Il testo qui riprodotto è la trascrizione parziale di un intervento che Maurizio G. De Bonis ha effettuato durante la seconda edizione de Le Giornate di studio sulla fotografia documentaria e il fotogiornalismo, manifestazione tenutasi a Roma (Officine Fotografiche) tra il 18 e il 20 aprile 2012 e curata da Punto di Svista (www.puntodisvista.net).
Il tono discorsivo del presente elaborato rispecchia la natura seminariale dell’intervento in questione.
È possibile raccontare in modo oggettivo e lucido un conflitto bellico?
I massmedia, negli ultimi anni, sono stati inondati da immagini relative ad accadimenti che si sono succeduti in modo convulso nel corso del tempo; e in particolare le televisioni hanno spesso narrato la (presunta) realtà attraverso un’impostazione non proprio cristallina. Non sono estranei a questo problema, ovviamente, l’informazione cartacea e internet. E infatti, proprio la diffusione di immagini tramite il web ha giocato un ruolo fondamentale per quanto riguarda il caos mediatico generato da un eccesso di informazione superficiale.
Le guerre sono entrate e uscite dai nostri sguardi in continuazione come se si trovassero in una sorta di frullatore impazzito pieno di impulsi di carattere ideologico-politico. E nel momento in cui si costruisce, in relazione a un conflitto, un discorso di tipo politico, l’immagine finisce per divenire il prodotto di questa impostazione. Siamo, dunque, nel campo dell’informazione distorta.
Iniziamo, così, la nostra analisi prendendo in esame un fatto epocale: l’uccisione di Bin Laden, il capo di Al Qaeda. Proprio questo evento comunicativo (e non usiamo questa formula per caso) è entrato in maniera prepotente all’interno del baraccone mediatico, edificando un flusso comunicativo senza alcuna sostanza, senza nessun legame provato con lo reale svolgimento dell’azione che ha portato alla fine violenta di questo soggetto. Le immagini divulgate, infatti, non hanno dimostrato nulla ma hanno comunicato moltissimo inducendo chi guardava a credere ciecamente al loro contenuto (non provato).
Uno degli equivoci relativi al fotogiornalismo contemporaneo è quell’idea secondo la quale l’atto di vedere qualcosa equivalga a sapere qualcosa. Se non si comprende come questa formula sia il territorio all’interno del quale i potentati editoriali riescono a indirizzare il senso critico delle persone, non riusciremo ad apprezzare il valore di una disciplina come il fotogiornalismo, la quale continua ad avere una sua importante funzione.
Altra questione, di metodo. Non è possibile comprendere la realtà di una situazione conflittuale se il fotogiornalista opera con la logica “del microscopio”, cioè concentrandosi su un solo elemento ed escludendo il tutto che gli è intorno. Bisogna invece allontanarsi, allargare la percezione e comprendere come il fotogiornalismo e la fotografia documentaria non siano discipline distaccate da quello che è l’articolato sistema della comunicazione audiovisiva moderna.
Il problema della rappresentazione visuale della guerra poi è molto complesso. Da una parte l’interpretazione dell’immagine a sfondo ideologico-politico; dall’altra (ed è il rovescio della medaglia della questione) l’attenzione spasmodica nei confronti delle figure professionali che producono fotogiornalismo. Il sistema della fotografia e quello dell’editoria hanno concentrato l’attenzione non sul prodotto dell’autore (perché i fotogiornalisti sono autori) ma su altro, cioè sulla creazione di uno star-system dell’immagine totalmente fine a se stesso e funzionale ai problemi di mercato degli organi di informazione.
La guerra è un elemento con cui conviviamo dal punto di vista mediatico ormai da decenni. Come possiamo, dunque, riuscire a comprendere cosa significhi raccontare un conflitto bellico attraverso l’uso dell’immagine fotografica?
Costruirsi un’idea su un accadimento prendendo in considerazione un solo punto di vista (cioé una singola fotografia) non può produrre significati oggettivi legati alla realtà dei fatti, perché vedere non significa sapere. Fruire un’immagine di un evento bellico non vuol dire possedere gli strumenti adatti per interpretare in maniera assoluta il senso di quella tragedia. Ed è questo l’inganno che il mondo dell’editoria, e un certo sistema del fotogiornalismo, esercita nei riguardi di chi le fotografie, semplicemente, le guarda.
Gli organi di informazione sembrano voler affermare: “L’immagine che proponiamo di un fatto e la verità di questo fatto corrispondono perfettamente”. Ciò non è vero. Questo meccanismo di sovrapposizione dell’immagine “una” alla verità “una” non è corretto (e neanche possibile).
Per attivare il meccanismo della consapevolezza della diversità dei punti di vista e della fragilità del concetto di verità cercheremo di innestare il fotogiornalismo nel territorio più ampio della fotografia contemporanea e delle arti visive.
Dovremmo a questo punto, però, prendere in esame quei conflitti che possono stimolare in noi l’avvio di questo meccanismo. L’Afghanistan? L’Iraq? La Libia? Molti potrebbero essere i territori da esplorare.
La nostra scelta ricadrà su quella che potremmo definire “la madre di tutti conflitti”. Ci riferiamo all’infinita guerra che vede contrapposti Israele e il mondo arabo dal 1948.
Da più di sessanta anni le vicende che si verificano in quella zona del Medio Oriente hanno una costante presenza all’interno dei massmedia, soprattutto attraverso un bombardamento di immagini a cui viene dato sempre un significato univoco.
Noi cercheremo attraverso la presa di coscienza dell’esistenza di molti punti di vista (e per molti punti di vista non intendiamo punti di vista di carattere politico-ideologico) di comprendere come, e se, sia possibile raccontare visivamente una guerra.
Immagini del conflitto arabo-israeliano sui giornali, su internet, diffuse attraverso telefonini, collocate dentro i servizi dei telegiornali, dentro i film documentaristici e di finzione. Si tratta di un turbine di comunicazione che trova il suo vertice più discutibile proprio nel fotogiornalismo.
Nessun paese come Israele ha mai riflettuto (nel modo in cui riflette Israele e così a lungo) sulla propria condizione di paese in guerra. L’unico caso che possiamo portare ad esempio è quello della guerra del Vietnam, che per un determinato numero di anni ha invaso il cinema americano.
Ecco, dunque, la produzione di capolavori della cinematografia moderna come Apocalypse Now di Francis Ford Coppola o Il Cacciatore di Michael Cimino. Due lungometraggi che certamente hanno raccontato un conflitto ma che in realtà hanno evocato qualcos’altro, mettendo in atto una critica nei confronti di un sistema di vita, di un’intera società.
Dunque, gli USA e il Vietnam. Un caso eclatante. Ma ancor più eclatante è il caso di Israele. Un paese piccolissimo, di sette milioni di abitanti, che da decenni è dentro un conflitto. Ed è allo stesso tempo artefice e vittima di questa situazione.
In maniera ossessiva, attraverso i suoi artisti, i suoi cineasti e i suoi fotogiornalisti, Israele lavora sulla propria condizione. Ed anche sulla condizione e sull’esistenza dei popoli con i quali è in guerra. E tutto ciò può essere rintracciato non solo nelle arti visive ma nella letteratura.
E perché scrittori, cineasti, fotografi e artisti israeliani hanno così riflettuto su questo argomento? Per un semplice motivo. Perché proprio nei periodi di crisi, un paese produce più cultura (anche visiva). Poiché è l’unico modo che può consentire la sopravvivenza dal punto di vista psicologico di un popolo in costante pericolo. Si produce cultura lì dove l’angoscia determina una sorta di attaccamento alla sopravvivenza che non fa che stimolare l’analisi delle proprie responsabilità e l’analisi del contesto in cui queste responsabilità si sono concretizzate.
Concentriamoci, ora, sul cinema.
Negli ultimi anni si è verificata una sorta di esplosione della cinematografia israeliana legata ai temi che stiamo trattando. Nel 2009 arrivò alla Mostra del Cinema di Venezia un film di un autore totalmente sconosciuto. Un’opera prima catapultata senza rete nel meccanismo festivaliero. L’intuizione del direttore artistico Marco Mueller fu quella di prendere questo lungometraggio, di non collocarlo in una sezione collaterale e di inserirlo, coraggiosamente, nel concorso ufficiale. Il film si intitolava Lebanon, per la regia di Samuel Maoz, un piccolo capolavoro, che si affermò vincendo inaspettatamente e meritatamente il Leone d’oro.
Locandina di “Lebanon” di S.Maoz
Quest’opera (di cui parleremo dopo) ci fa comprendere cosa significhi per una paese riflettere su se stesso, sulle proprie azioni, sulla propria condizione.
Nel 2009, inoltre, un altro film ebbe un notevole successo al Festival di Cannes. Era una prova registica linguisticamente significativa per quel che riguarda il rapporto tra i segni della realtà e l’immagine. Stiamo parlando del lavoro di Ari Folman intitolato Valzer con Bashir.
Locandina di “Valzer con Bashir” di A.Folman
Ari Folman, con la sua opera, ci ha fornito alcune indicazioni fondamentali.
In primo luogo, bisogna notare che diversi artisti, fotografi e cineasti che in Israele si sono occupati della raffigurazione dei conflitti bellici, hanno fatto la guerra in prima persona, cioè hanno vissuto sulla propria pelle la paura della morte, l’orrore della violenza e del sangue. Questo è un elemento fondamentale perché toglie di mezzo tutta quella chincaglieria di stampo narcisistico che spesso è al centro delle attività di fotografi e cineasti, i quali prendono posizione senza conoscere profondamente le condizioni geopolitiche che hanno portato a una situazione di tensione tra due popoli.
Ciò pone gli artisti, i fotografi e i cineasti israeliani in una condizione di consapevolezza. Possono, infatti, raccontare questa esperienza in modo diretto e senza il pericolo della spettacolarizzazione. Ari Folman è stato un soldato; è stato militare proprio nella situazione narrata nell’opera presentata a Cannes: il massacro di Sabra e Shatila, uno degli accadimenti più atroci che si sia mai verificato nella storia del secondo Novecento.
Altra questione: Valzer con Bashir è un film d’animazione e Ari Folman non è un regista che lavora solo con l’animazione. Ha sentito però il bisogno di compiere questa operazione estetico-linguistica per avere la possibilità di guardare dall’esterno quello che era il suo percorso psicoanalitico in relazione al dolore provocato dalla guerra e dalla morte. Ha prima realizzato delle sequenze girate in maniera classica, con persone in carne e ossa. Tutti i personaggi che si vedono in Valzer con Bashir sono individui realmente esistenti, che hanno vissuto la sua stessa esperienza. Poi, però, Folman ha sentito il bisogno di allontanarsi (anche a livello stilistico) e, dunque, sull’immagine del soggetto umano ha sovrapposto l’elemento linguistico/formale del disegno. Una forma di distacco espressivo, questa, utile per mettere a fuoco con razionalità il tema che stava affrontando.
Altro elemento che emerge da Valzer con Bashir è la questione dell’angoscia. Ciò che noi percepiamo tramite gli organi di informazione, attraverso corrispondenze e servizi fotografici, non è l’angoscia del dolore ma la spettacolarizzazione dell’atto bellico, la rappresentazione estetizzante della morte; il tutto collocato in un contesto comunicativo-ideologico. Folman, invece, cerca di ragionare sul tema del disagio individuale e collettivo e su come questo disagio abbia distrutto la vita delle persone, addirittura di intere generazioni.
Nella sequenza iniziale, il regista ricostruisce un incontro che realmente ebbe con un suo amico, il quale faceva un sogno ricorrente. In questo incubo alcuni cani correvano nella notte di Tel Aviv fino a casa sua per ricordargli ciò che aveva fatto durante la guerra del Libano del 1982. È un passaggio decisamente tragico, denso di implicazioni psicologiche e umane. Il film, in sostanza, inizia proprio con una presa di coscienza delle responsabilità individuali e collettive.
Dobbiamo a tal proposito pensare che in quella zona del Medio Oriente, già in tenera età, sia da parte araba (dei palestinesi) che da parte israeliana, giovani ancora in fase di formazione sono costretti a convivere dentro questo meccanismo. Dunque, diverse generazioni di due popoli, per non parlare poi di tutto quello che significa il conflitto arabo-israeliano con gli altri Stati, sono costretti a vivere dentro l’angoscia dello scontro permanente. È proprio questo è il dramma che gli organi di informazione, la fotografia e il cinema dovrebbero affrontare in modo più razionale.
Ma passiamo al settore fotografico con Micha Bar-Am [http://www.michabaram.com/]. Questo fotografo potrebbe essere considerato il padre della fotografia israeliana. È un uomo barbuto (ha più di 80 anni) che vive in una città limitrofa a Tel Aviv (Ramat Gan), e che ha dato alla fotografia mondiale molti spunti interessanti.
Micha Bar-Am è dal 1968 membro dell’agenzia Magnum (la più importante a livello fotogiornalistico) ed ha contribuito con il suo lavoro anche al consolidamento di questa grande agenzia. Ma non solo. Micha Bar-Am è stato co-fondatore dell’International Center of Photography di New York insieme a Cornell Capa. Negli Stati Uniti è noto proprio per il tipo di lavoro che ha effettuato sul concetto di conflitto e sulla propria condizione di fotografo dentro il conflitto (anche a livello umano e psicologico). Per ventisei anni è stato corrispondente del New York Times da Israele, e ha documentato tutte le guerre arabo-israeliane.
Micha Bar-Am lavorava con lo sguardo del fotografo che conosceva perfettamente cosa significasse vivere la guerra da dentro. E stare dentro un conflitto vuol dire percepirlo nella sua dimensione delirante.
Prendiamo in esame un’opera nella quale si può notare un punto di vista estremamente interessante (si evince dal tipo di inquadratura). Micha Bar-Am si trova in una zona in cui l’esercito e l’aviazione egiziana bombardano insieme soldati israeliani e prigionieri egiziani. Si tratta di un’immagine che fa emergere la dimensione assurda della battaglia. Un’ora prima gli stessi soggetti inquadrati si sparavano, cercavano di uccidersi a vicenda, mentre un’ora dopo condividevano lo stesso pericolo. Gli egiziani, infatti, bombardavano anche i loro commilitoni. Eventi, questi, che nella guerra succedono in continuazione (anche se ciò non si racconta spesso). Bar-Am fotografa da dentro questo passaggio per descrivere quale sia la reale condizione dell’essere umano all’interno di una battaglia. Il senso delle azioni soggettive perde completamente la sua direzione e individui nemici si ritrovano a condividere la paura della morte, insieme.
In un’altra opera Bar-Am ci mostra alcuni prigionieri palestinesi guardati a vista da soldati israeliani. Cosa ci vuole raccontare con questa immagine? Il cortocircuito degli sguardi nel momento in cui qualcuno prende il potere sugli altri. I prigionieri sono privati della loro capacità di guardare (sono incappucciati), mentre coloro che li hanno catturati li guardano, li controllano. Si tratta di un’opera che più di molte altre evidenzia il grado zero del livello di comunicazione umana all’interno di uno scontro bellico.
Ma Micha Bar-Am non si ferma qui e ci fa vedere altri fattori spesso censurati dai mass- media perché antispettacolari. Parliamo, ad esempio, di uno scatto in cui si vedono soldati israeliani durante la pausa di un combattimento. Ebbene, si pensa sempre che una battaglia si esaurisca esclusivamente nell’atto di attaccare il nemico, di compiere l’azione. Invece ben sappiamo, proprio dai “fotografi israeliani-soldati” che hanno lavorato dentro i conflitti, che la stragrande maggioranza delle battaglie si articola attraverso le attese, cioè attraverso il nulla. E sappiamo che proprio nei momenti in cui l’attesa prende il sopravvento per molte ore sull’azione concreta che il soldato ragiona sull’essenza della propria esistenza.
In un’altra opera Micha Bar-Am si confronta con la questione del corpo del prigioniero. L’autore ci mostra un soldato catturato costretto da lacci, privato della libertà, trasformato in una sorta di oggetto che testimonia la sopraffazione dell’uomo sull’uomo.
Questa inquadratura fa emergere l’essenza della guerra, che possiamo così riassumere: conflitto = sopraffazione = assenza di comunicazione = assenza di pensiero.
Da Micha Bar-Am, che è il padre dei fotografi israeliani, passerei a un altro autore: Miki Kratsman.
Kratsman nasce esclusivamente come fotogiornalista; si occupa della raffigurazione dei conflitti, ma avverte a un certo punto il bisogno di diversificare la propria azione fotografica per raccontare la guerra nella sua dimensione sociologica, in quella psicologica e in quella umana [http://www.chelouchegallery.com/artistWorks.php?id=49].
In una sua celebre opera vediamo due individui, probabilmente palestinesi, che stanno combattendo all’interno dei territori occupati (Cisgiordania). Un soggetto prende la mira e spara da una parte, un altro corre (non si capisce in quale direzione). Anche in questo caso il linguaggio della fotografia viene utilizzato in maniera intelligente. Ci viene descritto attraverso l’opposizione delle direzioni il delirio labirintico della battaglia.
In un altro scatto vediamo dei soldati israeliani che hanno catturato un presunto terrorista. I militari stringono i capelli del nemico con le mani. Un gesto violento, di sopraffazione, di applicazione dura di un potere di tipo fisico. Però, come ci ha insegnato Pasolini, spesso questi gesti vanno al di là del loro senso superficiale, che pure hanno. L’atto raffigurato da Kratsman possiede quasi dei tratti di intimità. Quindi il senso di questa operazione finisce per perdere quasi di significato all’interno del contesto nel quale è messa in atto. Non può che venire in mente, a tal proposito, la sequenza finale di Lebanonin cui un soldato israeliano prende in mano il pene di un prigioniero siriano per aiutarlo a urinare. Dentro queste intuizioni di Kratsman e Maoz c’è tutto e il contrario di tutto. C’è la violenza e la sopraffazione, c’è la privazione della libertà, ma c’è anche qualcosa che avvicina fisicamente i nemici, mettendoli paradossalmente nella stessa tragica condizione.
Veniamo a un’altra questione. Come si può percepire il delirio e il cortocircuito dei rapporti umani provocato dalla guerra? Attraverso i confini, le separazioni, le barriere. Un continuo posizionare limiti, un costante tentativo di separazione (disperato peraltro); perché il popolo israeliano e quello palestinese non potranno mai essere totalmente separati. La conformazione geografica dell’area, infatti, non lo permette se non mettendo in atto degli interventi fortissimi che incidono sul territorio. Ecco, dunque, che Miki Kratsman si sofferma su enormi blocchi di cemento che però lasciano una sorta di spazio al proprio centro, cioè una simbolica possibilità di comunicazione che evidentemente, nonostante quello che ci viene detto, non è mai morta.
Riflettiamo su un’altra opera in cui è visibile il muro che è stato eretto su una linea geografica molto lunga per separare il territorio israeliano dalla Cisgiordania. Il tutto per evitare il passaggio di palestinesi che effettuano degli attentati in territorio israeliano. Non è tanto l’immagine del muro in sé a essere significativa ma ciò che evoca attraverso una parola scritta su di esso: ghetto. Un termine tragico per la storia europea, la parola della morte, della devastazione, dell’uccisione di sei milioni di ebrei, di innumerevoli minoranze e comunità distrutte dalla furia nazista. Questa parola, in una sorta di cortocircuito storico/linguistico, ricompare in un’area del mondo in cui non dovrebbe avere alcun senso. È come se una sorta di un virus della Storia si ripresentasse, in modo inappropriato e paradossale.
Torniamo al cinema. Abbiamo cià citato Lebanon di Samuel Maoz, opera interamente ambientata dentro un carro armato.
Questo angusto spazio è un microcosmo collocato all’interno del conflitto del Libano 1982.
In Libano, le fazioni palestinesi, quelle musulmane e quelle dei cristiano-maroniti si scontrano. Israele decide di arrivare fino a Beirut nel tentativo di catturare il direttivo dell’OLP (che li risiede).
Ebbene, tutta la vicenda è vissuta attraverso lo sguardo di un soldato israeliano che si trova all’interno di un carro armato e che guarda la realtà solo grazie al mirino del proprio strumento ottico.
Quello che succede è che il suo sguardo, apparentemente puntato nei confronti del mondo circostante, spesso non si trova nelle condizioni di comprendere il senso della realtà stessa. Dentro questo carro armato ci sono ovviamente diversi soldati, tutti divorati dalla sofferenza e inseriti in una dinamica psicologica devastante che impedisce loro di comprendere il senso delle loro azioni.
Riprendiamo il discorso relativo alla fotografia con Simcha Shirman, autore che ci interessa per due motivi fondamentali. Primo perché si tratta di un artista israeliano che utilizza la fotografia per esprimere la propria interiorità; secondo perché è stato (esattamente come, Ari Folman e Samuel Maoz) un soldato. Ma nel caso specifico l’azione di Shirman è ancora più significativa perché concerne la fase della cosiddetta “riserva”, richiamo militare che in Israele riguarda una volta volta l’anno tutti i soggetti maschi fino al compimento del quarantaseiesimo anno di età. Professionisti, commercianti, impiegati devono lasciare le loro attività per “servire il Paese”. Shirman ha avuto dunque svariate occasioni per vivere l’insensatezza dei conflitti. E la sua decisione è stata quella di sfruttare questa possibilità per narrare la dimensione del pericolo proprio dal punto di vista di un soldato (che però è anche un artista).
Frequente nella fotografia di Shirman è la sua particolare ossessione per degli elementi che nel territorio israeliano sono diffusi. Ci riferiamo a lunghi pali conficcati nel terreno alla cui sommità sono posti dei megafoni (sono visibili, ad esempio, anche nella rutilante Tel Aviv). Tali “oggetti” (di arredo urbano) servono ad annunciare eventuali attacchi da parte di aviazioni nemiche e ricordano ai civili la presenza costante del pericolo e della minaccia.
Ma passiamo a un autoritratto. Shirman si ritrova in un campo di battaglia con un’arma; si fotografa con lo strumento che usa per esercitare la sua azione di soldato. Ma c’è qualcosa nell’immagine di straniante, di assurdo, che comunica la condizione anomala e alienata del soggetto umano.
In un’altra opera è possibile vedere la realtà assolutamente scissa e delirante del militare collocato in territorio nemico dentro una situazione di pericolo: un pattugliamento. Durante questa operazione l’autore si imbatte in un meraviglioso sito archeologico. In questo contesto, Shirman scatta un autoritratto per far emergere la sua “dimensione schizofrenica” di soldato e di uomo. È allo stesso tempo intento in un’attività militare, ma è anche un artista attratto da ogni tipo di forma espressiva e artistica; sceglie così di farsi riprendere come fosse un turista. Straniamento, contraddizione, scissione del pensiero. In questa opera si avverte un lavoro profondo sulla tragedia dell’essere umano costretto a “interpretare” il ruolo del militare mentre vorrebbe vivere semplicemente la propria “banale” umanità.
In un’altra opera realizzata nel 1982, Shirman pattuglia una zona del Libano. Improvvisamente sente un rumore e coglie con lo sguardo la fragile figura di una bambina vestita di bianco che, accorgendosi (è una bambina libanese) dell’arrivo dei soldati israeliani, si gira e fugge. Questa è un’immagine emblematica perché mostra con precisione la mancanza di comunicazione dentro la guerra. La bambina ha tutte le ragioni per essere spaventata e per scappare, perché si trova di fronte al nemico, a un individuo che potrebbe farle del male. Tra questi due esseri umani si crea un cortocircuito di senso perché Shirman, pur essendo un militare in zona di guerra, non avrebbe mai fatto del male a questa bambina. È una fuga improvvisa, veloce, tesa alla salvezza. E in questo dialogo impossibile tra lo sguardo di Simcha Shirman e quello della bambina si può rintracciare la profondità di quest’opera [http://www.cultframe.com/2005/06/fotografia-israeliana-contemporanea-un-libro-a-cura-di-orith-youdovich/].
Il brano filmico con il quale vorremmo concludere questo nostro percorso sulle modalità di autorappresentazione visuale di Israele nell’ambito delle guerre che dal 1948 lo vede contrapposto al mondo arabo-palestinese è tratto da uno dei capolavori del maggior cineasta israeliano attualmente in attività: Amos Gitai.
Locandina “Kippur” di Amos Gitai
Con Kippur questa autore ha realizzato una delle sue massime opere proprio perché è basata sulla sua esperienza personale di soldato all’interno della guerra.
La guerra del Kippur (1973) è stata una tragedia per moltissimi giovani egiziani, siriani e israeliani. Gitai, già per altro in attività cinematografica all’epoca, si ritrovò in un’unità militare destinata al soccorso dei soldati feriti sul campo di battaglia sulle alture del Golan. La squadra era composta da sette/otto persone che dovevano volare su un elicottero e atterrare proprio dove si svolgeva la battaglia, lì dove c’era un ferito da portare via.
Questa esperienza ha segnato per sempre la vita di Gitai, anche perché proprio durante una di queste azioni il suo elicottero fu colpito da un missile siriano. Gitai fu ferito e passò un lungo periodo in ospedale.
Il regista ha rivissuto tutta questa sua tragica vicenda attraverso un’impostazione estremamente complessa anche dal punto di vista figurativo. Gitai è un cineasta che conosce perfettamente le implicazioni filosofiche dell’immagine cinematografica. Il suo approccio formale, inoltre, è legato anche alla sua frequentazione dell’Architettura (intesa come disciplina creativa). Quindi è un artista capace di comunicare indifferentemente attraverso elementi visuali e fattori contenutistici. Nel caso specifico vogliamo parlare della sequenza in cui una squadra di soccorso avio-trasportata tenta un’operazione di salvataggio di un ferito. Abbiamo parlato di mancanza di senso, abbiamo parlato di cortocircuito degli sguardi e di insensatezza delle azioni. Giunti sul posto i militari/soccorritori rimangono letteralmente impantanati nel fango riuscendo con enorme fatica (e dopo lungo tempo, anche a livello cinematografico) a trarre in salvo il soldato che dovevano prelevare.
Sequenza emblematica e metaforica, quest’ultima, che porta lo spettatore in una dimensione che nulla ha a che fare con la mera documentazione della guerra.
Gitai elabora un “caso” da lui vissuto direttamente e con uno stile diretto e paradossalmente realistico racconta la condizione di un intero popolo (quello israeliano) che non riesce da decenni a liberarsi dall’insidioso pantano dello scontro militare.
Ciò non può che determinare sofferenza e disagio collettivo per generazioni e generazioni ed proprio per questo motivo che fotografi e cineasti israeliani riescono con lucidità a narrare l’orrore del sangue e della morte, la sofferenza provocata dal “conflitto permanente” tra due popoli che senza dubbio (nelle loro componenti civili) vorrebbero la pace.