Fotografia e Storia

«Se una foto mi piace, se mi turba, io v’indugio sopra. Che cosa faccio per tutto il tempo che me ne sto davanti a lei? La guardo, la scruto, come se volessi saperne di più sulla cosa o sulla persona che essa ritrae […] Se i miei sforzi sono dolorosi, se sono angosciato, è perché talora sono vicino al nocciolo, è perché ci sono: nella tale foto, io credo di scorgere i lineamenti della verità»

R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia

 

 

Come osserva Giovanni De Luna nella prefazione ai tre volumi Einaudi Le fotografie e la storia, le immagini fotografiche sono state quasi sempre utilizzate dagli storici per “illustrare” una narrazione basata invece sull’unicità del documento scritto[1]. Solo di recente, una nuova tendenza di studi[2] ha riconosciuto alla fotografia altre due funzioni. Innanzitutto quella di essere fonte storica, ovvero una testimonianza diretta di un evento, per dirla con Peter Burke. In secondo luogo quella di ricoprire il ruolo di vero e proprio agente di storia: una foto è capace infatti di suscitare, in chi la vede, reazioni di ogni tipo (sociale, morale o politico) e riesce in alcuni casi a orientare i comportamenti collettivi[3]. Non serve qui ricordare l’impatto che hanno avuto nel corso del Novecento alcune fotografie che ritraevano ad esempio gli orrori della guerra: come afferma Adolfo Mignemi, però, molto spesso l’immagine fotografica diventa simbolo di un evento a seguito di un processo di distorsione e di manipolazione del senso originario di uno scatto e dell’utilizzo che se ne vuole fare in un determinato contesto storico e culturale[4]. Ecco che allora l’interesse di uno studioso si sposta, oltre che sull’uso “pubblico” e sui suoi effetti, anche sull’indagine della produzione che sta alla base delle foto, ovvero su tutto ciò che ruota attorno alla figura dell’autore, al contesto in cui sono state scattate e allo scopo che il fotografo si era prefisso originariamente. Sempre Peter Burke, ricordando quanto Edmund Carr diceva ai suoi lettori in Sei lezione sulla storia, ovvero di studiare lo “storico” prima dei fatti, sostiene che anche chi si accinge a studiare un’immagine dovrebbe quindi prima soffermarsi sulle intenzioni dei suoi creatori[5].

 

In linea con quanto detto finora, questo numero di Officina della Storia intende dunque porre al centro dei suoi contributi la fotografia vista principalmente come fonte per la conoscenza storica. Grazie all’immediatezza e alla duttilità del mezzo informatico, sarà l’immagine fotografica ad essere protagonista e il testo scritto servirà di supporto: la foto sarà anche analizzata attraverso l’ausilio di strumenti multimediali, come la video-intervista o la possibilità di collegamenti ad archivi fotografici on-line. Diversi sono gli approcci che sono stati utilizzati nei vari articoli: come scrive Gabriele D’Autilia, infatti,

 

partire dalla fonte significa accettare epistemologicamente la radicale ambiguità della fotografia, e iniziare da questa certezza per intraprendere un percorso circolare che tenga conto di tutti gli approcci metodologici sperimentati anche da altre discipline: individuare la fonte, capirne il linguaggio (approccio semiologico), leggerne l’intenzionalità del produttore e i condizionamenti culturali che l’hanno prodotta (la tradizione iconografica), studiare la storia della sua ricezione, della sua trasmissione (il rapporto con i testi), della sua conservazione, e poi tornare alla fonte e leggerla con lo sguardo dello storico. Bisogna poi distinguere tra fotografia pubblica e fotografia privata […][6]

 

Il filo conduttore del numero rimane dunque la riflessione di tipo metodologico sull’utilizzo della fonte fotografica nello studio di determinati eventi e questioni della storia del Novecento. Di conseguenza, gli argomenti trattati dai vari saggi sono differenti tra loro e non seguono per forza un ordine cronologico.

 

La prima parte di articoli che proponiamo toccano il tema dell’uso pubblico della foto in ambito politico. Nel suo contributo, Maurizio Ridolfi si sofferma sulla comparsa per la prima volta, alle elezioni italiane del 1913, del ritratto fotografico dei candidati sulle schede elettorali: a fianco di altri simboli, la foto diventa anch’essa uno strumento della propaganda dei partiti in occasione di votazioni che coinvolgono un numero sempre più ampio di cittadini. La fotografia rappresenta in questo caso una delle maggiori novità nel nuovo meccanismo di comunicazione politica destinata alle masse, grazie alla sua riproducibilità e alla sua capacità di trasmettere un messaggio immediato: qualità che erano già emerse nel corso del secolo precedente e che irrompono sulla scena del Novecento[7]. Sempre il rapporto tra fotografia e politica è al centro del saggio di Sante Cruciani e Maria Paola Del Rossi: qui però l’immagine fotografica è utilizzata come mezzo per ripercorrere la storia della CGIL attraverso l’analisi della sua strategia comunicativa e autorappresentativa. «Al di là della personalizzazione della politica» – citando le parole degli autori – l’articolo tiene conto anche della tecnica con cui sono state scattate alcune singole foto e coglie l’importanza dei particolari che circondano la figura centrale del segretario nelle immagini proposte, per osservare la differente interpretazione che ogni leader ha dato del suo ruolo e del rapporto del sindacato con gli iscritti.

 

Sebbene sempre sul legame tra politica e fotografia, il saggio di Christian Uva figura all’interno di una sezione specifica a parte, dedicata agli anni ’70 in Italia e alla lotta armata. L’autore ci pone davanti a un gruppo di foto scattate dalle BR – tra le quali quelle del rapimento di Moro -, ovvero un corpus di immagini “dotato di senso”[8] sul quale sviluppare un’analisi della strategia politica e ideologica di questa formazione terroristica. Inserita all’interno di un “album di famiglia” di drammatici e scioccanti scatti, anche la celebre foto di Moro sembra quindi trasmettere un nuovo significato, allontanandosi dal suo essere un’immagine simbolo degli anni di piombo. Come osserva infatti Giovanni De Luna a proposito di fotografie rappresentative di alcuni periodi storici (nel caso specifico, lo scatto che ritrae una bambina vietnamita nuda in fuga da un villaggio bombardato dal napalm), queste immagini tendono spesso «a decontestualizzare l’evento che documentano, rendendolo unico, irripetibile, senza tempo, azzerando la capacità dello storico di spiegarlo»[9].

A questo proposito, quali “agenti di storia”, alcune foto prese durante le manifestazioni in piazza negli anni ’60 e ’70 sono state capaci di influenzare le memorie di intere generazioni: va in tale direzione la scelta di recensire recenti pubblicazioni che riprendono immagini celebri e evocative di anni come il ’68 e il ’77, provando a ricostruirne il contesto in cui furono realizzate.

 

Se in questo primo gruppo di contributi rimane preponderante il ruolo della foto nella sua funzione pubblica, quale mezzo e strumento per una comunicazione diretta fondamentalmente all’esterno – la lotta politica (armata e non) -, i due articoli dedicati alla rappresentazione dell’immagine della donna nel fascismo riconducono invece alla questione della fonte fotografica nel rapporto tra uso pubblico e sfera privata. Afferma sempre De Luna a tal proposito:

 

Quanto più [le foto] sono pubbliche, ufficiali, visibili, destinate alla comunicazione, tanto più la loro intenzionalità è esplicita, dichiarata al punto tale da costituire essa stessa […] un’informazione a sé stante racchiusa nel documento fotografico; viceversa, più si caratterizza in un ambito familiare, comunitario, quotidiano, più cresce la loro capacità di documentare oggettivamente feste, tradizioni, abitudini, sistemi di relazioni sociali e interpersonali che appartengono alla rappresentazione e all’autorappresentazione della gente comune.[10]

 

Anna Maria Ruggiero ci mostra come le immagini che compaiono sulle riviste italiane di moda femminile negli anni ’20 e ’30, sebbene influenzate dall’orientamento culturale del regime, rimangano comunque utili fonti per riflettere su come le donne cominciano loro stesse a pensarsi, attraverso la lettura di queste pagine, nella società in cui vivono. Sfera pubblica e privata sono invece centrali nel contributo di Monica Di Barbora sull’immagine della donna in Africa Orientale Italiana. L’autrice ci induce a ragionare su un aspetto per certi versi sorprendente: contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, infatti, l’immagine per così dire pubblica che emerge dalle foto presenti sulla stampa nazionale, frutto quindi di una selezione da parte degli editori, corrisponde a quella che ricaviamo dalle foto raccolte in privato e destinate a rimanere nell’ambito familiare o amicale.

 

Il pezzo di Caterina Giannottu forma una sezione a sé stante perché elaborato con un approccio d’indagine multidisciplinare e non esclusivamente di tipo storico: lo sguardo etno-antropologico con il quale vengono analizzate le foto dell’Istituto Luce riguardanti la Befana fascista fa emergere nei singoli scatti quegli elementi legati al persistere di fenomeni culturali e rituali di lunga durata. Questo aspetto viene messo così in relazione con il tentativo, più o meno riuscito, del fascismo di appropriarsi di una festa dai caratteri antichi.

 

La sezione dedicata al tema della Shoah punta invece l’attenzione su un aspetto specifico della fonte fotografica: ovvero il rapporto tra il potere “simbolico” di fotografie che ritraggono (e evocano) un evento come lo sterminio degli ebrei e il processo di produzione alla base di queste stesse immagini, spesso sconosciuto. Ne è la dimostrazione la celebre foto del bambino del ghetto di Varsavia, simbolo dell’orrore della Shoah, alla quale dedica un recente studio il francese Frederic Rousseau, mettendo in rilievo i passaggi che hanno portato alla manipolazione della foto originaria scattata da un militare nazista (manipolazione non solo del senso originario dello scatto, ma anche tecnica, dal momento che è un particolare tagliato da una foto più grande). Del resto, come osserva Mignemi, «[la manipolazione] è un preciso intervento su tutti gli elementi costitutivi del documento, volto a costruirne uno sostanzialmente nuovo e diverso da quello prodotto dall’evento fotografico iniziale»[11].

L’importanza dunque della produzione originaria e dell’autorialità è approfondita da Damiano Garofalo, che riflette su un corpus di foto a colori (tra le prime nella Seconda guerra mondiale), anch’esso “dotato di senso” perché scattate nel ghetto di Lodz con lo scopo di documentare l’attività lavorativa che si svolgeva al suo interno. L’obiettivo del fotografo, l’austriaco Walter Genewein, responsabile amministrativo del ghetto, è dunque preciso: ritrarre il “lavoro”. La fotografia quindi ci conduce visivamente verso un aspetto della logica nazista che non è per forza legato allo sterminio o alla violenza di Auschwitz: e le immagini ce lo dimostrano anche da un punto di vista tecnico, dal momento che negli scatti sono spesso e volentieri messi a fuoco gli strumenti del lavorare e le persone in quanto operai, fabbri o artigiani, e non ebrei[12].

 

Quello del divario tra intenzione dell’autore della foto e senso che questa andrà ad avere al momento della sua pubblicazione è un aspetto trasversale a molti dei contributi presenti in questo numero. Su questo tema in particolare ragionano l’intervento di Maurizio De Bonis e l’intervista a Massimo Berrruti, attraverso i quali viene approfondito il rapporto che intercorre tra fotoreporter, “committenza” (la stampa, periodica e non) e opinione pubblica. In tale ambito, oltre all’intenzionalità dell’autore della foto, grande importanza viene ricoperta soprattutto dal testo che accompagna l’immagine: la didascalia, il contenuto del reportage o il titolo giornalistico sotto il quale la fotografia è inserita portano il lettore a identificare il contesto in cui è stata scattata. Come osserva Susan Sontag, però, «le intenzioni del fotografo non determinano il significato della fotografia, che avrà vita propria, sostenuta dalle fantasie e dalle convinzioni delle varie comunità che se ne serviranno»[13].

 

Infine, la fonte fotografica e gli archivi: questi rappresentano preziosi strumenti di conservazione di materiale per la ricerca storica. Si è scelto in questa sede di presentare alcuni archivi che custodiscono raccolte fotografiche in grado di assolvere non soltanto a questo ruolo, ma anche di trasmettere la memoria di un’identità politica, locale o nazionale. Gabrierle Licciardi illustra il corpus di foto presenti nell’Archivio Luccini di Padova e riguardanti la sezione locale del Partito Comunista: sono immagini di vicende che accadono in provincia ma che sono strettamente legate alle dinamiche della storia nazionale di quel partito di massa nell’Italia repubblicana. La video-intervista ad Agnese Moro presenta invece il prezioso materiale fotografico custodito dal “Centro di documentazione Archivio Flamigni”: nelle parole della figlia di una delle figure principali della Democrazia Cristiana si intrecciano così sfera pubblica e privata. Riservando una particolare attenzione agli aspetti più tecnici che ruotano attorno alle scelte di conservazione e archiviazione, Gilda Nicolai si sofferma invece sull’opportunità di creare un archivio fotografico che conservi e documenti la storia dell’università della Tuscia a Viterbo: gli scatti testimoniano le varie fasi della vita di questo istituto, la cui nascita, tra l’altro, ha contribuito a recuperare edifici storici di quella città (come il complesso di Santa Maria in Gradi, dove fu incarcerato Altiero Spinelli durante gli anni del fascismo). Infine, nella presentazione delle immagini fotografiche dell’archivio del Quirinale utilizzate in occasione di una recente mostra sui presidenti della Repubblica italiana, Manuela Cacioli e Laura Curti ricostruiscono il processo di costruzione di un’identità nazionale attraverso le foto che ritraggono questi capi di Stato nei momenti più significativi della storia del nostro paese[14]. Del resto, «sempre più spesso ricordare non significa richiamare alla mente una storia, bensì essere in grado di evocare un’immagine»[15].

 

 

 


[1] G. De Luna, Prefazione all’opera, in Storia del Novecento. Le fotografie e la storia, a cura di Giovanni De Luna, Gabriele D’Autilia e Luca Criscenti, vol. I Il potere da Giolitti a Mussolini (1900-1945), Einaudi, Torino 2005, p. XXXV. A questo proposito si vedano le riflessioni presenti nell’introduzione al fascicolo Fotografie e Violenza. Visioni della brutalità dalla Grande Guerra a oggi, a cura di Ilsem About, Joëlle Beurier e Luigi Tomassini, in “Memoria e Ricerca”, n. 20, sett-dic. 2005 e il numero a cura di L. Bertrand-Dorléac, C. Delage, A. Guthert, Image et Histoire. in “Vingtième siècle. Revue d’histoire”, n. 72, ottobre-dicembre 2001.

[2] G. D’Autilia, L’indizio e la prova: la storia nella fotografia, La Nuova Italia, Firenze Scandicci 2001; P. Burke, Testimoni oculari: il significato storico delle immagini, Carocci, Roma 2002; A. Mignemi, Lo sguardo e l’immagine. La fotografia come documento storico, Bollati Boringhieri, Torino 2003;

[3] G. De Luna, Prefazione all’opera cit., p. XXXVI

[4] A. Mignemi Lo sguardo e l’immagine cit., pp. 88-104

[5] P. Burke, Testimoni oculari cit., p. 21.

[6] D’Autilia, L’indizio e la prova cit., p. 160

[7] Si veda ad esempio G. Fiorentino, L’Ottocento fatto immagine, Sellerio, Palermo 2007.

[8] «Prima di lanciarsi nel suo studio, deve riflettere sulle sue fonti e costituirle in un corpus dotato di senso, e solamente allora, può abbandonare alla parte più profonda di sé la parte di affetti che esse non possono mancare di risvegliare», Introduzione, in Fotografie e Violenza cit., pp. 9-13.

[9] G. De Luna, La passione e la ragione, B. Mondadori, Milano 2004, p. 236.

[10] Ivi, p. 188.

[11] A. Mignemi, Lo sguardo e l’immagine cit., p. 98.

[12] L’articolo si inserisce quindi all’interno di un dibattito sul tema del rapporto tra fotografia e Shoah che si è aperto alcuni anni fa anche a seguito di una mostra esposta a Parigi sulle foto dei campi di concentramento nazisti; a tal proposito si vedano ad esempio proprio il volume sulla mostra in questione Memoire des camps, photographies des camps de concentration et d’extermination nazis, 1939-1999, a cura di C. Chéroux, Marval, Parigi 2001 (pubblicato in Italia da Contrasto); e inoltre I. About, Distruzione dell’individuo e massificazione dei corpi nel campo di Mauthausen: uno studio degli archivi fotografici delle SS, in Fotografie e Violenza cit., pp. 75-92.

[13] S. Sontag, Davanti al dolore degli altri, Mondadori, Milano 2003, p. 40.

[14] Giuseppe Mammarella, Paolo Caccace, Il Quirinale. Storia politica e istituzionale da De Nicola a Napolitano, Laterza, Roma-Bari 2011

[15] G. De Luna, La passione e la ragione cit., p. 199.

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