Recensione: Antonio Varsori, La Cenerentola d’Europa? L’Italia e l’integrazione europea dal 1947 ad oggi

Occuparsi della storia dell’Italia repubblicana nel contesto dell’integrazione europea, avverte Antonio Varsori nell’introduzione al volume, ha a lungo significato confrontarsi con una duplice, radicata, sottovalutazione. Il giudizio riduttivo sull’azione internazionale di un soggetto considerato “minore” rispetto ai grandi partner continentali e atlantici, tradizionalmente diffuso fra opinionisti e diplomatici, è stato infatti largamente presente anche nella storiografia internazionale, al punto di essere introiettato anche da parte di quella italiana. Due volte Cenerentola, l’Italia repubblicana nella sua dimensione internazionale è stata tuttavia, nell’ultimo quindicennio, al centro di un rinnovato interesse di ricerca, corrispondente ad una diffusa individuazione del “nesso nazionale-internazionale” come categoria decisiva per la comprensione delle vicende del paese (rimandiamo qui alla bibliografia citata dall’autore, pp. 18-23). Un posto di primo piano in questa stagione di studi lo ha occupato anche la “scelta europea”, nel giudizio di Varsori «la più significativa caratteristica della politica estera dell’Italia repubblicana» (p. 23).

Il volume del quale ci occupiamo è uno dei primi ad analizzare la questione nell’intero arco della storia repubblicana. Nonostante l’ampiezza del periodo trattato, non si tratta di un’opera di sintesi: l’utilizzo critico della produzione scientifica esistente si accompagna a quello di una pluralità di fonti archivistiche nazionali, estere e comunitarie, che anzi occupano la scena, in particolare nei capitoli dedicati agli anni Sessanta e Settanta.

Lo studio, d’altra parte, compendia e incrocia molti degli interessi che attraversano la più che trentennale produzione storiografica dell’autore, punto di riferimento per la storia dell’integrazione europea nel nostro paese. I piani della storia delle relazioni internazionali e della storia economica si intersecano nella ricostruzione con quelli della politica interna ed estera dell’Italia repubblicana, offrendo un quadro elaborato che dà conto delle influenze reciproche fra le varie prospettive. Il metodo consente una verifica della consistenza del ruolo italiano nella costruzione europea che supera i giudizi aprioristicamente liquidatori, e, più in generale, conferma circa l’assoluta rilevanza dell’oggetto di studio: un aspetto della realtà nazionale che «non si limita ai soli ambiti dell’azione diplomatica e della politica estera, essendo le conseguenze della scelta europea operata dall’Italia fattori significativi della dimensione economica, di quella sociale, nonché del dibattito politico interno» (p. 24).

L’intreccio dei diversi piani risulta evidente già nel momento della prima e decisiva scelta europea dell’Italia: l’adesione, alla fine degli anni Quaranta, ai progetti statunitensi per l’economia e la difesa delle nazioni dell’Europa occidentale. Nel contesto dell’emergente Guerra fredda, la scelta europea è parte indissolubile di quella occidentale: essa rafforza il legame fra il governo italiano e gli alleati d’oltreoceano, e fornisce al primo carte da giocare contro l’opposizione socialcomunista. L’inserimento nel sistema europeo-occidentale è visto poi dalla diplomazia come un’opportunità per il paese di superare «quella condizione di “minorità” che la sconfitta, l’occupazione militare e le politiche di alcune nazioni vincitrici avevano imposto» (p. 42), arrivando rapidamente a negoziare su di un piano di parità con gli alleati continentali.

Nel declinare questa opzione fondamentale, il gruppo dirigente centrista mostra una propensione per un europeismo di tonalità vagamente federalista, coerente con alcune delle tradizioni intellettuali delle forze politiche e insieme particolarmente spendibile sia nel rapporto con gli alleati che nella politica interna. L’europeismo fornisce una connotazione specifica all’impegno internazionale italiano, delineando per il paese una cornice ideale per la tutela del proprio ruolo. All’interno di una cooperazione continentale strettamente legata all’alleanza atlantica sembra possibile scongiurare i timori dell’Italia di essere confinata in un ruolo di secondo piano in un eventuale direttorio intergovernativo europeo, oppure costretta ad una marginalità “mediterranea” da un rapporto bilaterale con gli USA centrato sulla questione della difesa. Allo stesso tempo, l’europeismo dà slancio alla visione internazionale di cattolici e laici moderati, proponendo «un terreno di intesa che non si identificasse in una mera scelta americana e anticomunista» (p. 66). Va in questo senso, ad esempio, il tentativo di De Gasperi di collegare i progetti di integrazione militare alla nascita di una Comunità politica europea: sebbene destinato all’insuccesso, il progetto di ispirazione federalista è indicativo di uno sforzo per far procedere di pari passo integrazione e tutela degli interessi nazionali.

Al tema – individuato come costante – dell’adesione al progetto europeo legata alla conferma di un ruolo internazionale dell’Italia, si aggiunge presto, con l’avanzare di quell’integrazione economica di stampo funzionalista che avrà come primi esiti il Piano Schuman e l’istituzione della CECA, quello della modernizzazione economica del paese. La riconferma del dato politico del coinvolgimento italiano nei progetti europei fa da traino e contribuisce al superamento delle perplessità: accettata all’inizio degli anni Cinquanta la sfida della liberalizzazione degli scambi, anche l’integrazione del mercato carbosiderurgico sarà infine accolta come opportunità di investimenti e riqualificazione industriale.

Dopo l’impasse seguita allo scacco della Comunità europea di difesa, il modello funzionalista sarà nuovamente alla base del “rilancio dell’Europa” del 1955-1957, che condurrà alla firma dei Trattati di Roma e alla nascita della CEE. L’analisi del processo è per Varsori l’occasione di una revisione del consolidato giudizio secondo il quale l’Italia avrebbe giocato un ruolo trascurabile in un negoziato dominato da Francia e Germania Ovest. Al contrario, secondo l’autore, «l’Italia non fu semplice spettatrice nelle trattative; seppe […] individuare con esattezza alcuni importanti obiettivi che difese con abilità e che corrispondevano alla salvaguardia di precisi interessi della nazione, ottenendo risultati che, in una prospettiva di lungo periodo, avrebbero impresso […] significative caratteristiche alla costruzione europea» (p. 130). Oltre al consueto appello per l’integrazione politica, il riferimento va ad una serie di importanti questioni economiche: la delegazione italiana ha in mente un collegamento fra integrazione europea, sviluppo nazionale e superamento degli squilibri regionali del paese. Facendo paradossalmente leva sulla propria relativa debolezza economica, l’Italia ottiene nel negoziato risultati che configurano «l’embrione di una politica sociale europea» (p. 141), con l’abbozzo di una politica regionale della Comunità e l’impegno – inserito nei trattati di Roma – all’istituzione di un Fondo sociale e di una Banca europea degli investimenti.

Nel corso del decennio successivo, la connessione fra costruzione europea e sviluppo economico nazionale diventa sempre più evidente: negli anni del “miracolo” italiano, le esportazioni verso i paesi della CEE sono in crescita costante. La tutela di quanto acquisito costituisce così il primo obiettivo dei governi in una fase complessa, caratterizzata dal protagonismo della Francia di De Gaulle e dalle sue alterne strategie rispetto alla Comunità. I tentativi italiani di intervento e mediazione hanno risultati limitati (ad esempio rispetto alla “crisi della sedia vuota” del 1965), e non particolarmente efficace è la ricerca di una partnership con la Gran Bretagna al momento della sua prima richiesta di adesione alla CEE. Eredità di questo periodo è anche una Politica agricola comunitaria uscita dai complessi negoziati del 1961-1964 con caratteristiche poco vantaggiose per le produzioni italiane. Nonostante i risultati non sempre soddisfacenti, il paese è pienamente inserito nella rete di relazioni continentali, mentre il fronte europeista interno va allargandosi al Partito socialista (già in occasione del voto sui Trattati di Roma distaccatosi dall’opposizione del PCI, e chiamato ad un contributo diretto con la formazione dell’alleanza di centro sinistra).

È negli anni successivi che la capacità italiana di intervenire nella costruzione europea tende ad offuscarsi. Tradizionalmente visti come periodo di stasi dell’integrazione, gli anni Settanta sono nella lettura di Varsori una fase nella quale il processo cambia parzialmente di segno, adattandosi ad un contesto internazionale che muta negli aspetti economici, politici e culturali. Il club europeo allarga i propri ranghi, viene meno l’egemonia dei moderati, si allenta il collegamento con gli USA, lo sviluppo economico cede il passo ai primi segni di una crisi che coinvolgerà tutto il continente. Mentre avanza la distensione fra Est e Ovest, si affaccia con forza crescente la questione del rapporto fra Nord e Sud del mondo: nuove sfide, ma anche nuovi terreni di intervento per un raggruppamento continentale che aspira ad un ruolo più autonomo e incisivo nelle relazioni internazionali.

Per l’Italia il segno del periodo sembra piuttosto la turbolenza interna: all’aggravamento della situazione economica e al crescere delle rivendicazioni sociali corrispondono l’instabilità governativa e un’apparente crisi di direzione politica. L’autore individua nella decisione operata nel 1973 dal governo Andreotti di collocare la lira fuori dal neonato “serpente monetario” europeo, inaugurando una politica di svalutazioni competitive, uno dei momenti di svolta. La scelta appare ai partner europei simbolo di un paese inaffidabile, problema più che risorsa per la Comunità: l’Italia si avvia, per una fase non breve, a diventare «un oggetto più che […] un soggetto delle dinamiche europee» (p. 261).

A rendere pressanti le preoccupazioni degli osservatori internazionali è poi la crescita elettorale del PCI di Enrico Berlinguer, che alla metà del decennio sembra candidarsi credibilmente alla partecipazione al governo. Varsori dedica ampio spazio alla ricostruzione dell’elaborazione che conduce il partito a modificare il proprio giudizio negativo sull’integrazione europea, fino addirittura ad abbracciare parte delle tesi federaliste. Pur riconoscendo l’importanza di un percorso destinato ad avere sul lungo periodo un’influenza decisiva sulla cultura politica della sinistra italiana, le sue conclusioni insistono sulla distanza che persiste fra la visione comunista e quella dei governi della Comunità (un elemento certo non privo di rilevanza nel fallimento del progetto comunista di accesso al governo del paese). L’ideale europeo «continuava ad essere interpretato dalle leadership politiche dell’Europa dei nove come parte integrante di una scelta a favore di valori occidentali, mentre anche gli esponenti del PCI su posizioni più moderate la interpretavano come un’opportunità per il superamento della divisione del vecchio continente e per la nascita di un’Europa socialista, neutralista e tendenzialmente terzomondista» (p. 313).

L’ancoraggio europeo rappresenta per l’Italia una rete di sicurezza rispetto ai possibili esiti delle tensioni degli anni Settanta. È in termini di “scelta occidentale” che l’autore interpreta dunque la dibattuta adesione italiana al Sistema monetario europeo, alla fine del decennio: l’obiettivo del riallineamento agli alleati fa aggio sulle altre considerazioni e sulle esitazioni delle forze politiche e della stessa Banca d’Italia. Con l’adesione allo SME la classe dirigente italiana inaugura inoltre una tendenza all’utilizzo del “vincolo esterno” delle richieste europee come strumento per favorire l’accettazione di impopolari misure economiche di risanamento e austerità. Un elemento, quest’ultimo, destinato a fare ritorno un decennio più tardi, dopo una fase – quella del pentapartito – che vede il paese, relativamente stabilizzato, tornare ad occupare un ruolo più tradizionale. Nella crisi politica e sociale della fine della Prima repubblica, l’impegno all’adeguamento ai parametri economici fissati nel trattato di Maastricht mostra il vincolo europeo in forma particolarmente cogente: dispositivo che supplisce alle carenze di una classe politica che le inchieste giudiziarie stanno travolgendo e garantisce la permanenza dell’Italia nel gruppo di testa delle nazioni occidentali, ma assieme medicina assai amara per la cittadinanza, chiamata negli anni ad uno sforzo notevole per centrare gli standard della nuova Unione. La riflessione di Varsori si spinge infine oltre Maastricht – in territori inesplorati per la ricerca storica – per alcune considerazioni sulle speranze degli anni Novanta (al nuovo ordine internazionale e alle potenzialità dell’UE corrisponde una sorta di “entusiasmo” italiano, con l’adesione dell’opinione pubblica al progetto europeo come orizzonte di progresso per il paese e l’ampia diffusione degli ideali europeisti fra le forze politiche) e i più diffusi scetticismi del nuovo secolo.

Lo spettro dei temi analizzati nell’opera è ovviamente ben più ampio rispetto alla linea di lettura che abbiamo voluto proporre. Il lettore troverà ad esempio l’interessante valutazione dell’operato dei rappresentanti italiani nelle Comunità e nella Commissione, trattazioni approfondite del contributo italiano ai negoziati che hanno dato forma al progetto europeo, riflessioni sul dibattito fra le forze politiche e sindacali, sugli aspetti sociali e culturali dell’integrazione. La ricostruzione di Varsori si colloca nel complesso come punto di riferimento essenziale nel panorama degli studi dedicati al tema europeo. In particolare, appare significativo l’uso incrociato delle fonti realizzato su di un estensione temporale così ampia. Esso permette sia di misurare la ricezione all’estero delle iniziative italiane (la cui importanza è a volte facile esagerare, facendo riferimento alla sola documentazione nazionale, o, specularmente, liquidare sulla base di pregiudizi consolidati), sia di sopperire alle carenze nella disponibilità dei documenti diplomatici italiani, per i quali l’adeguamento ai modelli internazionali di declassificazione appare ancora un obiettivo distante.

Il metodo che è proprio della scienza storica – conoscenza dei fenomeni della società umana nella loro dimensione temporale – rappresenta poi un antidoto rispetto ad un modello di adesione agli ideali europei non infrequente nel dibattito pubblico italiano, caratterizzato in negativo da «unanimismo e […] mancanza di una vera discussione intorno agli aspetti concreti […] e alle motivazioni di fondo della scelta italiana» (p. 418). Europa, di per sé, vuol dire poco, e, come risulta chiaramente dall’opera, all’interno del contenitore “integrazione” sono entrati negli ultimi sessant’anni progetti di segno ben diverso. Lo stesso elemento principale di continuità politica – l’adesione alla costruzione europea come aspetto di una scelta atlantico-occidentale – è in trasformazione perlomeno da un ventennio, col venir meno dell’articolazione bipolare delle relazioni internazionali. Con la nuova Unione a 27 chiamata a prove inedite, la capacità di rielaborazione del legame internazionale e di collegamento fra gli interessi dello stato e della UE appare criterio di valutazione sempre più ineludibile per l’operato di una classe dirigente nazionale. In questo senso, non si pecca, ci pare, per eccesso di attualizzazione, individuando nel tema dell’utilizzo del “vincolo esterno” una delle piste di ricerca più stimolanti che l’opera di Varsori suggerisce. Non privo di rilevanza appare il fatto che nella sua prima manifestazione lo strumento sia gestito da un gruppo dirigente politico in corrispondenza di un passaggio di primaria importanza (l’uscita dalla maggioranza del PCI dopo il voto sullo SME, a sua volta progetto influenzato in maniera decisiva dall’iniziativa di due leader nazionali, Schmidt e Giscard), salvo poi passare (negli anni Novanta e in seguito) largamente nelle mani di una leadership tecnica alla quale è garantita – in sede nazionale ed europea – un’autonomia crescente. Merita poi di essere messa ulteriormente alla prova da studi specifici la tensione fra “modello europeo” e “caso italiano”: fuori dagli stereotipi, la vicenda nazionale appare sì nella sua peculiarità, ma tutt’altro che estranea alle tendenze di un quadro internazionale del resto assai meno uniforme di quanto non lo si voglia a volte dipingere.

Ultimo tema che vogliamo sottolineare è quello della diffusione (e poi del parziale arretramento) dell’europeismo nella società italiana (tema affrontato da Varsori nell’ambito di una ricostruzione che va ben al di là dell’aspetto prettamente storico-diplomatico, e meritevole di ulteriori approfondimenti). Qui sembrano giocare non solo la scelta occidentale e la politica comunitaria (come suggerisce l’autore, attiva ormai in una varietà di ambiti che va dall’uso dei fondi strutturali da parte degli enti locali alla politica per la mobilità studentesca), ma gli spostamenti (dall’emigrazione al turismo di massa), le rappresentazioni (giornalistiche, cinematografiche…), fino al confronto con gli Stati Uniti e ad elementi di politica interna (si pensi ad esempio all’evoluzione della prospettiva delle sinistre).

 

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    By: Michele Donato

    Michele Di Donato, dottorando di ricerca presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Roma Tre. Fra le pubblicazioni recenti, Partito comunista italiano e socialdemocrazia tedesca negli anni Settanta, “Mondo Contemporaneo” 3, 2010; Il rapporto con la socialdemocrazia tedesca nella politica internazionale del Pci di Luigi Longo, 1967-1969, “Dimensioni e Problemi della Ricerca Storica” 2, 2011.

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