Il volume di Pasquale Iuso, dedicato agli anarchici nell’età repubblicana, traccia un profilo del movimento dalla Resistenza agli anni della Contestazione, dunque, dal 1943 al 1968. L’autore nella sua ricostruzione coniuga le vicende interne, anche politiche ed organizzative, dei vari gruppi anarchici con le trasformazioni che l’Italia subisce tra costruzione della democrazia politica, modernizzazione economica e insorgere dei primi movimenti sociali, fuori dai partiti e dai sindacati, con caratteristiche latamente anticapitalistiche e, come si diceva allora, di contestazione del sistema.
A me sembra che questo tentativo di lettura, di uno storico contemporaneo che è insieme uno studioso dell’anarchismo, rifletta una maturazione della storiografia sull’anarchismo. Anche se limitatamente all’età repubblicana, al volume è sottesa la questione del significato di questo complesso movimento, tra l’altro di lunga durata, che nasce a metà dell’800 e persiste in tutta la storia italiana, e del ruolo che ha avuto nei passaggi più significativi della storia italiana.
In questo senso, a me pare, che la ricerca condotta consente anche un ulteriore allargamento dell’orizzonte conoscitivo e interpretativo pur rilevante, che aveva condotto, ormai dieci anni fa, alla vasta pubblicazione del «Dizionario biografico degli anarchici».
Certo in quella pubblicazione, per ovvie ragioni, l’insieme degli studiosi impegnati nelle singole biografie avevano di fatto ricostruito una larga rete e una significativa porzione del tessuto e dell’insieme di relazioni e, dunque, avevano fornito un quadro articolato della struttura e dei riferimenti territoriali su cui si era impiantato il movimento anarchico.
Biografia e territori, biografia e reti territoriali, biografie e vicende biografiche e familiari, rapporti generazionali sono tutti schemi analitici – ricostruttivi presenti nel Dizionario e hanno implementato una mole conoscitiva della composita realtà del movimento anarchico a cavallo tra i primi del Novecento e le vicende dell’immediato dopoguerra.
Tuttavia, per uno studioso non legato direttamente al movimento anarchico e che voglia, in qualche misura, avere uno sguardo più complessivo, rimane il quesito: come dare un senso a questo insieme di biografie, come ricostruire, trovare un’interpretazione dell’insieme dell’anarchismo in relazione alla storia politica e sociale del Paese.
Questo perché delle due l’una: o l’anarchismo è movimento a-nazionale e allora è un movimento che si può ricostruire nei suoi tratti essenziali attraverso semplici passaggi ideali; o l’anarchismo è, in qualche modo, un movimento che nasce e si sviluppa in un contesto nazionale e allora non è immaginabile che non abbia avuto un “feedback” con la realtà del Paese nel quale è nato e si è sviluppato.
In altri termini, o l’anarchismo è un movimento intellettuale, e come tale dobbiamo storicizzarlo, e quindi i percorsi generazionali sono strumentali a questi percorsi di testimonianza intellettuale che si auto-riproducono, o viceversa le biografie, i salti generazionali, i territori che vengono investiti e toccati più profondamente dai fenomeni associativi anarchici si collocano dentro una storia e, allora, i rapporti tra questi movimenti e la storia complessiva diventa un passaggio obbligato, per la comprensione così delle biografie che del movimento nella sua complessità.
A riguardo ritengo che il libro di Pasquale Iuso indichi questa seconda strada. Esso è costruito sul presupposto storiografico che è necessario e possibile “normalizzare” la storia degli anarchici, scegliere o privilegiare una lettura più compiutamente storica, in cui il fenomeno posto a oggetto della riflessione, ossia il movimento anarchico, interagisce ed è comprensibile solamente se collegato come tutti i fenomeni contemporanei, al mutuo condizionamento con i soggetti istituzionali, con quelli giuridici, politici, economici e culturali.
Mi rendo conto che il carattere interno dei movimenti condiziona la ricostruzione del movimento stesso e un movimento che si autodefinisce secondo le linee teoriche dell’anarchismo in re tende a sfuggire a questo tipo di lettura.
Però a converso si può sostenere che se noi prescindiamo da questo alla fine la lettura che si può dare del movimento anarchico finisce con l’essere non solo autoreferenziale, ma inutilmente limitativa delle potenzialità, dei ruoli, dei limiti e degli errori, ma anche degli apporti che un movimento di così lunga durata, ricco e sfaccettato ha esercitato.
Tutto ciò in nome di una coerenza e di una purezza astratta dell’anarchismo come movimento non contaminato, che però ha come sua controindicazione teorica e conoscitiva, il grande limite che ci rende la storia dell’anarchismo una storia quasi tautologica. Una storia che nasce e si esaurisce nel momento stesso in cui viene formulata.
Invece, leggendo questo libro, ho avuto l’impressione che l’interazione sia stata molto più densa e articolata. Il movimento anarchico riceve moltissimo dalla realtà esterna e moltissimo restituisce alla realtà esterna sia in termini di analisi, che di valori, che di proposte suscettibili di aprire processi di consenso significativi in settori eterogenei della società. Dunque, se vogliamo studiare il movimento anarchico da un punto di vista storico, non ci troviamo di fronte a quello che in termini schematici potrebbe essere definito un ‘blocco monolitico’ che semplicemente resiste e si oppone ai processi di modernizzazione.
Pasquale Iuso ricostruisce e periodizza il rapporto tra dimensione politico-organizzativa, i tentativi, i fallimenti, le approssimazioni ma anche i successi che il movimento riesce a conseguire nel quadro dell’evoluzione del ciclo storico dell’Italia repubblicana.
Nel fare ciò indica una linea interpretativa e ricostruttiva che, a mio giudizio, è sostanzialmente valida e pertanto non deve rimanere legata solo al periodo 1943-1968. È possibile utilizzare questa lettura anche per ridiscutere la classica alternativa formulata da Pier Carlo Masini tra storia degli anarchici o storia dell’anarchismo. Riemerge così il problema di una interpretazione che utilizza queste categorie socio-politiche e che può essere estesa all’intero movimento dalla sua formazione agli avvenimenti più recenti. Ove fosse utilizzata questa linea ricostruttiva, con una certa dose di coraggio e anche di anticonformismo da parte degli studiosi anarchici, ma anche da parte degli studiosi esterni al movimento, sarebbe possibile pervenire a un giudizio di merito complessivo al di là delle tradizionali schematizzazioni; al superamento della dicotomia tra liquidazione / demonizzazione e assolutizzazione.
La stessa categoria di anarchismo perderebbe il carattere di semplice indizio riferibile a un paese arretrato alle prese con problemi di modernizzazione, ma anche la mistica di farne un crogiuolo di valori metastorici che, se applicati, conducono alla fine della storia e se non applicati vengono utilizzati per mettere continuamente in discussione le varie fasi di avanzamento della società italiana contemporanea.
A me sembra che se utilizziamo i due elementi, quello generazionale e quello delle biografie, che in qualche misura si adattano bene a ricostruire e a capire il senso profondo di questo movimento, cioè utilizziamo questi elementi interpretativi per delineare il quadro complessivo del ruolo dell’anarchismo, credo che possiamo avvicinarci a una considerazione dell’anarchismo come componente essenziale della storia nazionale.
Quindi, in qualche modo, ad adombrare l’esistenza di una cultura politica anarchica che si colloca legittimamente nella storia di questo Paese, senza demonizzazioni, ossia senza ricorrere ad essa per esprimere ciò che di arretrato ed immaturo c’è stato nella storia italiana, ma anche senza ricorrere ad essa per vagheggiare soluzioni avveniristiche e metastoriche del percorso della società e dello Stato italiano.
Utilizzando biografie e dimensione generazionale, ma integrandole con l’analisi teorica e, soprattutto, con la ricostruzione delle strutture politico-organizzative dell’anarchismo, con i passaggi della storia italiana, se impostiamo la riflessione muovendo da questa compenetrazione, credo che sia possibile discutere di una legittima presenza e di un peso dell’anarchismo nella storia italiana misurabile storicamente, cioè con criteri che siano il più possibile non ideologici, non metafisici e non di valutazione etica.
Per alcuni versi l’utilizzo dell’espressione “cultura politica” si attaglia al movimento anarchico molto più che alle altre culture politiche che, più che politiche, sono culture partitiche e sindacali.
La categoria di cultura politica recentemente molto usata, e forse anche abusata, – che a me sembra una categoria di derivazione cultural-sociologica e quindi una categoria interpretativa “leggera” – è, tuttavia, utile e si può applicare in modo legittimo e coerente al movimento anarchico che esprime una culture, prima ancora che un’organizzazione, o comunque un’organizzazione che è funzionale a una cultura.
Infatti, le principali culture politiche sono a mio giudizio delle traslazioni di quelle che sono storie di veri e propri partiti ed organizzazioni, che di cultura hanno ben poco nel senso intellettuale del termine. In genere sono programmi, obiettivi e traguardi di movimenti ben organizzati politicamente, dunque partiti, oppure organizzati economicamente, quindi sindacati. Strutture cioè volte ad affermare nella società, nei rapporti economici e nei rapporti politici, spazi di potere. In questi, dunque, di culturale nel senso intellettuale del termine non vi individuo molto.
Nel movimento anarchico è, invece, possibile individuare una dimensione di vera e propria cultura politica, quasi a integrazione di una storia organizzata e politicamente e sindacalmente strutturata che appare meno prevalente. L’elemento della dimensione culturale è, infatti, in sintonia con un movimento che è essenzialmente apolitico, a-democratico ed a-classista, quindi con un movimento che tende a trovare un suo cemento effettivo in questi aspetti più culturali.
Se consideriamo l’anarchismo nel suo complesso e non semplicemente come un insieme di isole privilegiate, e se, soprattutto, leggiamo gli elementi di anarchismo che sono contenuti nelle diverse forme organizzative, nelle molteplici elaborazioni teoriche e nelle originali esperienze dei singoli gruppi anarchici, sembra che sia rintracciabile questo cemento più propriamente culturale.
Esso, anche se non esaustivo dell’intero movimento, appare prevalente rispetto a quello che tiene insieme socialismo, cattolicesimo, comunismo. Forze queste ultime che hanno tutte matrici che sono sindacati, partiti ed organizzazioni come tali.
Nella dimensione della cultura politica dell’anarchismo vi è dominante un elemento, assente invece negli altri, ossia la lotta per il potere. La lotta per il potere, e non per la sovversione e il cambiamento della società, che è la categoria guida dei partiti e delle organizzazioni economiche e sociali, nell’anarchismo è sostituito dall’affermazione dei valori in sé. L’anarchismo presenta se stesso come un valore che si afferma quasi indipendentemente dal conflitto per il potere. Per questo a me sembra che il concetto di cultura sia ben applicato al movimento e se l’utilizziamo per l’intero corso della storia italiana allora possiamo effettivamente rintracciare un percorso stabile di cultura anarchica nell’intera storia nazionale.
Mentre quelle discontinuità generazionali di cui parla per esempio Giorgio Sacchetti, che sono molto interessanti, segnalano che il movimento anarchico è discontinuo o meglio privo di una stabile e chiara lotta per il potere, che la dimensione dell’essere in una realtà nazionale in funzione dell’affermazione di potere non gli appartiene come caratteristica genetica. Dunque quello che gli è più proprio è la riaffermazione, anche nei momenti dell’‘anello mancante’, della cultura, di un preservare e tramandare una memoria di valori che spesse volte è una memoria di valori che incide nella società, nelle sue trasformazioni, che orienta gruppi e persone, dà senso a intere tradizioni familiari, che però diventa solo occasionalmente una realtà volta ad affermare un “potere” anarchico nella società, una limitazione del potere delle altre culture politiche in funzione della cultura anarchica.
Questo è uno degli elementi di riflessione più denso di implicazioni intorno al rapporto tra anarchismo e storia d’Italia e che, dunque, meriterebbe di essere approfondito.
Un altro aspetto rinvia alla qualità di questa cultura. In questo caso occorre predisporre un’analisi per comprendere la cultura politica anarchica nel suo concreto svolgimento e quale rapporto ha instaurato con la dimensione storica nazionale.
Da questo punto di vista sostenere che la cultura politica anarchica è una cultura non partitica e, dunque, non legata alla trasformazione del potere e dei suoi assetti sociali ed economici, giacchè il suo presupposto fondamentale è la distruzione di ogni potere, equivale ad individuare uno dei temi che, analizzati storicamente, consentono di riflettere sul contributo che l’anarchismo ha immesso nella storia italiana.
Sorge un quesito ineludibile: non lottare per trasformare la natura e i caratteri delle forme di potere costruite nello stato e nella società dell’Italia unita, da parte della cultura politica anarchica, si è forse trasformato in un alibi perché quelle strutture di potere mantenessero quelle caratteristiche trasformistiche che sono state tipiche della storia politica e statale italiana? Cioè avere una cultura politica, ma chiamarsi fuori da un’inevitabile trasformazione della cultura politica in strumento di lotta politica per il potere, se rapportato alla cultura dell’anarchismo e ai rapporti tra cultura e movimento dà luogo a una dialettica interpretativa normale, ma se la inseriamo nella storia complessiva dell’Italia, di cui questa cultura fa parte, siamo indotti a interrogarci su questa assenza che ha determinato nell’organizzazione del potere nella forma dello Stato e nelle principali relazioni sociali ed economiche del Paese.
Se la chiave di lettura non è autoreferenziale e, quindi, non stiamo parlando dell’anarchismo in sé, cioè del rapporto tra l’anarchismo e la sua base sociale, territoriale ed ideale, ma accettiamo il principio che occorra un’analisi volta ad inserire la lettura dell’anarchismo nella storia nazionale del paese, allora non è possibile sottrarsi al punto fondamentale di darne una valutazione, basata sugli stessi parametri interpretativi delle altre culture che “diventano” partiti, organizzazioni e strumenti di organizzazione e gestione del potere. In questo senso la griglia interpretativa va orientata al rapporto tra ciò che “volevano fare” e “ciò che fanno”. Non è possibile, dunque, sottrarre anche il movimento anarchico da questo procedimento valutativo e, laicizzandolo al massimo, lo valorizziamo come una delle componenti stabili della società italiana, ma come tale lo valutiamo.
Nella storia d’Italia socialisti, comunisti, cattolici hanno combattuto aspramente l’anarchismo e gli anarchici.
La lotta su questo terreno il movimento anarchico l’ha combattuta elaborando soprattutto concezioni sindacali, più che di partito contrapponendole a quelle riformiste, socialiste a quelle ispirate al corporativismo cattolico. Essi hanno assimilato e rielaborato programmi e ideologie come quelle del sindacalismo rivoluzionario, nella veste dell’anarcosindacalismo, questo processo segnala gli sforzi che il movimento anarchico compie per collocarsi sul terreno del potere, cioè per non essere tenuti ai margini, ma sono stati sconfitti. Questo è il punto.
Il problema è che la loro “sconfitta”, tuttavia, è più imputabile a un loro darla vinta sul terreno istituzionale perché ritenuto un terreno secondario. Tuttavia, le idee e le esperienze che hanno immesso nella storia del movimento operaio, oltre che gli uomini, che si formano nel loro contesto ideale e programmatico, ha continuato ad alimentare la struttura dell’organizzazione sindacale.
Io sono dell’opinione che addirittura si potrebbero trovare tracce di questa linfa sicuramente nella tradizione sociale della Cgil, che periodicamente nei momenti di stallo fa conto con categorie come l’autonomia, la democrazia di base e decentrata, il ruolo attivo dei lavoratori, l’anti-istituzionalismo democratico, tutti temi che fanno parte della matrice anarchica sia nella sua originaria versione bakuniniano-agricola che in quella industriale-classista, sia nel leghismo che nelle Camere del lavoro. Anche la tradizione corporativa cattolica, subisce una reale trasformazione in senso classista (la Fim e la Cisl di Pierre Carniti), ma probabilmente sotto la spinta di elementi non partitici e non del sindacalismo tradizionale socialista, ma molto probabilmente risentendo dell’influsso anche indiretto di questa cultura politico sindacale dell’anarchismo, antiburocratica, democratica di base, antiverticistica, che non può certo nascere come un’evoluzione della tradizione cattolica del sindacalismo o del partito, rispetto alla quale appare completamente estranea. Se un alimento esterno ce l’ha, a parte l’americanismo, è un elemento che gli deriva proprio dall’essere rimasto il movimento operaio organizzato permeato da questi elementi che l’anarchismo ha tramandato coraggiosamente sotto forma di cultura diffusa attraverso gruppi, famiglie, territori, luoghi di lavoro determinati e omogenei.
Questa persistenza dell’anarchismo come componente stabile della “cultura” di base del movimento operaio italiano alimentata dall’antifascismo e dalle vicende della guerra di Spagna, permea anche il movimento sindacale. Qui si scontra anche con le altre impostazioni, tuttavia mantiene una sua specifica configurazione politico-programmatica e un suo radicamento socio-territoriale ben determinato con un legame tra le generazioni assai tenace.
La lotta che ne deriva rompe certamente la dimensione autonoma del movimento anarchico che non riesce a crearsi un suo sindacato, ma, allo stesso tempo, non può essere assimilato né espulso da parte delle componenti politico-sindacali maggioritarie.
Emblematico a proposito è la vicenda dell’USI, la cui storia si sviluppa come scissione dalla CGDL, ma al cui interno la componente anarchica ne costituisce la parte più originale.
In questo sindacato la cultura anarchica legata agli elementi dell’antiautoritarismo fa sì che la componente anarcosindacalista sia immune rispetto a quella sindacalista rivoluzionaria all’autoritarismo del fascismo.
I sindacalisti rivoluzionari considerano il problema sindacale più “tecnico” sotto un profilo legato alla battaglia con il riformismo politico-sindacale dei socialisti.
È in questa visione che di fronte alla proposta “tecnica” e latu sensu politica del fascismo che sembra valorizzare le funzioni sindacali-produttive, alcuni di essi divengono inclini ad aderire allo schema corporativo, come del resto accade anche per alcune correnti del sindacalismo ultra-riformista. Il fascismo viene considerato “tecnicamente” accettabile, laddove dà forza alla rappresentanza sindacale dei lavoratori, introduce i contratti obbligatori, ecc.
Per la cultura anarchica questo invece è inaccettabile perché senza quegli elementi di antiautoritarismo e di libertà e democrazia non era possibile appartenere alla famiglia politico-ideale dell’anarchismo.
Quindi si tratta di capire se parlando della storia italiana in definitiva noi possiamo identificare nella tendenza autoritaria e nel trasformismo, che sta alla base dell’autoritarismo, la matrice principale che ha portato di fatto lo Stato italiano all’attuale empasse. Se in questo senso possiamo dire che la presenza di una cultura antiautoritaria stabile, che si ripresenta nell’età liberale, durante il regime fascista e anche nel periodo della democrazia repubblicana possa essere considerato un antidoto forte e utile in una società che ha così una naturale tendenza da parte delle altre culture politiche a convergere verso il trasformismo autoritario. Al tempo stesso è opportuno porsi il problema se questo “quid” specifico della politica di matrice anarchica sia stato giocato male e poco nel tentativo di limitare il più possibile il trasformismo autoritario dello Stato e delle classi dirigenti italiane.
Qui emerge, in conclusione, l’ulteriore problema di una forza intrinsecamente interclassista e, quindi, al cui interno è presente la forma della mediazione latamente trasformista, che intende trasformarsi in una cultura politica resistente alla deriva autoritaria.
Queste sono alcune riflessioni di carattere generale che nascono dalla lettura dell’ampia, documentata e matura ricostruzione contenuta nel volume di Pasquale Iuso.
[1] Il testo, rivisto dall’autore, riproduce l’intervento orale svolto in occasione della presentazione del volume di P. Iuso, Gli anarchici nell’età repubblicana. 1943-1968 (Pisa, Bfs, 2014), presso la Fondazione Di Vittorio il 17 aprile 2015.