Premiatissimo negli Stati Uniti – diversi quotidiani lo hanno nominato «libro dell’anno» – e ampiamente discusso in tutto il mondo, Terre di sangue. L’Europa nella morsa di Hitler e Stalin (Bloodlands. Europe between Hitler and Stalin) di Timothy Snyder è stato ora pubblicato anche in italiano.
Snyder, docente di storia dell’Europa orientale a Yale, intende delineare in questo saggio una storia degli omicidi di massa e degli stermini perpetrati dal regime nazista e da quello sovietico tra il 1933 e il 1945 nelle «terre di sangue» (bloodlands), una zona dell’Europa centro-orientale che comprende la Polonia centrale e orientale, gli stati baltici, la Bielorussia, l’Ucraina e la parte più occidentale della Russia con Leningrado. In queste terre, al confine tra l’impero nazista e quello sovietico, si concentravano moltissime risorse agricole e, soprattutto, viveva la maggior parte degli ebrei europei. Snyder non considera quella di bloodlands una categoria geopolitica, quanto piuttosto una «geografia umana delle vittime. Le terre di sangue non erano territori politici, reali o immaginati: sono semplicemente il luogo in cui i più criminali regimi d’Europa operarono nel modo più feroce» (p. 22).
Secondo i calcoli di Snyder, nel periodo 1933-45, nelle bloodlands circa 14 milioni di persone rimasero uccise (attraverso la fucilazione, l’inalazione di gas e, soprattutto, la riduzione alla fame) dalle deliberate politiche di Hitler e Stalin: il primo sarebbe stato responsabile di circa 10 milioni di questi morti. Si tratta di stime tuttavia imprecise perché molte persone, soprattutto durante la seconda guerra mondiale, furono vittime, «in un modo o nell’altro, di entrambi i sistemi» (p. 432).
Tra le vittime considerate da Snyder non vi sono soldati in servizio, ma solamente civili e prigionieri di guerra, uccisi a causa di una premeditata politica di sterminio: sono quindi esclusi quanti morirono di stenti nei campi di concentramento, durante le deportazioni e le evacuazioni, o in seguito ai bombardamenti e alle difficoltà dovute alla guerra (p. 463).
Il filo rosso della sintesi di Snyder è che gli stermini nazisti siano stati preceduti e siano andati di pari passo con gli omicidi di massa perpetrati dai sovietici e che gli episodi più brutali nacquero dall’interazione dei due regimi. Snyder presenta una panoramica di questi eventi senza perdere di vista i dettagli: le vittime sono infatti centrali nella sua prospettiva. L’intento è quello di restituirgli la loro individualità e la loro soggettività, riportando i «numeri» ad essere «persone», restituendo ad esse nomi e biografie personali: secondo lo storico americano, si tratta di un discorso di «umanità».
I primi tre capitoli si concentrano sulle carestie sovietiche e sul Grande terrore tra il 1932 e il 1938. All’inizio degli anni ’30, quando le politiche di collettivizzazione forzata dell’agricoltura cominciarono a far temere una carestia di massa, Stalin si rifiutò di garantire aiuti alimentari alla popolazione ucraina: circa 3,3 milioni di persone morirono di fame – o di malattie ad essa legate – nell’Ucraina sovietica tra il 1932 e il 1933. Secondo Snyder, la carestia dell’Ucraina fu un caso di «omicidio di massa chiaramente premeditato» (p. 70) da Stalin. Tra il 1937 e il 1938, durante il Grande terrore, nell’Urss si furono arrestate e spesso condannate a morte centinaia di migliaia di persone, accusate di aver sabotato e ostacolato le politiche di collettivizzazione: dei circa 700.000 morti di questo periodo, 300.000 cittadini sovietici (soprattutto polacchi e ucraini) furono uccisi nelle bloodlands.
Il quarto capitolo, concentrato sul periodo 1939-41, verte sull’occupazione della Polonia condotta sia dai tedeschi sia dai sovietici dopo il patto Molotov-Ribbentrop: è qui che Hitler attuò per la prima volta la sua politica di sterminio di massa. Snyder sottolinea le somiglianze nella forma e nella scala dell’attacco condotto da Hitler e Stalin nelle rispettive zone di occupazione: circa 200.000 polacchi furono fucilati.
I capitoli seguenti si concentrano sul periodo successivo all’attacco tedesco all’Urss. Secondo Snyder, tra il 1941 e il 1945, furono l’incontro e lo scontro tra i due regimi, e non le loro singole modalità di intervento, a determinare gli omicidi di massa: tra essi si instaurò una «complicità belligerante» in cui lo scarso interesse di entrambi per la vita umana rafforzava l’altrui distruttività. In questi anni, i tedeschi uccisero intenzionalmente circa 10 milioni di persone: tra esse, circa 4,2 milioni di cittadini sovietici (soprattutto russi, bielorussi e ucraini), tra prigionieri di guerra e abitanti delle città assediate, furono fatti morire di fame, circa 5,4 milioni di ebrei (soprattutto polacchi e sovietici) furono fucilati o gasati e 700.000 civili (soprattutto bielorussi e polacchi) furono uccisi nel corso di «rappresaglie».
Sull’Olocausto, Snyder afferma che esso fece il maggior numero di vittime nell’Europa orientale, e in particolare nella Polonia occupata dai nazisti. Nel momento in cui, nel 1943, entrarono in funzione le camere a gas, la maggior parte degli ebrei vittime della Shoah era infatti già morta: essi erano stati gasati nei campi di sterminio polacchi o, più spesso, fucilati dalle Einsatzgruppen e gettati nelle fosse comuni in Ucraina, Bielorussia e nei paesi baltici. Lo storico americano, inoltre, afferma che la decisione di attuare l’uccisione di tutti gli ebrei europei fu presa nel tardo autunno del 1941: resosi conto che l’obiettivo di distruggere l’Urss e di deportarvi tutti gli ebrei non sarebbe stato raggiunto perché non avrebbe potuto sconfiggere i sovietici, Hitler trasformò lo sterminio totale degli ebrei in strategia bellica (p. 253).
L’ultimo capitolo, che trascende la periodizzazione proposta, riguarda l’antisemitismo staliniano dopo il 1945, di cui furono vittime «non più di qualche dozzina di ebrei» (p. 417).
Prima di entrare nello merito del saggio, va fatta un’osservazione sulla traduzione italiana. Alcuni brani sono tradotti infatti in modo confuso e difficilmente comprensibile, altri in modo errato: ad esempio, nel terzo capitolo, si parla dell’America del Sud come di «una terra di discriminazioni razziali e di linciaggio dei neri» (p. 124), mentre nella versione inglese Snyder si riferisce agli «American southerners», ovvero degli abitanti del sud degli Usa. I problemi di traduzione sono numerosi: ad esempio, il termine «henchman» viene tradotto senza tener conto che l’espressione inglese «Hitler’s henchmen», resa celebre dal titolo inglese di un documentario di Guido Knopp (in italiano, Tutti gli uomini di Hitler), non contiene una connotazione peggiorativa. Alla luce di ciò, definire Goring, Himmler e Heydrick come «tirapiedi» (p. 205) o «scagnozzi» (p. 223) di Hitler mi sembra un po’ azzardato. Allo stesso modo, mi sembra forzata la traduzione del termine «malice», sostantivo che, oltre alla «cattiveria», può indicare l’intenzionalità e la premeditazione: ad esempio, a proposito della carestia in Ucraina, si traduce che Stalin «adottò una posizione di pura cattiveria» (p. 70), ma il saggio di Snyder mi sembra andare più nel senso della premeditazione.
Nonostante Snyder presenti il suo come un lavoro innovativo, la maggior parte dei fatti di cui parla sono già noti agli specialisti e, in parte, anche ad un pubblico più vasto, almeno europeo. Il saggio, infatti, non si basa sulle fonti primarie conservate nei diciassette archivi e istituti russi, ucraini, polacchi, britannici e statunitensi elencati dall’autore, quanto piuttosto sulla letteratura scientifica riportata nell’ampia bibliografia. In essa, sono tuttavia evidenti alcune assenze: non vengono citati, tra gli altri, Der europäische Bürgerkrieg 1917–1945. Nationalsozialismus und Bolschewismus (1986) di Ernst Nolte, Stalinism and Nazism: Dictatorships in Comparison (1997) curato da Ian Kershaw e Moshe Lewin, Stalinisme et nazisme. Histoire et mémoire comparées (1999) di Henry Rousso, La violenza nazista. Una genealogia (2002) e A ferro e fuoco. La guerra civile europea, 1914-1945 (2007) di Enzo Traverso, The Dictators: Hitler’s Germany and Stalin’s Russia (2004) di Richard J. Overy, Ordnung durch Terror (2006) di Jörg Baberowski e Anselm Doering-Manteuffel.
Il contributo originale di Snyder sta nell’aver trattato tutti gli episodi contenuti nel saggio come diverse sfaccettature dello stesso fenomeno: lo storico americano, infatti, pur senza comparare il sistema nazista e quello sovietico, ha cercato di dimostrare che essi compirono gli stessi tipi di reati, negli stessi anni e negli stessi luoghi e, soprattutto, che la loro interazione reciproca comportò un numero di morti superiore a quello che avrebbero potuto determinare singolarmente. Ad esempio, Snyder inserisce lo sterminio degli ebrei in una cornice storica e storiografica di omicidi di massa e afferma che l’Olocausto, di cui non nega il carattere straordinario, non sarebbe stato così estremo se non ci fosse stato Stalin. I campi di sterminio nazista sarebbero quindi il culmine di un periodo di omicidi di massa iniziato in Urss all’inizio degli anni ‘30.
Nonostante l’originalità del contributo scientifico di Snyder, le linee guida del suo saggio non sono del tutto convincenti. Lo stesso concetto di bloodlands mi sembra vago, se non artificiale. Nel campo sovietico, infatti, le carestie, il Grande terrore, l’antisemitismo postbellico furono fenomeni che caratterizzarono tutto il paese e non solo le «terre di sangue»: l’attenzione di Snyder su di esse minimizza il destino di milioni di russi, morti in seguito alle stesse politiche. Allo stesso modo, non solo gli abitanti dell’Europa orientale furono vittime di Hitler: nelle fasi finali della guerra, più di 2 milioni di francesi, italiani, belgi e olandesi lavoravano nel Reich. Riguardo poi allo sterminio degli ebrei, Hitler ne auspicava una portata continentale, se non globale: furono infatti uccisi anche centinaia di migliaia di ebrei tedeschi e dell’Europa occidentale.
La capacità di individuare l’intenzionalità degli omicidi, inoltre, sembra a volte scarsamente padroneggiata dallo stesso Snyder: stabilire quali azioni fossero deliberate e quali no, non è infatti un compito facile. Stupisce, tuttavia, che le vittime dei bombardamenti non siano incluse tra quelle uccise intenzionalmente.
Anche la scelta dei limiti cronologici – 1933-1945, periodo in cui furono al potere contemporaneamente Hitler e Stalin – lascia più di una perplessità: essa non tiene in considerazione, infatti, il lungo periodo. Fenomeni complessi e duraturi appaiono così limitati alle bloodlands del periodo considerato: penso, ad esempio, agli stupri di guerra, che sono un topos di ogni conflitto bellico e non una peculiarità delle «terre di sangue».
Dal punto di vista contenutistico, poi, Snyder sembra a tratti non padroneggiare perfettamente la storia dell’Unione sovietica e della Germania. Ad esempio, attribuendo al patto Molotov-Ribbentrop il ruolo di una delle principali cause della guerra e considerandolo come un trattato di alleanza, lo isola dal contesto storico e politico in cui fu firmato, caratterizzato dalla politica di appeasement verso la Germania condotta dai paesi occidentali e dalla fine dei negoziati tra questi ultimi e l’Urss per promuovere un’alleanza difensiva contro la Germania: certamente l’Urss aveva delle mire egemoniche sull’Europa orientale, ma mi sembra superficiale affermare, come fa Snyder, che i sovietici firmarono il patto Molotov-Ribbentrop perché «un’alleanza con la Gran Bretagna e la Francia sembrava offrire poco» (p. 148). La decisione di Hitler di procedere con lo sterminio degli ebrei dopo aver capito che non avrebbe vinto la guerra contro l’Urss, poi, viene presentata da Snyder in modo troppo netto e semplificato: il ricco dibattito storiografico sull’origine della «soluzione finale» – in gran parte ignorato nel saggio – rifugge dalle spiegazioni lineari e prive di contraddizioni, evitando di fissare una datazione precisa della decisione di sterminare tutti gli ebrei.
Dal punto di vista metodologico, l’uso che fa Snyder delle fonti lascia alcune perplessità: gli studi di altri ricercatori, le molte testimonianze delle vittime e i romanzi vengono messi sulle stesso piano delle (poche) fonti archivistiche e dei (pochi) documenti ufficiali, senza che vi sia un’effettiva critica delle fonti e che sia differenziato il loro valore.
Una maggiore attenzione in queste direzioni e l’approfondimento di alcuni passaggi avrebbe certamente reso più chiare e storicamente fondate le affermazioni dello storico americano. Suo comunque il merito di aver evidenziato una serie di elementi certamente suscettibili di ulteriori approfondimenti.