Al capezzale del malato: l’Italia nei principali quotidiani francesi durante il sequestro Moro

Il sequestro di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse suscitò un’enorme impressione anche presso l’opinione pubblica internazionale e indusse i quotidiani a dedicare uno spazio notevole all’Italia, cui solitamente veniva invece offerta un’attenzione più occasionale e frammentaria. La stampa francese si distinse su questo punto. In più, durante i fatidici 55 giorni (e in quelli immediatamente successivi) sviluppò un atteggiamento ben preciso che, pur nelle differenze fra le testate, accomunava articoli, reportage e editoriali. Un atteggiamento che qui si è voluto sintetizzare nella formula “al capezzale del malato”. Per sostenere questa tesi si è quindi concentrata l’analisi sulle tre principali testate francesi degli anni Settanta: “Le Figaro”, “Le Monde” e “Liberation”.

Prima di entrare nel merito, può essere utile una breve disamina delle fonti usate, così da cogliere in modo più appropriato le origini e i motivi delle eventuali differenze di sfumatura o di impostazione. “Le Figaro” vanta la palma del più antico fra i quotidiani francesi ancora attivi, poiché fu fondato nella prima metà dell’Ottocento, sotto il regno di Carlo X. La sua vita iniziale fu difficile e intermittente, così come la linea editoriale faticò a venire definita in modo chiaro[1]. Fu solo con la Comune di Parigi che il giornale, opponendosi in modo frontale all’esperienza rivoluzionaria, cominciò a guadagnare l’attenzione di un pubblico aristocratico-borghese che da allora in poi ne orientò l’indirizzo politico verso posizioni di centro-destra. Nel corso del Novecento l’importanza e il prestigio del quotidiano aumentarono, anche grazie a illustri collaboratori, quali Marcel Proust, André Gide e François Mauriac, sicchè negli anni Settanta si era ormai affermato come il più importante giornale di riferimento della borghesia moderata e conservatrice[2]. Intanto crescevano l’importanza e le diffusione del concorrente, “Le Monde”. Fondato nel 1944, il nuovo quotidiano si segnalò subito per un profilo più critico verso il governo e l’establishment, assumendo poi una posizione fortemente critica contro la guerra in Algeria[3]. Divenne perciò rapidamente il giornale della borghesia progressista, confermando col tempo posizioni che si potrebbero definire di centro-sinistra[4]. Negli anni settanta era perciò ormai da tempo il diretto antagonista de “le Figaro”. Intanto lo spazio politico di una sinistra più radicale veniva occupato da un altro quotidiano, di creazione più recente e di impostazione decisamente innovativa: “Liberation”. Il profilo editoriale sta tutto nell’articolo di presentazione del primo numero, nel 1973: «Oggi la stampa quotidiana dà la parola al padronato, ai politici, ai potenti. Il quotidiano Liberation darà la parola al popolo. Capovolgerà il mondo della stampa giornaliera. Liberation sarà come un’imboscata nella giungla dell’informazione»[5]. Nato nello spirito del ’68, schierato apertamente a sinistra, il nuovo quotidiano rifiutava la pubblicità, per rivendicare la propria autonomia da ogni potere economico, e si distinse subito per articoli dallo stile irriverente e dissacrante, riuscendo a metà decennio a raggiungere un pubblico ampio e a diffondere circa trecentomila copie.

 

Prima fase:” l’Italia è malata?”

Superata la sorpresa iniziale dovuta alla notizia del sequestro di Moro e al massacro della scorta, nei giorni successivi i giornali francesi dedicarono moltissimo spazio alla vicenda, avventurandosi nell’impresa di spiegare ai lettori i motivi di quanto stava accadendo oltr’Alpe. E subito l’impresa si rivelò molto difficile. Un primo dato accomuna tutti e tre i quotidiani: per comodità analitica dividevano gli articoli dedicati a Moro da quelli dedicati alle Brigate Rosse. Inoltre, tutti e tre faticavano molto nel mettere a fuoco la situazione, pubblicando numerosi articoli che spesso si contraddicevano gli con gli altri.

Paradossalmente, Aldo Moro risultava un oggetto più problematico dei terroristi. Rispondere alla domanda «Chi è Moro?», si rilevò subito un compito molto difficile da svolgere. La parola che forse meglio delle altre sembrava definire il personaggio era “enigmatico”. Per un paese e un’opinione pubblica, come quelli francesi, ormai abituati a un sistema presidenziale di stampo bipolare, le alchimie della politica italiana risultavano quasi incomprensibili. Certo, anche la Francia aveva conosciuto con la Quarta Repubblica un sistema parlamentare con legge elettorale proporzionale, dove il parlamento era estremamente frammentato, i governi si facevano e disfacevano con estrema rapidità e le coalizioni tra i partiti avevano un profilo debole e opaco. Agli occhi dei commentatori francesi però, le difficoltà della Quarta Repubblica impallidivano di fronte alla cronica instabilità del sistema italiano, le cui formule di governo risultavano davvero difficili da spiegare ai lettori. Sicché, gli aggettivi su Moro si sprecavano e convergevano nella medesima direzione: «La Sfinge», il «Paganini dei giochi di parole», il «Conciliatore». Per tutti i quotidiani presi in esame, nonostante le differenze di impostazione, Moro era insomma un campione delle mediazioni e dei compromessi, i cui disegni apparivano spesso imperscrutabili persino ai suoi collaboratori.

Per «Le Figaro» Moro era «completamente immerso nei veleni dell’inestricabile storia politica italiana» e proprio per questo un «maestro della negoziazione, uno degli strateghi più rinomati, uno degli inventori più creativi di quelle formule parlamentari che di volta in volta salvano il regime»[6]. Solo così, per un giornale di destra diventava possibile spiegare l’azione verso quella che appariva come la più improbabile delle alleanze: l’accordo con i comunisti. Qui i toni si facevano accorati e allarmati insieme: l’Italia era un paese piegato dalla crisi economica e travolto dalla crisi sociale, mali estremi che richiedevano rimedi estremi e che solo un alchimista come Moro poteva condurre al successo[7]. Ma in fondo, in un paese come l’Italia, era la chiosa, anche l’alleanza coi comunisti non avrebbe provocato sconvolgimenti particolari, perché Moro – un vero «Gattopardo della politica» – non avrebbe fatto altro che «applicare il precetto di Giuseppe de Lampedusa: cambiare tutto per conservare tutto»[8]. Su una simile lunghezza d’onda si collocava anche “Le Monde” che, pur fornendo con i reportage di Solé informazioni più precise e circostanziate, con riferimenti storici definiti[9], indulgeva poi nel definire Moro «enigmatico» che «sembrava venire d’altrove e parlare un altro linguaggio»[10]. Ancora più incisivo infine “Liberation”, pronto però, a differenza degli altri, a mettere in evidenza anche le responsabilità del leader nelle crisi del paese e incline, nonostante stesse parlando di una vittima del terrorismo, a cedere alle lusinghe della battuta corrosiva: «La sola cosa chiara che c’è nella testa di Aldo Moro è una larga ciocca bianca che inizia direttamente dalla fronte sin dalla sua giovinezza»[11].

Più ampie le differenze nell’analisi delle Brigate Rosse. Mentre “le Monde” e “Liberation” mostravano molta cautela, “Le Figaro” rivelava al contrario una particolare attitudine a dare credito a tutte le voci che circolavano sull’organizzazione: dall’ipotesi che fossero in mano a strutture straniere fino alle illazioni più fantasiose sulla loro struttura organizzativa[12]. Per tutta la prima fase del sequestro, inoltre, il quotidiano conservatore affermava ripetutamente che lo scopo dei terroristi era di avviare una trattativa con lo Stato per lo scambio di prigionieri, quando è ormai noto che invece fino a metà aprile le Br non fecero mai riferimenti a scambi di questo tipo[13]. Al netto di questa differenza, la stampa francese comunque convergeva nell’analisi delle origini e delle cause del terrorismo nella penisola: le tensioni sociali – si argomentava – avevano offerto alle Br il terreno ideale per attecchire e crescere, anche perché l’emergenza non era il sottoprodotto contingente della crisi economica, bensì l’effetto delle contraddizioni strutturali che caratterizzavano l’economia e le società italiane[14].

Tutte le analisi risultavano così accomunate da un atteggiamento di fondo: un uomo politico così enigmatico come Moro e un’organizzazione terrorista così feroce come le Br – si concludeva – erano il frutto naturale di un paese afflitto da mali profondi, le cui origini antiche gettavano un’ombra anche sul futuro. L’Italia era insomma un paese “malato”, sul quale risultava naturale esprimere oscuri presagi.

 

Seconda fase: la malattia e la paura del “contagio”.

Emergeva così il terzo vertice del triangolo immaginario tra i protagonisti del caso Moro: oltre all’uomo politico e ai terroristi, il sistema politico-sociale italiano. L’allarme già mostrato sin dai primi giorni progressivamente aumentava, accompagnato da una crescente inquietudine. Un interrogativo percorreva come un filo rosso l’analisi dei quotidiani: i pericoli corsi dal sistema democratico italiano erano solo il sintomo di debolezze specifiche della penisola? Oppure erano il segnale della intima fragilità di ogni sistema democratico, compreso quello francese?

Pur ponendo la questione, “Le Figaro” poi tranquillizzava i suoi lettori: la Francia era ben diversa dall’Italia, che invece stava sprofondando nell’abisso a causa della sue peculiari contraddizioni: «un simile colpo – osservava Philippe Nourry – ha tutte le possibilità di essere il colpo di grazia per uno Stato umiliato»[15]. Ma in cosa consisteva il male dell’Italia? La risposta veniva offerta da Max Clos, che firmava un editoriale firmato Una nazione anestetizzata e addebitava la crisi a un atteggiamento di fondo del popolo italiano, poco determinato nei suoi fini, troppo dubbioso sugli obiettivi. «Non si deve comprendere il cancro, si tratta di combatterlo», era il presupposto dell’articolo, che continuava: «Non si devono comprendere i terroristi. Il problema è distruggerli»; in Italia invece accadeva il contrario: «se lo Stato si sgretola, è anche perché la nazione italiana ha abbassato le braccia. Inizialmente sconvolta, si è successivamente rassegnata. Parola orribile: abituarsi, rassegnarsi alla violenza. L’Italia si adatta alla situazione, come se non percepisse l’ombra della morte che già cala si di lei»[16]. Un vero peccato, perché l’Italia – riconosceva Nourry – era «un paese potente, altamente civilizzato, umanista», con una grande tradizione culturale, ma che si era rovinato con le sue stesse mani e che ora sembrava incapace di risollevarsi[17]. La prognosi era quindi negativa: «Non sarà domani – concludeva Robert Lacontre – che al di là delle Alpi la democrazia potrà regnare nell’ordine e nella calma»[18].

La ricerca delle faglie tipiche del sistema politico-sociale italiano, tali da spiegare l’esistenza di una forma di terrorismo tanto crudele ed efferato come quello delle Brigate Rosse, è un’operazione cui si dedicava anche “le Monde”, con una capacità d’analisi che si rivelava però più raffinata, nonché dalle conclusioni più preoccupanti per i lettori. Il tema veniva affrontato di petto da due delle firme più prestigiose del giornale: il politologo Maurice Duverger e l’editorialista Jaques Medaule. Entrambi proponevano un’ipotesi interpretativa cogliendo un nesso: i tre paesi che negli anni Settanta stavano affrontando problemi dovuti al terrorismo erano l’Italia, la Germania e il Giappone, ovvero paesi dove si erano sviluppati regimi di stampo totalitario negli anni Trenta. Da questo dato comune, l’analisi poi si allontanava: Duverger vedeva la causa del terrorismo nella debolezza dello Stato e del sentimento di nazione presenti in Italia[19]; Medaule avanzava invece un inquietante parallelo: «tutti i seguaci della violenza, riuscendo a tenere in scacco le migliori polizie del mondo, non sono paragonabili a dei virus?»[20]. E come tutti i virus, potevano attecchire in contesti favorevoli per poi riuscire a diffondersi. Ecco allora il punto cruciale: il virus della violenza in Italia rischiava di estendere il suo raggio d’azione anche ai paesi vicini, per cui nessuno era legittimato a sentirsi immune. La paura del contagio prendeva così forma in modo compiuto ed esplicito, e trovava conferma indiretta in un ulteriore reportage di Solè, pronto a ribadire che i mali della società italiana erano i mali tipici della società sviluppate moderne, che abbassano la guardia di fronte la rischio rappresentato dalle loro debolezze[21].

In conclusione, pur tra notevoli differenze, “Le Figaro” e “Le Monde” mostrano un atteggiamento comune: l’affannosa ricerca di un legame di interdipendenza tra le debolezze specifiche dell’Italia e la presenza del terrorismo nella penisola. La ragione è – come visto – presto detta e risiede in un interrogativo angoscioso: se tali legami non vi fossero, se non si potessero rintracciare dei meccanismi peculiari dell’Italia, allora il medesimo terrorismo potrebbe invadere anche la Francia. Insomma: la diagnosi sui mali dell’Italia è differente, le conclusioni parimenti divergono, l’atteggiamento però è simile. Come un medico al capezzale di un malato, “Le Monde e “Le Figaro” si chiedono quali saranno le sorti dell’Italia, si interrogano incerti sulle fragilità di tutti i sistemi democratici e si preoccupano che l’epidemia italiana si possa diffondere a organismi ancora sani.

In questo caso differisce invece notevolmente “Liberation”. Qui nessuno, tra giornalisti e commentatori, indossa il camice bianco del medico, né gli articoli appaiono ossessionati dalla ricerca dei “mali” dell’Italia. Anzi: “Liberation” si vantava di offrire un’informazione precisa e concisa, che non voleva lasciare eccessivo spazio a interpretazioni troppo avventurose, sicché non mostrava l’ansia di cercare collegamenti tra il terrorismo e le caratteristiche interne dell’Italia. Un atteggiamento costante che il quotidiano avrebbe conservato fino alla fine della vicenda.

 

Terza fase ed epilogo: il malato è davvero grave.

Intanto le vicende del sequestro continuavano a svilupparsi, con i giornali francesi che ne riportavano i tratti salienti. Dal comunicato n. 6 in cui si annunciava la condanna a morte di Moro, al falso comunicato n. 7 che ne indicava la sepoltura nel lago della Duchessa, fino alla richiesta di liberazione di prigionieri, il dramma cresceva di intensità e occupava uno spazio costante sulle colonne della stampa d’oltr’Alpe. I lettori francesi venivano anche informati sui dilemmi della stampa italiana relativamente alla opportunità di pubblicare i comunicati brigatisti. Nonché sulle polemiche dovute alla rottura della linea della “fermezza” computa da Craxi a fine aprile per cercare un contatto con le Br tramite il canale di Potere Operaio. Tutto veniva riportato fedelmente, in un clima di crescente e palpabile tensione. Fino al tragico epilogo.

Forse mai L’Italia ha occupato tanto spazio sui giornali francesi come il 10 maggio, giorno successivo al ritrovamento di Aldo Moro a Via Caetani. Le prime pagine erano interamente dedicate a questa notizia, con tutti gli altri argomenti relegati in margine o alle pagine interne. I titoli erano cubitali. I toni appassionati. Secco solo “Le Monde”: «Aldo Moro è stato assassinato»; ben più enfatico “Le Figaro”: «L’Italia in stato di choc»; immaginifico “Liberation”: «La logica della morte». Quindi, superata l’emozione della notizia, l’11 maggio riprendevano ancora più angosciosi gli interrogativi sul futuro. L’edizione de “Le Monde” era quasi interamente occupata dal caso Moro, con 20 pezzi: dall’articolo di apertura («L’Italia colpita dallo stupore») all’editoriale («Illegittima demenza») a un corsivo («Un culto perverso»), un ulteriore pezzo di taglio medio («Un sistema politico infermo»), fino a tutte le altre rubriche nelle pagine interne. Tanta abbondanza si traduceva in una notevole articolazione di giudizi e previsioni che, pur accomunati dal pessimismo, non suonavano definitivamente le campane e morto per la democrazia Italiana. Atteggiamento assimilabile a quello assunto anche da “Liberation”.

La cupezza dominava invece su “Le Figaro”. Qui il pessimismo sconfinava nel catastrofismo. Secondo i commentatori del giornale della destra le sorti della democrazia italiana apparivano ormai segnate e, salvo un colpo di reni, il futuro dell’Italia compromesso: «Mai le cose sono state così sinistre e così chiare: o la democrazia trova il coraggio fisico e morale di rigettare il cancro del terrorismo, oppure essa è condannata». Ma – ecco riemergere l’angoscioso interrogativo – l’imminente crollo italiano minacciava anche il resto d’Europa e la Francia? Forse no. La risposta stava tutta in una vignetta sulla prima pagina del 10 maggio: qui la penisola italiana, dominata dalla morte simboleggiata con una bandiera raffigurante un teschio, appariva ormai staccata dal resto d’Europa, fluttuante su acque nere. Un paese alla deriva, insomma, che però non costituiva più un pericolo perché, pur condannato, non trascinava con sé l’intero continente.

Era la sintesi di un atteggiamento di fondo, che periodicamente riemerge sulla stampa straniera. A questo punto sorge un interrogativo, che apre la strada a future ricerche e appare carico di interrogativi anche in merito all’attualità. Le opinioni pubbliche dell’Europa Nord Occidentale sono infatti più volte destinatarie di campagne di stampa di simile tenore, dove le analisi si mischiamo ai luoghi comuni, alimentando i più banali pregiudizi. Allora diventa forse lecito ipotizzare che anche in questo fenomeno risiedano le ricorrenti perplessità delle opinioni pubbliche di questa parte dell’Europa a unire i propri destini alla parte meridionale del continente, i cui “vizi” vengono più volte visti come una minaccia alle “virtù della stabilità e della prosperità degli altri popoli europei.

 

 

 

 


[1] Bertrand der Saint Vincent, Jean-Charles Chapuzet, Le roman du Figaro. 1826-2006, Plon-Figaro Paris 2006.

[2] Claire Blandin, Le Figaro. Deux Siécles d’histoire, Colin, Paris 2007.

[3] Patrick Eveno, Hisoire du journal “ Le Monde”, Michel, Paris 2004

[4] Jacques Tibau, “Le Monde”. Histoire d’un journal, Plon, Paris 1996.

[5] La parole au peuple, in “Liberation”, 18 aprile 9173.

[6] Paul-Marie De La Gorge, Aldo Moro, in “Le Figaro”, 18 marzo 1978 (corsivo mio).

[7] Corsivo non firmato e senza titolo, ivi, 19 marzo 1978

[8] Paul-Marie De La Gorge, Aldo Moro, cit.

[9] Robert Solé, Le meilleur symbole de la DC, in “Le Monde”, 10 maggio 1978

[10] Le personage cle de la vie politique italienne, ivi, 17 marzo 1978.

[11] Elio Comarin, Le saveur de la DC, in “Liberation 17 marzo 1978.

[12] Iré Jarry, Brigade Rouges. Cent attentats, in “Le Figaro”, 17 marzo 1978; L’organigramme des Brigades Rouges, ivi, 20 aprile 1978; Une nouvelle generation de terroristes, ivi, 20 marzo 1978

[13] A. Giovagnoli, Il caso Moro, Il Mulino, Bologna, 2005; M. Gotor, La possibilità dell’uso del discorso nel cuore del terrore: della scrittura come agonia, in Lettere dalla prigionia, Einaudi, Torino, 2008; cfr. invece Irène Jarry, L’objective des Brigades Rouges, in “Le Figaro”, 19 marzo 1978.

[14] P.J. Franceschini, Les maitres du jeu?, in “Le Monde”, 22 marzo 1978; Robert Solé, Brigades Rouges, ivi, 128 marzo 1978: Fabrizio Calvi, Les brigadistes: “viser l’état au coeur”, in “Liberation”, 17 marzo 1978; Id, Le terroristes sans qualité, ivi, 19 aprile 1978

[15] Philippe Nourry, L’état humilié, in “Le Figaro”, 13 aprile 1978.

[16] Max Clos, Une nation anesthesitiée, ivi, 19 aprile 1978

[17] Philippe Nourry, Les meneurs du jeu, ivi, 8 maggio 1978.

[18] Robert Lacontre, Une democratie incapable de se défendre?, ivi, 8 maggio 1978.

[19] Maurice Duverger, Un pays sans état, in “Le Monde”, 28 aprile 1978

[20] Jacques Medaule, Le virus, ivi, 28 aprile 1978

[21] Robert Solè, Le radeau dans la tempete, ivi, 29 aprile 1978.

  • author's avatar

    By: Paolo Mattera

    Paolo Mattera insegna Storia Contemporanea presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università Roma Tre. Tra le sue recenti pubblicazioni, “Non essere geloso se con gli altri ballo il Twist”. Divertimento e trasgressione nelle canzoni degli anni sessanta, in P. Cavallo, P. Iaccio (a cura di), Penso che un sogno così non ritorni mai più. L’Italia del Miracolo tra storia, cinema, musica e televisione, Liguori, Napoli, 2016; Welfare e Policy making in Italia tra Anni Ottanta e Novanta. Una proposta di analisi e interpretazione, in “Ventunesimo secolo”, n. 39, Dicembre 2016; Changes and Turning Points in Welfare History. A case study: A Comparison of France and Italy in the Forties, in “Journal of Modern Italian Studies”, marzo 2017.

  • author's avatar

  • author's avatar

    Questioni di metodo: gli audiovisivi come agenti e come fonti? Un caso di studio: la musica popolare negli anni Sessanta

    See all this author’s posts

Print Friendly, PDF & Email