La mia magnifica ossessione – Incontro con Piero Spila

Perché Bertolucci?

L’idea di un libro che raccogliesse i testi di Bernardo Bertolucci è nata da un mio vecchio ricordo: la lettura di un articolo-recensione pubblicato da “Cahiers di Cinéma” in cui Bernardo, allora giovanissimo regista, scriveva di due film di Godard, realizzati dal regista francese quasi contemporaneamente. I film erano “Made in Usa” e “Due o tre cose che so di lei” e il tipo di analisi fatta era da critico cinematografico con il valore aggiunto di una spiccata sensibilità registica. Insomma Bertolucci scriveva del cinema di Godard da pari a pari, con una stima evidente ma anche senza pregiudizi di alcun tipo. Era un tipo di scrittura molto personale che mi aveva impressionato. E quell’impressione è stata poi confermata da altri interventi scritti da Bertolucci in questi anni, sempre molto originali e spesso anche sorprendenti. Si trattava solo di raccoglierli e dividerli per grandi capitoli e il libro era fatto. La maggiore difficoltà è nata proprio da Bertolucci che scommetteva invece sul fatto che gli articoli pubblicabili erano pochi e comunque insufficienti per un libro. Io e il coautore, Fabio Francione, naturalmente eravamo di parere opposto e il libro credo dia ragione a noi. Anzi c’è il cruccio che molti articoli mancano, perché dispersi.

A proposito di “Prima della rivoluzione” (1964), B. scrive: “Fabrizio è l’impossibilità per un      borghese di essere marxista. Egli cristallizza ciò di cui avevo paura quando facevo il film: la mia propria impotenza ad essere marxista borghese”. Che ne pensi?

Di tutti i film di Bertolucci “Prima della rivoluzione” è apparentemente il più autobiografico ma è anche quello più “datato” proprio in senso anagrafico. C’è la presenza di Parma, la presenza dei padri “borghesi” e “marxisti”, l’amore cinefilo per Rossellini e Godard, i riti familiari, il Teatro Regio di Parma e il Festival dell’Unità nel parco. Ma a mio avviso Fabrizio e la sua incapacità di coniugare marxismo e borghesia non sono per nulla proiezioni autobiografiche di Bernardo (che infatti rappresenta Fabrizio in maniera piuttosto negativa), viceversa richiamano la vicenda umana dell’omonimo personaggio di Stendhal. Semmai vedo più autobiografia nel personaggio di Adriana Asti.

“Strategia del ragno” (1970) è, invece, un film sull’ambiguità della storia, sulla demistificazione delle figure eroiche dei padri borghesi antifascisti. Sei d’accordo?

“Strategia del ragno” mette in scena soprattutto il conflitto col padre e difatti racconta una sua seconda e definitiva uccisione. Bisogna andare oltre i miti della storia, trovare il coraggio di vedere e affrontare le ambiguità e le ombre, e solo a questo punto provare ad andare oltre, vivere il presente e magari lavorare per il futuro. “Strategia del ragno”, che ancora può essere considerato un film giovanile di Bertolucci, mette in mostra soprattutto una grande sapienza stilistica: con delle luci bellissime, soprattutto quelle notturne, con una grande varietà di registri espressivi, dove si passa dal melodramma verdiano al surrealismo, dalla commedia civile al dramma a tinte fosche.

Alla base di “Novecento” (1976) c’è l’ideologia di classe: c’è la dialettica fra la classe dei padroni e quella dei contadini. E lo scontro fra queste due classi…

Alla base di “Novecento” c’è soprattutto la possibilità, forse irripetibile, di elaborare un progetto vasto, ambizioso, praticamente smisurato. Reduce dal trionfale successo internazionale di “Ultimo tango a Parigi”, Bertolucci ottiene dalle Majors americane carta bianca per il suo film successivo, e lui la usa senza alcuna remora. Costruisce un cast stellare, dove convivono stelle di Hollywood, come Lancaster, De Niro e Sutherland, e attori giovani come Depardieu e la Sandrelli, grandi attori italiani come Romolo Valli e Laura Betti, e addirittura disperse dive del muto come Francesca Bertini. In più, chiede di poter girare il film in sessanta settimane, cioè un anno intero, per seguire l’avvicendarsi delle stagioni. E’ un esercizio di onnipotenza, che poi Bertolucci pagherà con una certa ostilità da parte di Hollywood, che fece uscire il film negli Usa in un’edizione ridotta. Ma è un’onnipotenza secondo me più che giustificata dalla volontà di raccontare, dal di dentro, settanta anni di storia italiana, dalla prima guerra mondiale, all’avvento del fascismo, alla resistenza e Liberazione e, alla fine, con un flash forward abbastanza sorprendente, anche la fase politica del post ‘68 e del compromesso storico. Tutto questo attraverso le vicende di due protagonisti, il contadino e il capitalista, che sono poi le due anime costitutive di un paese che, da questo punto di vista, non è mai stato capace di trovare un possibile punto di equilibrio. “Novecento” secondo me racconta la storia italiana e, ad un certo punto, ipotizza anche uno scatto in avanti. Voglio dire che mette in scena un’utopia. Gli è stato rimproverato, ma è la cosa che mi fa amare molto il film.

Sempre riguardo a “Novecento”, B. racconta che i contadini arrivavano sul set con delle macchine enormi, poi scendevano dalle auto e diventavano attori del film, ritrovando tranquillamente la continuità con le loro tradizioni culturali. E aggiunge: “Nessuno, neppure Pasolini che lanciava continue invettive contro il pericolo rappresentato dal consumismo, poteva immaginare la resistenza espressa dalla cultura contadina emiliana”. Chi aveva ragione?

Quelle cose Bertolucci le dice in un’intervista inedita, fatta durante le riprese di “Novecento” a cura di Claire People, che adesso viene pubblicata nel libro. Quindi sono cose del 1975, l’anno in cui moriva Pier Paolo Pasolini. All’epoca poteva sembrare ancora possibile un passaggio morbido dalla civiltà contadina a quella industriale, ma quest’ultima in Italia non è mai arrivata, o è arrivata in maniera insufficiente e comunque negativa. Quei contadini oggi fanno altro, magari lasciando il loro posto agli immigrati, i nuovi dannati della terra. Oggi a guardare la realtà sociale e politica del paese c’è solo devastazione e, per usare il termine pasoliniano, “genocidio”. Ancora una volta aveva ragione – e già nel 1975 – Pier Paolo Pasolini.

Ripensando a “L’ultimo imperatore (1987), B. cita Cocteau: “Alla storia preferisco la mitologia , perché la storia parte dalla verità e finisce nella menzogna, mentre la mitologia parte dalla menzogna e va verso la verità”. E’ così, secondo te?

Penso di sì, e quella frase di Cocteau può essere utilizzata come esergo di gran parte dei film realizzati da Bertolucci. Dal conflitto con i padri alla necessità di fare i conti con la storia, una buona parte della filmografia di Bertolucci racconta il percorso spesso drammatico che porta dall’inesperienza alla maturità, dalla menzogna alla verità, e viceversa. “L’ultimo imperatore” è davvero un grande film, forse quello che rappresenta meglio l’estetica cinematografica di Bertolucci: partire dal privato per rappresentare l’universale, affrontare con la stessa capacità e gli stessi esiti espressivi sia le dimensioni del kolossal sia la misura del quotidiano. Di più, a me sembra, ma questa è un’opinione assolutamente personale, che sia il film davvero autobiografico, nel modo con cui rappresenta l’onnipotenza, il trionfo e la sconfitta.

Molta bella è l’immagine, legata al film “Il tè nel deserto” (1990), dell’acquasantiera con la sabbia, perfetta metafora della fusione tra tradizioni culturali, storiche, sociali che per secoli sono state ostili…

Quello dell’acquasantiera è un episodio capitato durante le riprese di “Il tè nel deserto” e che Bertolucci racconta in un testo pubblicato nel libro, ed è la dimostrazione di come sia possibile mettere insieme e far convivere civiltà e credenze religiose molto diverse. E’ una constatazione che Bertolucci ha riproposto in varie occasioni, ad esempio in un suo documentario giovanile, “La via del petrolio”, dove viene documentato in maniera quasi fisica il legame che unisce l’Asia, l’Africa e il cuore dell’Europa. E’ un legame fatto di soldi, di sfruttamento, ma soprattutto di cultura e storia.

Di “Piccolo Budda” (1993), Bertolucci ha detto: “Tutti i miei film sono basati su conflitti violenti: uomo-donna in “Ultimo tango a Parigi” (1972), padri-figli in “Strategia del ragno”, contadini-padroni in “Novecento”. “Piccolo Budda”, viceversa, è totalmente al di là e al di sopra dei conflitti. Quindi, a suo modo, è trasgressivo”. E’ giusto?

E’ un film che risente dell’esperienza personale vissuta da Bertolucci con la scoperta del buddismo. Anche qui ci sono radici antiche. Già in “Prima della rivoluzione” c’è Adriana Asti che racconta l’apologo buddista del maestro e del discepolo. Un apologo che a Bernardo era stato raccontato da Elsa Morante. E’ vero, in apparenza, “Piccolo Budda” è un film pacificato, che racconta la possibilità di raggiungere nella vita una dimensione di armonia esistenziale e spirituale. Ma anche qui, se vogliamo, è possibile rinvenire il conflitto. Penso alla bellissima scena in cui Siddharta esce dal Palazzo reale dove è stato segregato dal padre che vuole proteggerlo dalle brutture e dal dolore del mondo. Quando Siddharta esce dal palazzo si accorge ben presto che quello che vede intorno è uno spettacolo tutto rose e fiori, ancora una volta organizzato in suo onore dal padre e allora, con un balzo, fugge via, e fatti pochi passi si trova di fronte alla vita vera, fatta di miseria, malattia, morte. E’ una fuga dolorosa, una lacerazione, che però occorre affrontare. Insomma anche questo film, che molti hanno visto un po’ “anomalo” rispetto agli altri, in realtà ha una sua coerenza.

Nel 2002, B. girando il cortometraggio “Ten Minutes Older” fa anche una sorta di omaggio a Pasolini. Facendo riferimento a “L’abiura dalla trilogia della vita” del 1975, commenta: “Non abiurare, Pier Paolo! Perché oggi quell’innocenza, come pure quei corpi e quella creaturalità, ormai scomparsi dal paesaggio umano, sono tornati con le migliaia di uomini e donne che quotidianamente giungono nel nostro paese dai luoghi più poveri del pianeta. Ora, forse, potresti ricominciare a lavorare con sincerità su una realtà ancora così genuinamente preindustriale”. Il significato ultimo di “Ten Minutes Older”, è un “ritorno” a Pasolini?

Su questo non so giudicare il pensiero di Bernardo. Direi che è certamente una speranza, addirittura un’invocazione. Molto spesso, di questi tempi, chi ha avuto la fortuna di conoscere Pier Paolo Pasolini si trova a domandarsi quali sarebbero le sue reazioni, le sue prese di posizione, i suoi interventi. Il fatto è che Pier Paolo Pasolini ci manca tanto, il suo vuoto è enorme e non è stato riempito.

A proposito di “The Dreamers – I sognatori” (2003), Bertolucci ha dichiarato: “ Sarei più che felice se i ragazzi che vedono il film scoprissero che c’erano anni, neanche tanto tempo fa, in cui ragazzi come loro andavano a dormire con la consapevolezza che si sarebbero svegliati non l’indomani, ma nel futuro, in un mondo diverso. Insomma, se era giusto ribellarsi allora, oggi lo è ancora di più”.

Certamente questa è la speranza. Ogni tanto, leggendo i giornali e soprattutto guardando certe manifestazioni, la speranza di un vento nuovo ritorna. Forse potrebbe già essere qui, chissà. Di certo questo vento nuovo dipenderà solo dai giovani. All’epoca di “The Dreamers” la rivolta del ’68 è cominciata dalla Cinématheque di Parigi, dove i cinéphiles frequentatori si rivoltarono contro il ministro della cultura del tempo, Malraux, che aveva deciso di cacciare il direttore Langlois. Di lì, dalla passione cinematografica, è cominciata la rivolta, e nei cortei  all’inizio si gridava il nome, appunto di Langlois, dopo vennero quelli di Marx e Marcuse. Oggi il cinema sembra aver perduto quella forza, e bisogna trovare altri punti di riferimento culturali. Forse ci sono, ci saranno. Lo speriamo.

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