Seminario: Il “modello emiliano” nella storia d’Italia tra culture politiche e pratiche amministrative (1889-2012)

Terzo appuntamento di un progetto di riflessione pubblica elaborato da un gruppo di giovani studiosi incentrato sulla parabola storica dell’esperienza del cosiddetto “modello emiliano”, il seminario Il “modello emiliano” nella storia d’Italia tra culture politiche e pratiche amministrative (1889-2012) svoltosi a Modena il 18 maggio 2012 è l’ultima tappa di un percorso di ricerca giunto ormai ad un avanzato stadio di maturazione. Il progetto ha preso avvio nel dicembre 2010 con il convegno Bologna Futuro: socialità sviluppo uguaglianza. Il “modello emiliano” alla sfida del XXI secolo i cui atti sono stati pubblicati recentemente a cura di Carlo De Maria.[1]

L’itinerario è poi proseguito nell’ottobre 2011 con il seminario svoltosi a Bologna su Il “modello emiliano” nella storia d’Italia. Tra culture politiche e pratiche amministrative 1889-2011[2] nel corso del quale sono state messe a fuoco le principali novità del progetto: l’impegno a riflettere su un arco cronologico lungo, dall’Ottocento ad oggi, e la marcata caratterizzazione storica espressa da studiosi appartenenti prevalentemente ad una generazione di giovani storici. Linea guida del percorso di ricerca è quindi l’ambizione di affrontare il “modello emiliano” in una prospettiva storica di lungo periodo all’interno di un’ottica multidisciplinare. Si tratta di un approccio innovativo e originale che volutamente prende le distanze dalle tradizionali impostazioni – ascrivibili essenzialmente all’analisi economica e sociologica – intese a identificare l’esperienza del “modello emiliano” all’interno di un contesto storico ben circoscritto (collocato generalmente tra gli anni Cinquanta e la fine degli anni Settanta del Novecento). Il tutto al fine di problematizzare e interpretare in chiave storica una categoria a lungo fortemente impregnata di condizionamenti di tipo ideologico o programmatico.

Promosso da un nutrito gruppo d’istituzioni ed associazioni (Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Fondazione Cassa di Risparmio di Modena, Fondazione Gramsci Emilia-Romagna, Associazione di ricerca storica Clionet, The Association for the Study of Modern Italy) il seminario modenese si è svolto presso la Facoltà di Economia “M. Biagi” dell’Università di Modena e Reggio Emilia ed ha confermato le potenzialità euristiche di tale approccio al “modello emiliano”. La numerosità dei relatori e la pregnanza degli interventi non permettono di dare conto del dibattito e delle riflessioni sviluppate dai vari discussant che si sono alternati nel corso del seminario, rivelatesi in taluni casi particolarmente stimolanti, sicché in questa sede necessariamente ci si concentrerà sugli interventi dei relatori.[3]

Dopo i saluti di Giuliano Muzzioli dell’Università di Modena e Reggio Emilia, ha aperto il seminario Carlo De Maria (Perchè riflettere storicamente sul “modello emiliano”) richiamando la genesi e le ragioni di fondo di un percorso di ricerca che affonda le radici nelle iniziative dedicate al municipalismo popolare di Andrea Costa in occasione del centenario della morte del “padre nobile” del socialismo italiano.[4] De Maria ha poi evidenziato la capacità del progetto di sollecitare, a partire da considerazioni prettamente storiche, anche una riflessione problematica su alcune questioni del presente legate al senso di comunità, alla crisi del welfare, all’immigrazione, ai diritti e doveri di cittadinanza e alla questione ecologica. Ha quindi rilevato come a fronte di orientamenti politologici e sociologici inclini ad interpretazioni “generaliste” di ampia scala l’analisi storica di lungo periodo consente di riportare l’attenzione sulle specificità locali e sulle identità politiche a base territoriale. In particolare ha ricordato la necessità di recuperare l’origine dei fenomeni storici “ripartendo dai territori” e quindi, nel caso specifico, seguendo alcune parole chiavi che hanno connotato in modo peculiare l’esperienza storica del “modello emiliano”. In primo luogo ha ricordato la cultura, in quanto l’investimento sull’istruzione, sui processi formativi e il sapere ha rappresentato fin dalle origini ottocentesche un elemento qualificante dell’esperienza di governo delle amministrazioni locali emiliane. Ha poi menzionato la “logica” della partecipazione – strettamente associata ai temi dell’organizzazione di base della vita della comunità, dello sviluppo del decentramento e dell’intreccio tra autonomie locali ed sociali – destinata a segnare il dibattito tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento. In terzo luogo De Maria si è soffermato sul metodo della programmazione la cui elaborazione si lega strettamente alla fase di nascita dell’ente Regione. Al riguardo ha ricordato il nesso tra programmazione ed autonomia nella fase costitutiva della Regione quando le politiche programmatorie, intese non in senso dirigistico, sono state finalizzate ad una declinazione territoriale attraverso enti ed istituzioni locali quali, ad esempio, le Province. Ha quindi concluso il quadro di lettura introduttivo con un richiamo ai temi della cooperazione, del mutualismo e del terzo settore fino alla riforma del welfare locale, quest’ultimo considerato come lo strumento irrinunciabile per un’effettiva democratizzazione dell’economia. Su tale punto ha insistito sul ruolo della cooperazione nel fronteggiare l’attuale crisi finanziaria del sistema di tutela sociale attraverso un “welfare cooperativo” capace di progettare servizi di nuova generazione, mettendo così a frutto l’importante patrimonio di esperienza storica accumulato tra Otto e Novecento.

Dopo la relazione introduttiva il seminario ha proposto uno specifico approfondimento sulla cruciale questione della genesi del “modello emiliano” e del suo impianto nel passaggio tra Otto e Novecento. Nel suo intervento Fabio Montella (Amministrazione e cittadinanza ai tempi della crisi. Politiche sociali, sanitarie e scolastiche a Modena e provincia dal XX al XXI secolo) ha sviluppato una lettura che individua in alcuni passaggi di crisi e trasformazione del sistema (svolta autoritaria di fine secolo, prima guerra mondiale, ricostruzione post-bellica degli anni ‘50) delle tappe fondamentali nella creazione di politiche di welfare locale; è in tali circostanze storiche, infatti, che il Comune venne ad assumere funzioni normalmente estranee alle proprie competenze, facendosi carico direttamente delle emergenze sociali ed economiche, svolgendo un ruolo di supplenza nei confronti dello Stato.

Ha quindi ricordato l’importanza delle prime esperienze del municipalismo popolare degli anni Novanta del XIX secolo nel governo della trasformazione economica mediante il sostegno al mondo del lavoro e lo sviluppo dei servizi municipalizzati. In particolare si è soffermato sull’esperienza di due piccoli Comuni della bassa modenese: Concordia e San Possidonio. Nel primo caso il processo di trasformazione amministrativa fu promosso dal partito socialista (in particolare attraverso la figura di Confucio Basaglia divenuto sindaco nel 1895) mentre nel secondo caso la spinta all’innovazione e al cambiamento assunse una matrice liberal-democratica (attraverso la personalità del possidente Alberto Bernini). Dopo aver posto l’accento sull’importanza dell’età giolittiana nel processo di riqualificazione e d’espansione del ruolo del Comune, Montella ha poi esposto la tesi di fondo del suo intervento: la prima guerra mondiale come cesura e momento di svolta nel processo di costruzione e sviluppo del “modello emiliano”. La Grande Guerra infatti segnò profondamente l’area emiliana-romagnola divenuta un territorio strategico delle retrovie del fronte; in tale circostanza le politiche di welfare municipale vennero sottoposte a forti pressioni e l’esigenze belliche alterarono in modo irreversibile le dinamiche tra centro-periferia creando le condizioni per un protagonismo degli enti locali fino ad allora sconosciuti: «quello che si profilò fu infatti un nuovo rapporto tra Stato e Comuni, che avrebbe rappresentato la costante entro cui si svilupparono (e si sviluppa) il dibattito centro-periferia: ovvero i Comuni che diventano terminali di un sistema centralista ma anche riferimento principale e privilegiato delle spinte che arrivano dal basso».

Con un differente approccio di scala (di livello regionale) e metodologico (di taglio più propriamente politologico) Mirco Carrattieri ha proposto invece una riflessione sui partiti politici emiliani-romagnoli che intende preludere ad una nuova stagione di ricerca (Il bipartitismo imperfetto … allo specchio. Il sistema dei partiti nell’Emilia-Romagna del dopoguerra). Punto di partenza della relazione di Carrattieri è stato l’insoddisfacente stato degli studi sui partiti politici emiliani-romagnoli che evidenzia ancora oggi ampie lacune e carenze. In particolare ha ricordato come rappresenti un dato oramai acquisito e consolidato il riconoscimento del ruolo «apicale» del partito comunista e della sub-cultura “rossa” nel contesto emiliano, in particolare nella mediazione tra società ed istituzioni locali, senza tuttavia che ciò abbia prodotto un’indagine sistematica e approfondita sul PCI emiliano. A tale riguardo Carrattieri ha rinviato alla più ampia questione della declinazione territoriale dei partiti politici italiani rispetto alla quale lo stato dell’arte presenta un quadro piuttosto deficitario. Il relatore ha poi correlato la situazione della ricerca al limitato utilizzo della base documentaria e degli archivi dei partiti politici emiliani. In effetti, nonostante sia disponibile un cospicuo e importante patrimonio archivistico afferente a gran parte dei partiti politici emiliani, tale preziosa risorsa non è ancora stata effettivamente sfruttata per un’analisi storica complessiva del sistema partitico regionale.

Quindi Carrattieri ha proposto un approccio storico al sistema politico emiliano attraverso un’analisi dei meccanismi d’interazione tra i partiti politici. A tale scopo come mero strumento euristico ha fatto riferimento al classico lavoro di Giorgio Galli sul bipartitismo imperfetto utilizzato per descrivere alcune caratteristiche peculiari del sistema politico italiano del secondo dopoguerra. Ha così ricordato gli elementi fondamentali di tale modello destinato, secondo l’interpretazione tradizionale, a produrre una sostanziale debolezza del sistema democratico con problemi d’inerzia, inefficienza e sottogoverno. Nell’analisi di Carrattieri la realtà emiliana presenta una situazione speculare al quadro nazionale tale da divenire una sorta di specchio a parti invertite tra i due partiti egemoni, con un assetto socio-politico caratterizzato da una forte stabilità di voto. Tuttavia rispetto al contesto nazionale non appaiono riscontrabili quei problemi di rendimento propri di un sistema partitico statico, aprendo così lo spazio a piste interpretative che puntano a individuare nella molteplicità dei livelli di governo e nella specificità dell’atteggiamento dei principali partiti (PCI e DC) due fattori in grado di favorire le virtualità positive del modello. In particolare, rispetto a quest’ultimo punto Carrattieri ha richiamato il dibattito sulla cosiddetta “Repubblica conciliare” lanciato da Spadolini sulle colonne del “Carlino” nella seconda metà degli anni Sessanta che diede vita alla “vulgata” del compromesso al ribasso tra PCI e DC. Si tratta di una tesi che, secondo Carrattieri, «appare del resto destinata a notevole fortuna, alimentando sia le varie voci anticonsociative sia quelle che si scagliano contro il cosiddetto “cattocomunismo”, ricorrenti da Dossetti a Prodi. La difficoltà a cogliere la concorrenza competitiva con il Pci avviata in questa regione dalla sinistra Dc è forse il tratto più caratteristico di queste letture, che perdono così di vista quella che è invece una caratteristica saliente del “modello”».

La successiva relazione di Alberto Rinaldi ha invece affrontato la questione delle basi economico-sociali del “modello emiliano” e con il quale generalmente tende ad essere identificato. La struttura produttiva emiliana-romagnola caratterizzata dalla presenza diffusa di un tessuto di piccole e medie imprese ha, infatti, assunto nel tempo la valenza di caso paradigmatico che, come noto, ha alimentato una vasta letteratura economica, soprattutto a partire dagli anni Ottanta del Novecento. Nella sua relazione (Il sistema delle piccole e medie imprese) Rinaldi ha dunque affrontato il ruolo dello strato di imprese minori all’interno dell’economia emiliana a partire da tre considerazioni preliminari. Il carattere tardivo dell’industrializzazione dell’Emilia-Romagna è stato il punto di partenza di un’esposizione intesa ad evidenziare come nel corso del Novecento lo sviluppo industriale si realizzò con ritmi estremamente sostenuti consentendo al reddito pro-capite dell’Emilia-Romagna di crescere più velocemente di quello medio italiano e di quello delle regioni nord-occidentali di più antica industrializzazione. Un secondo elemento di lungo periodo ha riguardato la specializzazione settoriale dell’industria emiliana che fin dalla prima metà del XX secolo interessò soprattutto i comparti alimentare e metalmeccanico. In particolare la metalmeccanica tra il 1951 e il 2011 ha moltiplicato i propri addetti diventando «il settore strutturante dell’intera economia regionale» mentre l’industria alimentare ha visto ridursi progressivamente il suo peso, pur rimanendo il secondo comparto per numero di addetti. Il terzo aspetto di carattere strutturale ha considerato la demografia dell’industria emiliana per il ruolo centrale svolto dalle piccole e medie imprese, a partire soprattutto dagli anni ‘50. I dati forniti hanno evidenziato la quota limitata degli addetti in grandi stabilimenti (costantemente inferiori ai valori nazionali) e la tendenza, specialmente dagli anni ’80, al progressivo accrescimento del peso delle medie imprese con unità appartenenti alla classe dimensionale compresa tra 10 e 49 addetti.

Il nucleo centrale della relazione di Rinaldi tuttavia ha riguardato l’evoluzione del rapporto tra dinamiche economiche e politiche regionali con un’ampia ricognizione sulle interpretazioni del ruolo dell’impresa minore nell’economia italiana e regionale, in particolare sulle posizioni espresse dalla cultura politica della sinistra italiana. Prendendo le mosse dall’analisi togliattiana per un ”alleanza strategica con i ceti medi produttivi” ha quindi illustrato la risposta predisposta dal PCI al dibattito sul decentramento produttivo e alle posizioni della sinistra sindacale, elaborata a livello regionale al convegno di Parma del 1972. La ricostruzione di Rinaldi si è quindi soffermata sugli anni Ottanta, quando si registra l’aggiornamento delle analisi di politica economica da parte del PCI regionale con la ricezione della nozione di distretto industriale e l’adozione di coerenti politiche economiche da parte della Regione.

E’ seguito l’intervento di Vanni Bulgarelli (Urbanistica e “modello emiliano”) che ha sviluppato una ricostruzione di lungo periodo sul rapporto tra trasformazioni urbanistiche ed esperienze politico-amministrative. In particolare, soffermandosi sul caso modenese (per molti versi paradigmatico dell’area emiliana centrale), ha sottolineato gli elementi di continuità e di frattura nell’attività di pianificazione del territorio, evidenziando l’attitudine delle politiche urbanistiche a rispecchiare le diverse visioni di società succedutesi nel corso del Novecento. Bulgarelli ha anzitutto ricordato l’incapacità delle amministrazioni liberali d’inizio secolo d’esprimere una concezione organica di sviluppo urbanistico. Solamente con il piano regolatore del 1906 (approvato nel 1909), pur all’interno di una prospettiva insediativa di tipo “classica” (reticolo strade, lottizzazione residenziale, modello dell’isolato), si cominciò a profilare un’idea di società capace di evidenziare elementi di coesione. Tuttavia l’espansione urbanistica nella prima metà del XX secolo risultò ancora sostanzialmente condizionata dai valori e dagli interessi della rendita fondiaria e urbana. Anche il fascismo cercò di attuare una regolazione urbanistica che peraltro intorno alla metà degli anni Venti cominciò a presentare un marcato tratto classista nella distribuzione degli insediamenti popolari. Nonostante gli sforzi del regime il fascismo a Modena, diversamente da altre realtà limitrofe come Reggio Emilia, non riuscì a realizzare un piano regolatore. Solamente nel rinnovato contesto del dopoguerra le autonomie locali nel governo della città e dei territori cominciarono a sperimentare le forme concrete di una «democrazia urbana progressiva» attuando una trasformazione urbanistica e architettonica rispondente ad una nuova stagione di cittadinanza (“La città dei diritti”). In particolare a Modena dopo una prima fase di gestione dello sviluppo urbano condizionato dall’impetuoso mutamento socio-economico si realizzò il definitivo superamento del tradizionale modello urbanistico di controllo dell’espansione. Il piano regolatore, infatti, divenne lo strumento fondamentale per costruire un’idea di città coerente con la visione complessiva della società; intorno alla metà degli anni Sessanta segnata dal primo PEEP del 1964 e dal successivo PRG del 1965 (coordinato da Giuseppe Campos Venuti) furono così tracciati i paradigmi del modello d’urbanistica progressista. E’ in questa fase storica che «la città si apre, la qualità edilizia migliora, la rete delle relazioni e dei servizi si allunga» e presero forma quelle aree verdi concepite da Osvaldo Piacentini come dotazioni infrastrutturali per organizzare la vita quotidiana della città. Concludendo il suo intervento Bulgarelli ha evidenziato la capacità delle amministrazioni emiliane degli anni Sessanta di assumere la pianificazione come strumento d’integrazione sociale al punto da poter considerare le politiche urbanistiche come una componente fondamentale dell’esperienza del “modello emiliano”.

E’ stata quindi la volta di Oscar Gaspari che ha tematizzato il “modello emiliano” attraverso la vicenda storica delle forme associative delle amministrazioni locali (Il “modello emiliano” e l’associazionismo degli enti locali. Il ruolo della Lega dei comuni democratici-Legautonomie 1916-1966). Nel suo intervento Gaspari anzitutto ha rilevato il peculiare attivismo delle amministrazioni locali emiliane nella dinamica storica otto-novecentesca tra centro e periferia: «la chiave attraverso la quale il modello emiliano si è imposto nella ricerca del dialogo tra due antagonisti tanto diversi per peso e ruoli come sono padrone e operai e padrone e braccianti è stata la stessa che ha permesso di esser protagonista nel dialogo tra Stato e Comuni: il principio dell’associazionismo, la Lega». Il relatore ha quindi ricordato la forza e il radicamento del principio associativo in Emilia al punto che «l’idea di estenderlo a delle istituzioni parve naturale, mentre non lo era assolutamente in altre aree del paese». In effetti, ha rilevato che nel triangolo compreso tra Parma, Bologna e Ferrara nacque l’associazionismo delle istituzioni in Italia. A Parma sorse il progetto di una lega dei Comuni e si svolse nel 1901 il congresso di fondazione dell’Associazione dei comuni italiani. Anche la proposta di fondazione di un’unione delle Province italiane vide la luce in Emilia: fu infatti la Deputazione provinciale di Modena che propose di creare un “ente associativo” tra le province italiane, mentre la commissione incaricata di redigere lo schema di statuto dell’Unione poteva contare sulla partecipazione di due realtà emiliane (Modena e Reggio Emilia) accanto ai rappresentanti di alcune grandi province italiane. Inoltre il Segretariato della Montagna (l’organismo dei municipi montani) sorse su impulso del reggiano Meuccio Ruini e di Giuseppe Micheli, originario di Parma. Del resto anche l’organizzazione fascista di comuni e province evidenzia un’inequivocabile “matrice” emiliana poiché nel 1922 fu costituita nella provincia di Ferrara una federazione provinciale dei comuni fascisti sul cui modello l’anno successivo venne costituta la Confederazione nazionale degli enti autarchici che assorbì Anci ed Upi.

La relazione di Gaspari si è comunque incentrata principalmente sull’originale esperienza della lega dei comuni socialisti, fondata a Bologna nel 1916 su iniziativa d’autorevoli esponenti del socialismo riformista. Sorta per affermare l’identità socialista e soppressa nel 1922 dai massimalisti per il suo carattere riformista consegnò un’importante eredità destinata ad essere raccolta dalla lega dei comuni democratici nel secondo dopoguerra. Nell’intervento Gaspari ha insistito sulla vicenda della soppressione della lega dei comuni socialisti da parte della componente massimalista la cui memoria è stata lungamente rimossa a favore di una “vulgata” che attribuiva al fascismo la conclusione di tale esperienza. Inoltre ha inteso rimarcare che, nonostante il legame simbolico, il primato della politica nazionale sulle istituzioni locali rese la lega dei comuni democratici un’associazione con caratteristiche e motivazioni fortemente differenti dalla sua progenitrice. In ogni caso, così come la lega dei comuni socialisti, anche la lega dei comuni, sorta nel 1947 a Firenze e di cui il sindaco di Bologna Giuseppe Dozza fu il leader indiscusso, rappresentò una struttura organizzativa con due obiettivi principali: 1) promuovere a livello nazionale un nuovo modello di governo e di democrazia locale caratterizzato dalla realizzazione d’innovativi istituti di partecipazione politica (consigli tributari e consulte popolari) affiancati anche da forme sperimentali di decentramento tecnico-amministrativo (come i servizi demografici); 2) realizzare una rete capillare tra i comuni per creare strumenti e condizioni finalizzate alla gestione del governo locale. In conclusione, per Gaspari «dal punto di vista della storia del movimento comunale e per le autonomie locali il modello emiliano ha costituito il modello di riferimento» e l’esperienza associativa (prima della lega dei comuni socialisti e quindi dei comuni democratici) ha rappresentato un importante strumento per esportare a livello nazionale il modello istituzionale incarnato dalle personalità di Zanardi, Dozza e Zangheri.

Ha chiuso la serie degli interventi Matteo Troilo con una relazione (Origini e sviluppo del welfare emiliano. Un’analisi comparata nel panorama nazionale) che ha riportato l’attenzione su una delle caratteristiche più forti e identificative del “modello emiliano”, il sistema di welfare locale, assunto nel tempo ad un vero e proprio modello, almeno sul piano teorico, per lo sviluppo d’analoghe esperienze. Punto di partenza della relazione di Troilo è stato il riconoscimento della difficoltà d’identificare un unico modello di welfare emiliano non solo per l’eterogeneità territoriale che caratterizza l’area emiliana-romagnola ma anche in quanto le politiche sociali «più che regionali sono l’insieme di varie politiche comunali» (per la centralità della dimensione municipale nel sistema di tutela sociale rispetto a quella statale e regionale). Nonostante tale complessità Troilo ha proposto articolate argomentazioni derivanti da una ricerca in corso finalizzata a riconoscere l’esistenza di un welfare emiliano attraverso il metodo della comparazione con altre realtà regionali. Sul piano storico ha quindi ricordato la rilevanza della fase successiva alla seconda guerra mondiale quando anche in Italia si cominciò gradualmente a profilare un sistema di welfare state ed anche in ambito locale si definirono le impostazioni generali della politica del “doppio binario”: da un lato i servizi gestiti e finanziati dallo Stato (pensioni, scuola e poi sanità), dall’altro lato i servizi in gestione alle istituzioni locali (alloggi popolari, servizi all’infanzia e agli anziani, ecc.). Tale assetto nel corso del tempo avrebbe comportato una sostanziale disomogeneità territoriale poiché mentre per i servizi gestiti dallo Stato si è realizzata una progressiva attenuazione delle differenze regionali, per i servizi in capo agli enti locali sono emersi evidenti divari (in taluni casi i servizi sono risultati assenti, in altri efficienti, in altri ancora del tutto inefficienti). All’interno di questo quadro piuttosto articolato, l’istituzione della Regione con la conseguente gestione del servizio sanitario ha introdotto ulteriori elementi di complessità del sistema.

Per verificare l’esistenza di un welfare emiliano-romagnolo Troilo ha quindi proposto l’adozione di un metodo comparativo che, sul modello di quello utilizzato nella comparazione dei sistemi di welfare nazionali, intende mettere a confronto le diverse esperienze regionali italiane. A tale scopo, si è soffermato in particolare su alcuni fattori fondamentali da utilizzare nell’analisi comparata e sulla loro declinazione nel contesto emiliano-romagnolo: a) lo sviluppo economico; b) la conflittualità sociale; c) la struttura demografica; d) l’urbanizzazione; e) il tessuto sociale. Il quadro emerso ha evidenziato una significativa specificità dell’esperienza emiliana su alcuni aspetti fondamentali, sia sul piano del percorso storico che rispetto a dati strutturali dei vari contesti regionali, aprendo così spunti interpretativi di notevole interesse per lo sviluppo della ricerca.

Come risulta particolarmente evidente dall’ultima relazione di Troilo, la giornata di studi ha sollevato questioni che interrogano con forza la politica e la stessa progettualità politico- amministrativa. Non a caso il seminario è stato concluso da una tavola rotonda sul tema: Il “modello emiliano” fra passato e futuro che ha coinvolto alcuni protagonisti ed attori di oggi, offrendo un’interessante occasione di dibattito per un’attualizzazione dell’esperienza storico-politica del “modello emiliano”.[5] In ogni caso, rimanendo sul piano della riflessione storiografica nel complesso il seminario modenese ha confermato la vitalità e le potenzialità di un approccio storico al “modello emiliano”. In particolare, anche alla luce dei contributi illustrati nei precedenti appuntamenti bolognesi, fra le varie suggestioni emerse si possono enucleare almeno tre nodi tematici di particolare interesse sul versante della storia politica.

Un primo punto riguarda la questione delle geografie e dei tempi della fase insediativa del “modello emiliano”. Per un territorio come quello emiliano-romagnolo segnato non solo dal tradizionale policentrismo ma anche da una struttura geopolitica fortemente condizionata dai fondamentali ambiti territoriali (l’area della pianura, l’asse viabile pedemontano e la fascia collinare-montana), sul lungo periodo emerge con forza la necessità di relazionare l’evoluzione delle culture e delle prassi amministrative alla dimensione spaziale, con particolare attenzione alle specifiche “aree di coerenza” territoriali. Da un lato quindi gli interventi hanno consentito di allargare lo sguardo a contesti esterni all’area centrale emiliana con il quale tradizionalmente è identificato il “modello emiliano” (le tre province di Bologna, Modena e Reggio Emilia) al fine di tracciare alcuni tratti dell’insediamento regionale del “modello emiliano”; dall’altro lato alcuni contributi hanno sollevato la necessità di connettere l’evoluzione delle culture e delle pratiche amministrative con riguardo alla specifica dinamica tra ambiente rurale ed urbano, caratterizzata da una precocità della sperimentazione amministrativa dei centri della bassa pianura.

Un secondo fattore emerso dalla prospettiva storica d’ampio raggio riguarda il tema del confronto/scontro tra le diverse culture politiche in rapporto alle prassi amministrative. Come ha osservato De Maria «per riuscire a capire la specificità del “modello” in Emilia e anche in Romagna non basta analizzarne la componente politica egemonica (rappresentata solitamente dalla cultura social-comunista) ma bisogna anche studiare le caratteristiche delle culture di opposizione cattolica, liberal-progressista o repubblicana».[6] In effetti, si tratta di un aspetto centrale la cui valenza ha assunto in determinate fasi storiche una connotazione e un ruolo decisivo; in particolare sembra possibile riconoscere due momenti “forti” in cui la “contaminazione” tra le diverse culture politiche è stata particolarmente feconda per l’elaborazione e l’attuazione delle pratiche amministrative. La prima è rinvenibile nella fase d’impianto del “modello emiliano”, ovvero nel passaggio tra Otto e Novecento, quando il municipalismo popolare si nutrì non solo delle istanze del riformismo socialista ma contrasse un debito indiscutibile anche nei confronti del repubblicanesimo mazziniano (in particolare in Romagna) e della democrazia radicale, specialmente su alcune tematiche legate alle istanze solidaristiche ed assistenziali di matrice laica (come la riforma delle Opere Pie). La seconda fase nella quale si assiste ad un’intensificazione della “contaminazione” tra le diverse culture politiche sono gli anni Sessanta e Settanta del Novecento quando, nonostante gli steccati ideologici e le retoriche della “grande contrapposizione”, la cultura comunista e quella del cattolicesimo sociale trovarono importanti punti di convergenza sul terreno delle pratiche amministrative e degli strumenti di governo locale. Emblematiche da questo punto di vista sono l’esperienze compiute nel campo urbanistico e della pianificazione territoriale da personalità come Osvaldo Piacentini e Giuseppe Campos Venuti nella realizzazione dell’”urbanistica riformista” promossa dalle amministrazioni “rosse” delle città emiliane.

Infine, un terzo elemento di rilievo riguarda la questione della funzione legittimante del “modello emiliano” nei confronti del sistema politico nazionale; tale questione si collega strettamente all’immagine dell’Emilia-Romagna come “regione-contro” e alla sua configurazione strutturalmente antisistema nell’Italia otto-novecentesca. Non si tratta naturalmente di un tema storiografico sconosciuto ed anche il ruolo cruciale svolto dal “modello emiliano” ai fini della legittimazione al governo nazionale di forze antisistema rappresenta un elemento già parzialmente tematizzato. Tuttavia in una prospettiva storica di lungo periodo la funzione legittimante non può essere limitata alla fase aurea di realizzazione di un modello che, come noto, contribuì ad alimentare il mito della “diversità positiva” del PCI (e la cui rappresentazione divenne fondamentale per marcare tale immagine a livello nazionale ed internazionale). In effetti l’ottica d’ampio respiro ha evidenziato la necessità di estendere la funzione legittimante del “modello emiliano” all’intero ciclo storico otto-novecentesco, includendovi quindi anche la cruciale stagione del municipalismo popolare. Infatti l’Imola di Andrea Costa, la Reggio Emilia di Camillo Prampolini o la Bologna di Francesco Zanardi non furono soltanto laboratori amministrativi di grande valenza simbolica ma anche risorse decisive per accreditare all’interno del sistema politico nazionale l’”efficienza riformatrice” del partito socialista. Pertanto, sottoponendo al vaglio della ricerca alcuni promettenti motivi di riflessione emersi dalle giornate di studio sarà possibile cogliere il ruolo svolto dalla lunga stagione del “modello emiliano” nel fornire “diritto di cittadinanza” ai partiti socialista e comunista nell’Italia liberale e repubblicana.

 

 


[1] C. De Maria (a cura di), Bologna futuro. Il “modello emiliano” alla sfida del XXI secolo, Bologna, CLUEB, 2012.

[2] Per un resoconto del seminario bolognese cfr. Federico Chiaricati in “Storia e Futuro”, 2012, n. 28, www.storiaefuturo.com

[3] Hanno partecipato come discussant al seminario Stefano Magagnoli (Università di Parma), Emanuele Bernardi (Università La Sapienza – Fondazione Istituto Gramsci), Tito Menzani (Università di Bologna), Marzia Maccaferri (Università di Modena e Reggio Emilia), Carmelo Elio Tavilla (Università di Modena e Reggio Emilia), Tindaro Addabbo (Università di Modena e Reggio Emilia).

[4] In particolare cfr. C. De Maria (a cura di), Andrea Costa e il governo della città. L’esperienza amministrativa di Imola e il municipalismo popolare 1881-1914, Reggio Emilia, Diabasis, 2010.

[5] Alla tavola rotonda coordinata da Giovanni Solinas (Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia) hanno partecipato Ugo Baldini (presidente di CAIRE – Urbanistica), Stefania Gasparini (segreteria provinciale CISL funzione pubblica), Enzo Madrigali (direttore DemoCenter – Sipe), Massimo Mezzetti (assessore Cultura e Sport della Regione Emilia-Romagna), Franco Mosconi (Università di Parma) e Mario Zucchelli (presidente Coop Estense).

 

[6] C. De Maria, Il “modello emiliano”: una prospettiva storica, in C. De Maria (a cura di), Bologna futuro. Il “modello emiliano” alla sfida del XXI secolo, cit., p. 16.

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    By: Alberto Ferraboschi

    Alberto Ferraboschi è responsabile dell’Archivio storico della Provincia di Reggio Emilia. E’ autore di studi sulle istituzioni locali e le classi dirigenti emiliane, con particolare riferimento al caso reggiano. Ha pubblicato: Borghesia e potere civico a Reggio Emilia nella seconda metà dell’Ottocento (1859-1889), Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003, vincitore del premio nazionale “Anci Storia” per l’anno 2004.

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