondisce la storia delle organizzazioni paramilitari clandestine anticomuniste, che agirono in Italia dalla fine della Seconda guerra mondiale sino al 1991, quando fu avanzata la proposta di impeachment nei confronti del Presidente della Repubblica, Francesco Cossiga.

Lʼespressa e mai taciuta appartenenza di Cossiga a Gladio aggravò il capo dʼimputazione a suo carico, confermando lʼipotesi che ci fosse da parte del Presidente della Repubblica, lʼintenzione di introdurre uno schema governativo di stampo autoritario.

Stay Behind, ossia “stare indietro”, era il nome convenzionale dato al tipo di organizzazioni paramilitari segrete addestrate alla resistenza e ad azioni di sabotaggio, spionaggio, e guerriglia sul suolo occupato e nemico. Lʼautore nei capitoli iniziali esamina la Stay Behind dalle sue origini, e precisamente dalla Sezione Calderini, branca italiana dei servizi segreti, della quale facevano parte gli uomini della cosiddetta «Resistenza con le stellette»[56], ovvero ufficiali delle Forze Armate italiane, che si erano distinti in guerra e che vennero addestrati per condurre quella che poteva definirsi una «guerra segreta dietro le linee».

In un secondo tempo proprio gli stessi ufficiali appartenenti alla Sezione Calderini, diventarono «i principali ufficiali dei servizi segreti responsabili della creazione di Gladio»[57]: è il caso del maggiore Lanfaloni, del generale Musco, del colonnello Santini, del generale De Lorenzo, del colonnello Accasto. Nel focus dellʼautore la Sezione Calderini rappresenta il nucleo originario che diede vita a tutte le formazioni paramilitari segrete per reagire a una sì ipotetica, ma altrettanto realistica, invasione comunista.

Senza alcun dubbio in Friuli-Venezia Giulia il pericolo fu concreto. Lʼautore descrive come, poco prima che la Seconda guerra mondiale volgesse al termine, si creò una collisione insanabile tra le due maggiori formazioni partigiane: la Brigata Osoppo, composta da cattolici, liberali, ufficiali dellʼVIII° Rgt. Alpino Julia, fedele agli ideali di Patria e Nazione, e la Brigata Garibaldi-Natisone che perseguiva gli obiettivi del partito comunista di Tito volti alla realizzazione di una nuova Jugoslavia federale e socialista.

Lʼeccidio di Porzûs e i quaranta giorni di occupazione di Trieste, furono i momenti dai quali scaturì la decisione «di creare il complesso delle strutture anticomuniste di tipo Stay behind»[58] e tuttʼoggi restano dei nodi storici fondamentali «per capire lʼasprezza di certe successive prese di posizione degli osovani in senso anticomunista»[59].

La violenza perpetrata per mano jugoslava verso gli oppositori è ormai nota. Per far fronte a queste tragedie, il governo italiano, tramite lʼUZC, adottò precise strategie per assistere gli italiani in fuga dai territori occupati dalle forze di Tito. Pacini sfodera una interessante ed esclusiva relazione, risalente al giugno delʼ47, scritta da un anonimo funzionario per il prefetto Micali: il documento spiega i motivi per i quali fu indispensabile comporre una fitta rete organizzativa paramilitare in funzione anticomunista, «al fine di impedire che lʼopinione pubblica si facesse traviare dalla fallace propaganda dei comunisti i quali, attraverso le proprie organizzazioni, stavano cercando di far penetrare fra la popolazione la loro ideologia»[60].

A capo di questa complessa rete emerge con rilievo la figura del Ten. Col. Prospero Del Din.

Il colonnello, secondo Pacini, sarebbe stato fin dallʼautunno delʼ45 «uno dei principali propugnatori nellʼintero Nord-est di attività segrete anticomuniste per poi, nel 1956, collaborare anche alla creazione di Gladio»[61].

Lʼautore descrive le primordiali strutture paramilitari anticomuniste che videro il colonnello Del Din protagonista: Movimento Tricolore (tramutato poi in Fratelli d’Italia), Divisione Gorizia, Organizzazione di difesa italiana, fiorite spontaneamente per volere degli ex Osoppo, determinati a difendere lʼitalianità della Venezia-Giulia, ricevendo un cospicuo supporto economico dal governo italiano. Nel momento in cui il fenomeno delle organizzazioni paramilitari anticomuniste aumentò di composizione numerica e raggiunse piena efficienza operativa, si costituì nellʼestate delʼ46 la Osoppo/3°Cvl, la più importante struttura sorta al confine, e ri-denominata il 6 aprile del 1950 “Organizzazione O”, di cui il comandante, il colonnello Luigi Olivieri, era diretto superiore del colonnello Del Din. Il colonnello Olivieri sostenne «quanto fosse stato importante lʼaiuto delle massime gerarchie militari e lo sforzo del governo De Gasperi, che fin dalla primavera del 1946 (quando nellʼesecutivo vi erano anche ministri socialisti e comunisti, che rimasero allʼoscuro di quello che stava avvenendo), si era impegnato a garantire finanziamenti alla rinata struttura [Osoppo]»[62].

Ed è sempre grazie ai finanziamenti erogati dallo stesso Uzc che a Trieste germogliarono, sotto le  mentite spoglie di innocui circoli sportivi, (quali ad esempio il circolo Cavana, il circolo del viale della Stazione, il circolo Oberdan-Rossetti, il circolo Felluga), organizzazioni nazionaliste e neofasciste, «alle quali vennero demandati speciale incarichi di difesa dellʼordine pubblico»[63].

I componenti di questi circoli hanno testimoniato negli anni Novanta davanti al giudice Mastelloni, «di aver svolto compiti di polizia parallela»[64]. A questi circoli si aggiunsero appartenenti allʼestremismo di destra, che in diverse occasioni aizzarono la folla contro la polizia per provocare disordini e violenza[65].

La ricostruzione di Pacini non si ferma al Nord-est: nellʼanalisi dellʼautore, il fenomeno organizzativo paramilitare in funzione anticomunista si estende anche nelle altre regioni dellʼItalia settentrionale. Eʼ il caso del Maci, che assieme alla giuliana Osoppo/3°Cvl/Organizzazione O, «fu il più importante organismo segreto a carattere armato operante in Italia tra il 1946 e il 1956».

Dellʼattività parallela del Maci, attiva in Lombardia, si venne a conoscenza a seguito di una perquisizione condotta dalla polizia giudiziaria nel 1974, a casa di Pietro Cattaneo, comandante del Maci, dove furono rinvenuti numerosi documenti attestanti lʼesistenza della rete armata.

Questi carteggi tuttavia sono rimasti per anni completamente ignorati perché scomodi per la classe politica dirigente. Gli aderenti del Maci facevano capo alla Dc, ma dalle carte è emersa una precisa descrizione anche dellʼapparato militare del Pci: «per questo entrambi i partiti ritennero opportuno silenziare la vicenda»[66]. Le finalità che il Maci perseguiva erano più o meno le stesse che il 3°Cvl portava avanti: la difesa e la tutela dei valori cattolici contro il comunismo, ritenuto «ateo e materialista», legittimavano le azioni dei fedeli come un «dovere morale»[67].

Dopo aver ricostruito con dovizia le operazioni e gli ordini di servizio che portarono alla nascita di Gladio il 28 novembre del 1956, lʼautore centra il problema: «capire se strutture come Gladio nel corso della loro esistenza siano rimaste sempre organismi con caratteristiche unicamente difensive, e che mai agirono con finalità di condizionamento dellʼattività politica, o se al contrario, esse o alcune di esse, in determinate occasioni abbiano finito per rendersi responsabili di deviazioni che alterarono le ragioni, legittime o comunque difensive per le quali erano nate»[68].

Il ritrovamento ad Aurisina nel febbraio delʼ72 di un deposito Nasco, metterebbe in stretta correlazione un coinvolgimento di Gladio allʼinterno della strategia della tensione. Il tipo di esplosivo utilizzato dal terrorista di Ordine Nuovo, Vincenzo Vinciguerra, per compiere la strage di Peteano del 31 maggio 1972, è sembrato riconducibile allo stesso conservato nei Nasco, fatto più tardi smentito dalle indagini.

Il significato ed il senso profondo della strage di Peteano rimangono tutt’oggi oggetti interessanti di indagine in quanto lo stesso Vinciguerra, che non si è mai pentito, e ha accettato di scontare lʼergastolo, ha dichiarato apertamente che agì in una logica di rottura con le forze di destra rivoluzionarie, strumentalizzate e dirette dai vertici dell’intelligence militare italiana, in collegamento, anche se ancora da chiarire, con altri centri di potere legittimi e illegittimi.

Minacce, depistaggi, morti sospette, distruzione di prove, disinformazione. Eʼ il clima che caratterizza il ventennio 1970-1990 per confondere, nascondere e mantenere la riservatezza sui differenti livelli delle organizzazioni clandestine.

La presunta strumentalizzazione, denunciata da Vinciguerra, delle azioni dellʼestrema destra per opera dei servizi segreti, con lo scopo di destabilizzare il Paese attraverso attentati terroristici, servì in sostanza a rafforzare lʼesecutivo[69]. Lo stesso Vinciguerra, continua ad assumersi la piena responsabilità di quanto accaduto, sostenendo che «le stragi sono state un mezzo per favorire il potere, e questʼultimo non può che garantire impunità a chi le ha compiute per assicurarsi che la verità non possa emergere»[70]. Dopo Peteano, il caso Gladio fu utilizzato come capro espiatorio, al quale addossare tutte le responsabilità delle stragi e i segreti di Stato. Le indagini condotte dal magistrato Felice Casson, sollevarono un polverone mediatico senza mai trovare riscontro effettivo, creando accese polemiche[71].

Nella parte finale del lavoro, Pacini chiarisce quella che è stata considerata da molti “l altra Gladio”, il «Sid Parallelo». Lʼorganizzazione eversiva vicina ai servizi segreti, fu scoperta negli anni Settanta grazie alle inchieste del giudice Giovanni Tamburino sul caso «Rosa dei venti»[72]. Quello di Pacini è uno studio vorticoso, dal quale emerge che Gladio non era conosciuta come «Sid parallelo», e soprattutto si ipotizza che dietro a quellʼaccostamento, creato ad hoc da Andreotti, vi fosse il tentativo di screditare Gladio come una struttura eversiva illegittima dinanzi allʼopinione pubblica.

A distanza di trentʼanni dalla rivelazione di Gladio e dallʼarchiviazione delle inchieste condotte dal giudice Casson, il lavoro offerto da Pacini apre nuovi scenari che impongono riflessioni più ponderate, tenendo conto del contesto storico e politico e dei motivi per i quali la stessa Gladio fu creata.

 

Conclusioni

I tre volumi proposti in questa rassegna, hanno un pregio: ricompongono la vicenda del secondo dopoguerra che ha tormentato il confine dellʼAlto Adriatico, e consentono al lettore di acquisire una comprensione ampia sul tema. Inoltre avvalorano la tesi che ciò che accaduto non può essere catalogato come un problema marginalmente locale, bensì è una questione che abbraccia nel suo nucleo più intimo la politica del governo centrale. Rimane tuttavia in sospeso un interrogativo, nella speranza che le ricerche future possano trovare la giusta chiave di lettura per fornire la risposta: il grado di “italianità”, così come lo percepiva il governo, al fine di legittimare gli atti di violenza compiuti dai facinorosi, era inteso allo stesso modo nelle zone di confine?

 

 

 

[1] D. DʼAmelio, A. Di Michele, G. Mezzalira (a cura di), La difesa dellʼitalianità. LʼUfficio per le zone di confine a Bolzano, Trento e Trieste (1945-1954), Bologna, Il Mulino 2015; P. Neglie, Il pericolo rosso. Comunisti, cattolici e fascisti fra le legalità ed eversione 1943-1969, Milano, Luni Editrice 2017; G. Pacini, Le altre Gladio. La lotta segreta anticomunista in Italia 1943-1991, Einaudi, Torino, 2014.

[2] Dʼora in avanti abbreviato UZC.

[3] Per una generale ricostruzione del ritrovamento del fondo si veda: M. Maione, S. Re, C. Cardon, Ufficio per le zone di confine. Lʼarchivio, in R. Pupo (a cura di), UZC. Ufficio per le zone di confine, Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia, «Qualestoria» N°2, Anno XXXVIII, Dicembre 2010.

[4] Si vedano: C. Mastelloni, Cuore di Stato. Storie inedite delle Br, i servizi di sicurezza, i Protocolli internazionali, Milano, Mondadori 2017; A. Giannuli, V. Vasile (a cura di), Lʼarmadio della repubblica, Roma, Nuova Iniziativa Editoriale, Suppl. de LʼUnità 2005.

[5] Si veda: P. Gheda, F. Robbe, Andreotti e lʼItalia di confine. Lotta politica e nazionalizzazione delle masse (1943-1954), Milano, Guerini e Associati 2015.

[6] A. Di Michele, LʼItalia e il governo delle frontiere (1918-1955). Per una storia dell’Ufficio per le zone di confine, in D. DʼAmelio, A. Di Michele, G. Mezzalira (a cura di), La difesa dellʼitalianità…, cit., p. 25.

[7] Ivi, pp. 35-41.

[8] L. Blanco, Lʼelaborazione del primo statuto di autonomia della regione Trentino-Alto Adige e le carte dell’Ufficio per le zone di confine, in D. DʼAmelio, A. Di Michele, G. Mezzalira (a cura di), La difesa dell’italianità…, cit., p. 76.

[9] L. Steurer, Il problema dell’Alto Adige/Südtirol nei rapporti italo-austriaci (1945-1955), in D. D’Amelio, A. Di Michele, G. Mezzalira (a cura di), La difesa dell’italianità…, cit., p. 106.

[10] Dʼora in avanti abbreviato SVP.

[11] Si veda: P. Pastorelli, I rapporti italo-austriaci dal dopoguerra a oggi,  in Regione Autonoma Trentino-Alto Adige/Südtirol, Da un conflitto internazionale a un comune impegno europeo. A cinquantʼanni dallʼAccordo De Gasperi-Gruber, Atti del Convegno di Studio tenutosi a Castel Mareccio, Bolzano, 11-12 giugno 1993, Bolzano, 1994.

[12] G. Pallaver, Identità e confine in Alto Adige: il ruolo dei partiti politici, in D. DʼAmelio, A. Di Michele, G. Mezzalira (a cura di), La difesa dellʼitalianità…, cit., p. 134.

[13] Ivi, p. 136.

[14] G. Mezzalira, Una seconda italianizzazione forzata? Lʼimmigrazione italiana in Alto Adige dal 1945 al 1955, in D. DʼAmelio, A. Di Michele, G. Mezzalira (a cura di), La difesa dellʼitalianità…, cit., p. 157.

[15] Ivi, p. 163.

[16] Ivi, p. 165.

[17] A. Di Michele, Terra e italianità. LʼEnte Nazionale per le Tre Venezie tra fascismo e repubblica, in D. DʼAmelio, A. Di Michele, G. Mezzalira (a cura di), La difesa dellʼitalianità…, cit., p. 207.

[18] S. Lechner, Una denazificazione posticipata. Le riopzioni del 1948 e il procedimento di esclusione dalla cittadinanza italiana, in D. DʼAmelio, A. Di Michele, G. Mezzalira (a cura di), La difesa dellʼitalianità…, cit., p. 216.

[19] C. Romeo, Strategie e forme per la Propaganda di italianità nellʼAlto Adige del dopoguerra, in D. DʼAmelio, A. Di Michele, G. Mezzalira (a cura di), La difesa dellʼitalianità…, cit., pp. 245-247.

[20] Ivi, p. 249.

[21] Ivi, p. 252.

[22] L. Gardumi, Italiani o tirolesi? I trentini visti da Roma (1945-1948), in D. DʼAmelio, A. Di Michele, G. Mezzalira (a cura di), La difesa dellʼitalianità…, cit., p. 270.

[23] M. Cau, Unʼidentità di confine. Il Trentino dal nesso asburgico allʼautonomia regionale, in D. DʼAmelio, A. Di Michele, G. Mezzalira (a cura di), La difesa dellʼitalianità…, cit., p. 282.

[24] M. Bucarelli, Roma e Belgrado nel complicato dopoguerra Adriatico: avversari per scelta, amici per necessità, in D. DʼAmelio, A. Di Michele, G. Mezzalira (a cura di), La difesa dellʼitalianità…, cit., pp. 305-306.

[25] A. M. Vinci, Per quale italianità? La nuova mitologia della patria al confine orientale nel secondo dopoguerra, in D. DʼAmelio, A. Di Michele, G. Mezzalira (a cura di), La difesa dellʼitalianità…, cit., p. 339.

[26] Ivi, p. 348.

[27] J. Pirjevec, Italiani e sloveni: centʼanni di rapporti conflittuali (1848-1954), in D. DʼAmelio, A. Di Michele, G. Mezzalira (a cura di), La difesa dell’italianità…, cit., p. 367.

[28] Ibidem.

[29] D. DʼAmelio, La difesa di Trieste. Strategie e culture politiche delle forze italiane nella battaglia per il confine orientale (1945-1954), in D. DʼAmelio, A. Di Michele, G. Mezzalira (a cura di), La difesa dellʼitalianità…, cit., p. 403.

[30] A. Millo, Il «filo nero»: violenza, lotta politica, apparati dello Stato al confine orientale (1945-1954), in D. DʼAmelio, A. Di Michele, G. Mezzalira (a cura di), La difesa dellʼitalianità…, cit., pp. 415-416.

[31] N. Troha, Lʼazione della Jugoslavia e delle forze filojugoslave della Venezia Giulia nella lotta per il nuovo confine italo-jugoslavo 1945-1954, in D. DʼAmelio, A. Di Michele, G. Mezzalira (a cura di), La difesa dellʼitalianità…, cit., p. 452.

[32] Ivi, p. 453.

[33] P. Karlsen, Il «nemico» visto da Roma. Sloveni, comunisti e indipendentisti nello sguardo dellʼUfficio per le zone di confine, in D. D’Amelio, A. Di Michele, G. Mezzalira (a cura di), La difesa dellʼitalianità…, cit., p. 474.

[34] Ivi, p. 471.

[35] I. Bolzon, Da Roma alla zona B. Il Comitato di liberazione nazionale dell’Istria, lʼUfficio per le zone di confine e le comunità istriane tra informazioni, propaganda e assistenza, in D. DʼAmelio, A. Di Michele, G. Mezzalira (a cura di), La difesa dellʼitalianità…, cit., pp. 497-498.

[36] R. Spazzali, Tra le due sponde adriatiche: il ruolo dell’Ufficio Venezia Giulia nell’esodo da Pola, in D. DʼAmelio, A. Di Michele, G. Mezzalira (a cura di), La difesa dellʼitalianità…, cit., , pp. 511-534.

[37] Ivi, p. 537.

[38] D. DʼAmelio, Frontiere in transizione. Il lungo dopoguerra dei confini italiani fra eredità, emergenze e distensioni, in D. DʼAmelio, A. Di Michele, G. Mezzalira (a cura di), La difesa dellʼitalianità…, cit., p. 540.

[39] Ivi, p. 580.

[40] P. Neglie, Il pericolo rosso…, cit., p. 16.

[41] Ivi, p. 23.

[42] Ivi, p. 29.

[43] Ivi, p. 30.

[44] Ivi, p. 118.

[45] Ivi, p. 140.

[46] Dʼora in avanti Maci.

[47] Ivi, pp. 194-195.

[48] Ivi, pp. 216-219.

[49] Ivi, p. 280.

[50] Ivi, p. 283.

[51] Ivi, p. 293.

[52] Ivi, p. 313.

[53] Ivi, p. 339.

[54] Ivi, p. 350.

[55] P. Calamandrei, La Costituzione e le leggi per attuarla, in A. Battaglia (a cura di), Dieci anni dopo. 1945-1955 Saggi sulla vita democratica italiana, Bari, Laterza, 1965, p. 215.

[56] G. Pacini, Le altre Gladio…, cit., p. 23.

[57] Ibidem.

[58] Ivi, p. 40.

[59] Ivi, p. 42.

[60] Ivi, p. 56.

[61] Ivi, p. 61.

[62] Ivi, p. 118.

[63] Ivi, p. 65.

[64] Ivi, p. 69.

[65] Ivi, pp. 91-98.

[66] Ivi, p. 137.

[67] Ivi, p. 141.

[68] Ivi, p. 184.

[69] Ivi, p. 244.

[70] R. Fanelli, Strage piazza della Loggia, lʼultimo irriducibile: Cʼè una confessione firmata dagli autori, La Repubblica, 25 maggio 2015, http://www.repubblica.it/cronaca/2015/05/25/news/l_ultimo_nero_irriducibile-115016486/,ultima consultazione 22 luglio 2018.

[71] Cfr. G. Pacini, Le altre Gladio…, cit., pp. 231- 246.

[72] Ivi, p. 255.

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