Aldo Moro statista

1) Quando mi è stato chiesto di partecipare a questo convegno intervenendo sul problema di “Moro statista”, mi sono posto immediatamente due interrogativi: a) è davvero così pacifica l’idea che Aldo Moro sia stato uno statista?; b) e, più in generale, è giusto storicamente considerare Aldo Moro uno statista?. Questi due interrogativi mi hanno accompagnato per tutta la ricerca ed è proprio a essi che cercherò ora, in questo breve lasso di tempo, di dare una prima risposta necessariamente schematica.

2) Dunque, prima domanda: è davvero così pacifica l’idea che Aldo Moro sia stato uno statista?
In generale, a tal riguardo, occorre innanzitutto rilevare che la riflessione storiografica elaborata in relazione alla riflessione e all’azione politica di Moro non è quella generalmente riservata agli statisti. A differenza di quanto è avvenuto nel caso di altri importanti leader politici della cosiddetta “prima Repubblica” – si pensi ad Alcide De Gasperi o a Palmiro Togliatti, così come anche a Ugo La Malfa ed Enrico Berlinguer –, non possediamo sinora alcuna biografia di Moro di tipo scientifico né abbiamo alcuna monografia dedicata ad alcuni aspetti particolari della sua figura e della sua azione politica. Le ragioni di questo “silenzio” storiografico sono diverse: alcune legate ad un più generale ritardo della ricerca storica sul periodo repubblicano; altre più particolarmente connesse alla stessa figura di Moro [2]. Tra queste ultime motivazioni, una delle principali – se non la principale – va senza dubbio rintracciata nelle tragiche circostanze in cui Moro è stato ucciso. I drammatici cinquantacinque giorni del suo sequestro hanno infatti finito per “fagocitare” i precedenti trent’anni di intensa attività politica. In relazione alla letteratura e alla storiografia su Moro, siamo così in presenza ancora di una «pericolosa distorsione» [3] , ovvero di una «netta sproporzione» [4] – rilevata quasi vent’anni fa ma tuttora evidente in relazione al dibattito sul leader della Democrazia Cristiana – fra l’attenzione dedicata al Moro uomo politico e quella accordata al Moro prigioniero delle Brigate Rosse. Tale amplificazione ed enfatizzazione della fase del rapimento, della prigionia e dell’efferata uccisione non è probabilmente, del resto, del tutto casuale. Queste vicende vengono interpretate spesso infatti come il centro, la rivelazione, la chiave di volta per la comprensione dell’azione del Moro politico di tutti gli anni precedenti.
L’immagine non muta radicalmente se si passa da quest’analisi quantitativa (permettetemi la definizione) della riflessione elaborata attorno alla figura di Moro ad una di tipo più qualitativo relativa ai giudizi espressi dalla storiografia tra la fine degli anni Novanta e i primi anni del Duemila in merito all’azione del leader della DC più volte presidente del Consiglio. Già negli anni precedenti, la pubblicistica – che spesso ha costituito una fonte diretta di molti dei successivi lavori storiografici – aveva spesso espresso giudizi assai critici circa l’operato e la politica di Moro, mettendone in luce proprio la sua incapacità a divenire davvero uno statista. Basti pensare al riguardo a quanto osservavano nelle prime biografie giornalistiche dedicate a Moro, apparse già tra fine anni Sessanta e metà anni Settanta, due autori pur tra loro molto distanti culturalmente: Corrado Pizzinelli [5] e Aniello Coppola [6]. Analogo fu il giudizio espresso da Italo Pietra, pochissimi anni dopo l’uccisione di Moro, in quello che costituisce probabilmente la più “fortunata” biografia di Moro di taglio giornalistico [7] . Moro, fu vera gloria?, era il titolo emblematico del volume di Pietra; e ancora più significativo, dal punto di vista della questione circa i giudizi relativi all’“essere stato o meno Moro uno statista”, era il sottotitolo del libro: Sa e non fa. Ha il senso della storia, non quello dello Stato né quello delle cifre.
Molti di questi giudizi – come dicevo – hanno trovato negli anni successivi larga ricezione anche in quei primi lavori storiografici, scritti tanto da studiosi italiani che da storici stranieri, che miravano a fornire un quadro sintetico e complessivo delle vicende dell’Italia repubblicana. Non posso ovviamente soffermarmi in questa sede su questo aspetto, per una cui analisi accurata rimando ad una recente relazione svolta da Renato Moro ad esso specificatamente dedicata [8] . Permettetemi tuttavia di fare solo due esempi, uno italiano e l’altro straniero, che a me paiono piuttosto significativi anche per la loro capacità di sintetizzare giudizi più diffusi. Per quanto riguarda la storiografia italiana, assai significativo appare quanto ha osservato, in una delle più importanti di queste sintesi delle vicende dell’Italia repubblicana, Silvio Lanaro. Moro, ha scritto Lanaro,
non si sente attratto né dalle dolci lusinghe dell’utopia né dal fascino maschio della decisione, ma piuttosto dall’ideale di un’assenza di contrasti, di un’«armonia» fra tutti gli interessi legittimi, di un «consenso» tendenzialmente unanime attorno alla classe dirigente. Il suo stesso linguaggio, sintatticamente impervio e semanticamente poverissimo, allude sempre e non denota mai proprio perché si preoccupa di non ledere, di non pungere, di non ferire. Egli è altra cosa da un integrista come Fanfani, che proprio per esser questo diventa paradossalmente il padre della mappa correntizia della DC […]: certo l’unità del suo partito gli sta a cuore, ma non perché voglia farne evangelicamente uno strumento di renovatio della società – alla maniera di Giorgio La Pira – bensì perché lo considera l’unico luogo di equilibrio del sistema politico italiano […]. Moro, insomma, è l’uomo che scongiura le battaglie, addormenta le tensioni, ricuce gli strappi […]. Non è affatto insensibile ai bisogni di ammodernamento della società civile […], ma non crede che spetti alla politica elaborare risposte anticipate o esercitare compiti di orientamento culturale e di regolazione di una spontanea processualità delle relazioni collettive: i partiti, le istituzioni, lo stato devono soltanto autenticare, ricorrendo ai loro poteri di direzione quando se ne profila la necessità improrogabile e comunque sempre per bilanciare, ammansire, pacificare, equilibrare, dosando gli interventi con estrema cautela posologica [9] .
Anche all’estero sono stati elaborati giudizi assai aspri circa la politica di Moro e fortemente critici circa l’ipotesi che egli sia stato davvero uno statista. Decisamente dura è stata al riguardo soprattutto la storiografia inglese. Si pensi ad esempio ai giudizi espressi nella nota e diffusa (tanto in Italia quanto all’estero) sintesi sull’Italia repubblicana elaborata da Paul Ginsborg [10] ; così come al “silenzio” sulla figura di Moro (a differenza di quanto fatto invece a proposito di altri esponenti della “prima Repubblica” decisamente meno importanti di Moro) cui si assiste nella più recente sintesi di Christopher Duggan [11]. Ancor più che in Ginsborg e in Duggan, tale immagine negativa di Moro e l’esplicita negazione che egli possa essere considerato effettivamente uno statista ha trovato espressione in Inghilterra nelle pagine di Denis Mack Smith, lo storico che ha senza dubbio contribuito con maggiore forza a forgiare l’immagine dell’Italia unitaria presso la comunità scientifica (e probabilmente non solo scientifica) anglosassone. In una delle ultime edizioni della sua storia d’Italia, Mack Smith ha infatti osservato:
Although a fine tactician and mediator, [Moro] lacked the statesmanship of De Gasperi and in private was pessimistic about reforming what he called a deeply corrupt system. His instinct was rather to temporize, to seek compromise and avoid divisive decisions that might threaten the unity of his party [12].

3) Cosa emerge, dunque, in estrema sintesi, da questi lavori così come anche da molti altri sui quali, per motivo di tempo, non posso soffermarmi?
Mi limiterò in questa sede essenzialmente a due osservazioni. Innanzitutto, è possibile rilevare in generale una connotazione fortemente positiva attribuita in tutte queste riflessioni al termine statista. In queste analisi, cioè, lo statista viene visto esclusivamente come quel grande (e memorabile) uomo di stato che ha rivestito un’importanza storica nelle vicende nazionali e nei confronti del quale non si può quindi non esprimere un significativo apprezzamento.
In secondo luogo, dal dibattito scientifico (e non solo scientifico) emerge un giudizio piuttosto diffuso che tende a negare a Moro – in alcuni casi esplicitamente, in altri indirettamente – la qualifica di “statista”. In particolare, vengono individuati soprattutto tre limiti, tre «carenze di Moro statista». In primo luogo, vengono indicate la sua eccessiva moderazione e la sua costante vocazione alla mediazione. Un secondo limite viene rintracciato nel primato, se non nell’assolutizzazione, del partito, della DC, che secondo un giudizio assai diffuso avrebbe costituito uno dei punti essenziali e costanti della cultura e dell’azione politica di Moro. Infine, viene rilevata in Moro (così come in gran parte, se non nell’intera classe dirigente cattolica e democristiana) una sostanziale debolezza dell’idea e del senso dello Stato. Dunque, abbiamo ora una risposta alla prima domanda. Il giudizio circa l’essere stato Aldo Moro uno statista non è affatto pacifico.

4) A partire anche da queste valutazioni, si può dunque ora passare alla seconda domanda: allora Moro è stato o no uno statista?
Per rispondere a questo davvero complesso interrogativo, io proporrei una sorta di capovolgimento della prospettiva rispetto a quanto osservato finora, a partire soprattutto da una definizione più neutro-operativa di “statista”.
In primo luogo, occorre cioè a mio parere connotare non necessariamente positivamente l’“essere o meno statista”. In secondo luogo, è necessario sganciarsi da un’idea di statista esclusivamente come quell’uomo di governo che fa cose straordinarie e memorabili per il proprio Paese. Al contrario – e con ciò si spera di evitare, o meglio, di limitare il corto circuito tra analisi scientifica e giudizio soggettivo – appare più opportuno suggerire, sulla base di quanto indicato in diversi dizionari (italiani e non solo italiani), una definizione più ampia e meno “impegnativa”. Partirei cioè da una definizione secondo la quale uno statista è quell’uomo politico che pone al centro e al cuore della propria azione gli interessi e lo sviluppo dello Stato.
Un secondo capovolgimento riguarda invece l’ottica: la prospettiva nella quale intendo pormi per comprendere se, secondo tale definizione, Moro sia stato o no uno statista è cioè quella di Moro stesso. Ovvero, per capire se Moro è stato un uomo politico che ha posto al centro e al cuore della propria azione gli interessi e lo sviluppo dello Stato è opportuno a mio parere ricostruire cosa significasse in primo luogo per Moro lo Stato, quale idea-concezione avesse Moro di Stato; per vedere poi se e come egli ha nella sua azione politica cercato di perseguire il suo sviluppo e i suoi interessi.

5) Per comprendere fino in fondo quale idea di Stato e che posto avesse lo Stato nella cultura politica di Moro appare fondamentale prendere le mosse dalla sua formazione. La formazione di Moro è in effetti assai interessante. Essa appare infatti assolutamente eccentrica rispetto alla gran parte degli altri esponenti della futura classe dirigente democristiana. Sulla base di quanto ha scritto Renato Moro nell’ampio saggio del 1983 apparso su “Storia contemporanea” che costituisce indiscutibilmente il più importante contributo su tali questioni [13] , è possibile osservare che, insieme con il Sud e con la famiglia, erano due in particolare gli elementi propri della formazione morotea che la rendevano così peculiare: a) una forte caratterizzazione laica, derivante principalmente dai suoi studi giuridici presso l’Università di Bari; b) una particolare, originale e autonoma, non riconducibile a nessuna scuola, corrente, filone allora in Italia (nemmeno a quello della FUCI) visione del cattolicesimo, sostanzialmente priva di riferimenti alla dottrina sociale della Chiesa e all’idea di civiltà cristiana, al neotomismo e alla visione personalista (soprattutto francese) che tanto invece influenzò l’altro principale gruppo di formazione cattolica allora operante in Italia, quello della Cattolica.
Uno degli aspetti più interessanti, forse l’aspetto più interessante – e poco analizzato – di questa così peculiare ed eccentrica figura era sicuramente proprio una decisa rivalutazione e rivendicazione del ruolo e dell’idea di Stato [14] . Negli anni durante i quali Moro ebbe modo di formarsi, era indubbiamente ancora imperante nella visione cattolica un forte preconcetto antistatalista. La chiave era sempre quella «terza via» cattolica e dunque quella del primato della persona e della società concepita come capace di auto-organizzarsi. A contraddistinguere la cultura di gran parte di quei cattolici che avrebbero poi composto la futura classe dirigente DC era pertanto ancora un profondo e insanabile dualismo tra Stato, da un lato, e persona e società, dall’altro. Un dualismo il cui primato – inteso talvolta in modo esclusivo ed escludente – continuava indiscutibilmente ad essere attribuito appunto – come dicevo – alla persona e alla società. A poco di tutto questo – ed è un fatto piuttosto interessante – si assiste in Moro, tanto nei suoi contributi giuridici degli anni ’30-40, quanto nei suoi scritti “cattolici” degli stessi anni quanto infine nei suoi interventi politici del secondo dopoguerra.
Moro superò infatti nettamente questo dualismo tra Stato e persona-società e questo preconcetto antistatalista. Già nei suoi scritti giuridici [15] , Moro ovviamente rivendicava il ruolo, l’importanza e la centralità della persona, anche se non faceva espliciti riferimenti al neotomismo e all’umanesimo integrale. Tale attenzione sarebbe del resto emersa con ancor più forza negli anni del dopoguerra, quando invece sarebbe effettivamente avvenuto l’“incontro” con Maritain. Tuttavia tale attenzione al problema della persona e della dignità umana – e in ciò probabilmente rappresentava una figura particolare all’interno della DC – era conciliata con una decisa riaffermazione e rivalutazione del ruolo e della necessità dello Stato:
se è giusto – affermava significativamente già nel 1947 – nell’azione politica volere costruire uno Stato che promuova una solidarietà veramente umana, che salvi ad un tempo la persona e la società, non è giusto invece, per una malintesa pregiudiziale cristiana spiritualistica e personalistica, volere uno Stato debole, inconsistente, incolore [16].
Dunque, a differenza di quanto si è spesso sostenuto, Moro aveva al centro della propria cultura politica e al cuore della propria azione politica una visione che proponeva – assumendo così una posizione decisamente inconsueta per la cultura cattolica del tempo – una forte rivendicazione e riaffermazione del ruolo e della necessità dello Stato.

6) Ma – bisogna ora chiedersi – quale Stato?
Rispondere a tale domanda appare forse meno problematico (almeno in relazione alla riflessione morotea dopo la crisi del fascismo). Per quanto riguarda soprattutto il Moro durante e all’indomani della seconda guerra mondiale (le ragioni della sua minore attenzione al tema della democrazia negli anni del regime appaino evidenti), si tratta infatti sicuramente di uno Stato democratico. E anche qui – ma posso solo accennarlo – questa «accettazione piena» della democrazia – come l’ha definita Roberto Ruffilli [17] – rappresentava un aspetto piuttosto originale per la cultura cattolica del tempo.
Stato democratico voleva essenzialmente dire per Moro – riprendo delle sue stesse definizioni – «Stato del valore umano» [18] , Stato delle masse.
Conseguentemente – e questa idea dinamica ed «espansiv[a]» [19] di Stato (altra definizione dello stesso Moro) costituisce probabilmente uno dei nuclei essenziali, se non il nucleo essenziale della cultura politica morotea – bussola della sua azione è stato costantemente la necessità di «allargare le basi dello Stato», il tentativo di accrescere sempre più il consenso e la partecipazione delle masse allo Stato, la «speranza» – come la definiva lo stesso leader democristiano – «alla quale è difficile rinunziare, di poter […] immettere, completando il Risorgimento, masse popolari nello Stato» [20]. Osservava a tal riguardo nel 1959 in un importante discorso a Firenze:

In una società democratica, come quella che noi abbiamo contribuito a delineare nella Costituzione e che vogliamo costruire nella realtà, vi è un problema fondamentale di valorizzazione generale e compiuta dell’intera società. Cioè generalità nell’esercizio del potere e generalità nei benefici dell’esercizio del potere. Nessuna persona ai margini, nessuna persona esclusa dalla vitalità e dal valore della vita sociale. Nessuna zona d’ombra in un ritmo graduale, armonico, universale di ascensione. Niente che sia morto, niente che sia condannato, niente che sia fuori della linea vitale della società.
Questo è il problema immane della piena immissione delle masse nella vita dello Stato, tutte presenti nell’esercizio del potere, tutte presenti nella ricchezza della vita sociale. La conciliazione delle masse con lo Stato, il superamento dell’opposizione tra il vertice e la base: non lo Stato di alcuni, ma lo Stato di tutti [21] .
Tale esigenza di “immettere” e “conciliare” lo masse con lo Stato, oltre che da un deciso richiamo alla «dignità della persona umana», prendeva le mosse – come vedremo più avanti – soprattutto dalla particolare attenzione di Moro verso il problema della società e della politica di massa. Essa nasceva però anche da una forte preoccupazione – che ha costituito un tassello fondamentale della sua visione politica – che Moro ha sempre nutrito nei confronti del pericolo di destra [22] . Già in riferimento ai fatti del ’22, Moro individuava l’ascesa del fascismo come risultato della mancata integrazione delle masse nello Stato e della mancata collaborazione tra le forze democratiche. Ora, Moro riteneva che un mancato allargamento delle basi democratiche dello Stato repubblicano potesse nuovamente favorire ipotesi nostalgiche. Il suo timore – Moro lo ha ripetuto spesso – non era pertanto rivolto solo ai movimenti di destra “ufficiali”, quanto a quella “zona grigia”, a quegli italiani demobilitati che mostravano di essere fuori dalla vita dello Stato.

10) Strumento principale di questo tentativo di allargare continuamente le basi dello Stato erano per Moro i partiti, e in particolare la DC. Si sono viste le accuse rivolte a Moro da parte della pubblicistica e di gran parte della storiografia circa il ruolo di primato assoluto che il partito, la DC, avrebbe avuto nella cultura e nell’azione politica morotea.
È indubbio che, di fronte a quella che considerava una «democrazia difficile» – come la definiva lo stesso leader democristiano –, Moro ha dato sempre grande peso alla DC e alla sua unità. L’idea del carattere fondamentale del ruolo e della funzione svolti dalla DC e della necessità quindi della sua unità ha in effetti costantemente caratterizzato la riflessione e l’azione di Moro. Anche nel suo ultimo discorso politico ai gruppi parlamentari della DC del 28 febbraio 1978 essa sarebbe stata da lui ribadita con molta nettezza.
Ma in Moro il partito era essenzialmente uno strumento e non il fine. Uno strumento – ecco il punto – subordinato allo Stato e utile proprio per ricondurre le masse e la società allo Stato. In un altro discorso-chiave, questa volta del 1965, a Sorrento, Moro a tal riguardo osservava:
Il partito vuole aderire alla realtà, per orientarla e plasmarla secondo la sua intuizione, alla luce dei suoi ideali umani. Perché un partito, e soprattutto un partito come il nostro, è un punto di passaggio obbligato dalla società allo Stato, dal particolare all’universale, dal fatto alla legge […]. Esso parte da posizioni individuali, ma già le amalgama, ma già opera una sintesi nella quale comincia a esistere lo Stato […].
Esso riconduce perennemente lo Stato alla fonte del potere […]. Vi è certo un problema, che può diventare acuto, di limiti e di poteri, la ricerca cioè del punto giusto nel quale, avendo il partito dato vita allo Stato, esso cede il posto agli organi propri attraverso i quali lo Stato opera [23] .
E con parole simili, già pochi anni prima, a Milano aveva rilevato con ancora più nettezza:
L’azione politica dei cattolici italiani, quale largamente si esprime nel partito della Democrazia Cristiana, esplicandosi secondo un serio principio di autonoma responsabilità e secondo un’alta responsabilità ideale, rappresenta di per se stessa un’efficace collaborazione, un fecondo impegno per la costruzione dello Stato democratico in Italia. Essa è un riconoscimento del valore dello Stato, un’accettazione a porsi, pur nell’ambito, ed anzi proprio nell’ambito di quell’alta ispirazione – direi, in coerenza ad essa – sul terreno del significato e della funzione dello Stato, degli interessi che esso soddisfa, delle ragioni che tutela, dell’opera di unità, di incivilimento e di riscatto che esso persegue [24] .
La conferma che Moro vedesse la DC solo come uno strumento è data dal suo costante giudizio circa la sua “non autosufficienza”. E non la riteneva autosufficiente proprio in relazione a quello che costituiva il fine ultimo della sua azione politica. Ovvero, lo Stato e l’allargamento delle sue basi. È in quest’ottica che vanno quindi comprese anche le due più importanti e complesse strategie politiche di Moro: a) l’apertura ai socialisti e il centro-sinistra e b) la strategia dell’attenzione nei confronti dei comunisti lanciata a fine anni Sessanta. Non è questa la sede, ovviamente, per soffermarsi analiticamente su tali questioni. È opportuno tuttavia almeno rilevare che, a mio parere, entrambe le strategie elaborate da Moro non traessero origine da una ragione esclusivamente tattico-trasformistica (come invece molto spesso è stato sostenuto) ma prendessero le mosse proprio dalla profonda convinzione morotea della necessità di allargare sempre più il consenso delle masse allo Stato e della necessità quindi, data l’insufficienza della DC, di confrontarsi (solo a livello parlamentare nel caso del PCI, anche a livello governativo in quello del PSI) con quelle forze e quei partiti che rappresentavano aree importanti della società italiana.

11) Concludo dunque.
In un’ampia e solo raramente ricordata intervista del 1978, lo storico tedesco-americano George L. Mosse ha rilevato che la sfida principale per gli Stati europei e per gli uomini di Stato europei nel secondo dopoguerra è stata quella della società e della politica di massa, del riuscire a incanalare in un percorso democratico quella partecipazione delle masse così forte nei regimi totalitari. Ovvero, in altri termini, di conciliare sovranità parlamentare e moderna politica di massa.
Questo è stato il fulcro dell’azione politica di Moro. Come ha osservato lo stesso Mosse, Moro ha cioè «tentato di allargare la base del sistema di governo parlamentare per cercare di prendere in considerazione la natura della moderna politica di massa» [25]. Se per statista intendiamo – come dicevo all’inizio – quell’uomo politico che pone al centro e al cuore della propria azione gli interessi e lo sviluppo dello Stato, allora Moro non solo può ma deve essere giudicato uno statista.
Moro – sin da giovane particolarmente attento al ruolo e alla necessità dello Stato – individuava infatti come principali interessi e sviluppo dello Stato italiano soprattutto proprio la sua definitiva e compiuta realizzazione in senso democratico, attraverso un allargamento continuo e costante delle sue basi e del consenso ad esso delle masse. Ed ha fatto di questa tensione allo Stato e allo Stato democratico la bussola principale, probabilmente ispiratrice di quasi tutte le sue proposte politiche, della sua azione politica. Tutto ciò può aiutare anche a capire quella eventuale mancanza di decisionismo dei governi da lui guidati a cui tanti suoi critici fanno riferimento. Ciascuna scelta politica, ciascuna formula politica, ciascuna forma di governo, infatti, andava anche sacrificata, o comunque subordinata e realizzata innanzitutto al fine della realizzazione della forma di Stato, della forma di Stato democratico [26]. In questo, nell’aver cioè rintracciato nella debolezza e nella difficoltà della democrazia la sfida essenziale dello Stato italiano (dei suoi interessi e del suo sviluppo) e nell’aver tentato per tutta la sua carriera politica di affrontarla attraverso un continuo allargamento democratico delle basi dello Stato va individuata la radice ultima della ragione per cui mi appare legittimo definire Moro uno statista.

[1] Relazione presentata al Convegno “Aldo Moro. Il credente, il docente, lo statista”, svoltosi presso l’Aula Magna della Facoltà di Scienze Politiche “San Carlo” dell’Università di Viterbo il 28 aprile 2009. Il testo viene stampato così com’è stato letto durante il Convegno. Sono state aggiunte dall’Autore soltanto le note essenziali.

[2] Cfr. al riguardo le osservazioni di R. Moro, Aldo Moro nelle storie dell’Italia repubblicana, relazione presentata al Convegno internazionale “Il governo delle società nel XXI secolo. Ripensando ad Aldo Moro”, Roma, 17-20 novembre 2008 (atti in corso di pubblicazione).

[3] G. Campanini, Aldo Moro. Cultura e impegno politico, Roma, Studium, 1992, p. 177.

[4] Ibidem.

[5] C. Pizzinelli, Moro, Milano, Longanesi, 1969.

[6] A. Coppola, Moro, Milano, Feltrinelli, 1976.

[7] I. Pietra, Moro, fu vera gloria? Sa e non fa. Ha il senso della storia, non quello dello Stato né quello delle cifre, Milano, Garzanti, 1983.

[8] Cfr. R. Moro, Aldo Moro nelle storie dell’Italia repubblicana, cit.

[9] S. Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana, Venezia, Marsilio, 1992, pp. 331 e 334. È peraltro interessante osservare che la negazione della possibilità che Moro possa essere giudicato uno statista o, meglio, l’individuazione di importanti «carenze di Moro statista» ha costituito un elemento interpretativo anche nelle pagine di studiosi tradizionalmente favorevoli all’azione e alla politica di Moro. Cfr., ad esempio, G. Campanini, Moro, Aldo, voce in Dizionario Storico del movimento cattolico in Italia, II, 1860-1980, Casale Monferrato, Marietti, 1982, pp. 400-409 (si veda in particolare p. 405).

[10] P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi. Società e politica (1943-1988), Torino, Einaudi, 1989.

[11] C. Duggan, La forza del destino. Storia d’Italia dal 1796 a oggi, Roma-Bari, Laterza, 2008 (ed. or. 2007).

[12] D. Mack Smith, Modern Italy. A Political History, New Haven and London, Yale University Press, 1997, p. 447.

[13] R. Moro, La formazione giovanile di Aldo Moro, in “Storia contemporanea”, ottobre 1983, pp. 803-968.

[14] Cfr. a tal proposito le osservazioni che Renato Moro ha elaborato, oltre che nel già citato saggio La formazione giovanile di Aldo Moro, nel recente Aldo Moro negli anni della FUCI, Roma, Edizioni Studium, 2008 (si vedano in particolare, in relazione al problema dello Stato, pp. 21-22). Si veda inoltre G. Campanini, L’eredità di Aldo Moro, in “Humanitas”, dicembre 1979, pp. 686-695.

[15] Si vedano in particolare: A. Moro, Lezioni di Filosofia del diritto tenute presso l’Università di Bari. Il diritto (1944-1945); Appunti sull’esperienza giuridica. Lo Stato (1946-1947), Bari, Cacucci, 1978 (cfr. soprattutto pp. 28 e 61) e Id., L’antigiuridicità penale, Palermo, Prinella, 1947, p. 51.

[16] A. Moro, Valore dello Stato (1947), ora in Id., Al di là della politica e altri scritti. «Studium» (1942-1952), a cura di G. Campanini, Roma, Edizioni Studium, 1982, p. 121.

[17] R. Ruffilli, Religione, diritto e politica, in Cultura e politica nell’esperienza di Aldo Moro, a cura di P. Scaramozzino, Milano, Giuffrè, 1982, p. 63.

[18] A. Moro, Scritti e discorsi, a cura di G. Rossini, II, 1951-1963, Roma, Edizioni Cinque Lune, 1982, p. 624.

[19] Ivi, p. 629.

[20] Atti del XII Congresso nazionale della Democrazia Cristiana (6-10 giugno 1973), Roma, Edizioni Cinque Lune, 1976, pp. 215-216.

[21] A. Moro, Scritti e discorsi, II, cit., p. 685.

[22] Si rimanda a tal riguardo a G.M. Ceci, Aldo Moro, i terrorismi e le trame eversive (1969-1978), relazione presentata al Convegno internazionale “Il governo delle società nel XXI secolo. Ripensando ad Aldo Moro”, Roma, 17-20 novembre 2008 (atti in corso di pubblicazione).

[23] Il discorso è riprodotto in A. Moro, L’intelligenza e gli avvenimenti. Testi 1959-1978, a cura della Fondazione Aldo Moro, Milano, Garzanti, 1979, pp. 113-114.

[24] A. Moro, Scritti e discorsi, II, cit., p. 630.

[25] G.L. Mosse, L’opera di Aldo Moro nella crisi della democrazia parlamentare in occidente, intervista a cura di A. Alfonsi, in A. Moro, L’intelligenza e gli avvenimenti. Testi 1959-1978, cit., p. X.

[26] Si vedano al riguardo anche alcune osservazioni di L. Elia, Moro oggi, in Cultura e politica nell’esperienza di Aldo Moro, a cura di P. Scaramozzino, cit., pp. XVIII-XX.

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