Le destre tra sovranità nazionale, localismi e sfida europea

Introduzione al Panel

 

L’impatto del processo d’integrazione europea in una realtà nazionale ha trovato negli ultimi anni nuovi spunti e filoni di ricerca promettenti. L’approfondimento raggiunto dal processo d’integrazione fa in modo che un caso nazionale non possa essere studiato e compreso adeguatamente se non si tiene in conto la prospettiva europea. La dicotomia politica interna-politica estera è superata dalla presenza di una terza area della politica che è, nel contempo, interna ed estera. Il legame tra storia contemporanea e European studies va quindi rafforzato e sviluppato. Un approccio interdisciplinare aperto alla politologia e alla sociologia, non può che partire, infatti, da un solido dialogo tra le diverse esperienze della ricerca storica.

Due campi in cui questi spunti hanno trovato risposte particolarmente interessanti sono le politiche europee e la trasformazione dei sistemi partitici. Nel primo caso per l’impatto diretto della “legislazione europea” nei vari stati membri (è allora importante capire com’è nata una politica, come si è sviluppata, quali sono i diversi interessi nazionali che si sono incontrati/scontrati nelle arene europee, quali le difficoltà attuative e le resistenze nazionali, quali i protagonisti, ecc.). Nel secondo caso perché il confronto nei gruppi parlamentari a Strasburgo e in alcuni casi nelle federazioni transnazionali dei partiti europei favoriscono in modo unico il dialogo e la compenetrazione tra culture ed esperienze politiche diverse generando nuove culture politiche (come i Greens) o modificando quelle più tradizionale (come quella liberale, popolare e socialista) e riflettendosi nelle strategie di governo nazionale o infra-nazionale. Il processo d’integrazione è poi diventato un passaggio ineludibile nell’elaborazione politica di ciascuna forza politica che ambisca al governo del paese e dei principali livelli di governo locali.

1. Questo intervento ha come obiettivo principale di ripercorrere l’impatto avuto dal processo d’integrazione europea sulle culture politiche e sui partiti della destra italiana con particolare riferimento al periodo successivo al 1989. Per contestualizzare al meglio il caso italiano sono necessarie due premesse: 1) la difficoltà della destra a pensarsi oltre i confini nazionali. A differenza delle culture politiche di sinistra, che avevano sviluppato una consolidata visione sull’integrazione europea e nascevano con una spiccata propensione all’internazionalismo, non era altrettanto chiaro quale fosse l’approccio della destra. La pluralità di esperienze, obiettivi, culture che caratterizzano il rapporto tra i partiti di destra e l’integrazione europea fa sì infatti che sia più opportuno parlare di destre che di destra. È vero che una contaminazione c’è sempre stata – si pensi all’esperienza della Thatcher; tuttavia, ciò non è bastato a dare a quella cultura politica una dimensione europea, con un’anima comune che si traduce in modi diversi nei vari stati membri. Sempre che non si voglia far coincidere la destra europea con il PPE, sulla base del mero antagonismo con il PSE a Strasburgo. Definire la cultura democratico-cristiana come una cultura di “destra” sembra più che azzardato. Fino alla fine degli anni ’80, infatti, il PPE era la casa comune dei democratici-cristiani della CEE, i quali avevano certamente vedute diverse sugli sviluppi dell’integrazione, ma anche cruciali convergenze: tra queste, una convinta vocazione federale, il sostegno alle politiche comunitarie tese ad accorciare le distanze socio-economiche tra i membri e, con la politica di coesione, all’interno di ciascuno di essi: tratti della cultura cristiana – come il concetto di sussidiarietà – assai poco riconducibili alle destre europee.

Il mosaico dei partiti che nel 1979 ambivano a entrare a Strasburgo per rappresentare le destre è composto da quattro componenti: 1) conservatori: quei partiti, come i Gollisti francesi, tendenzialmente favorevoli a ipotesi confederali che non intaccassero eccessivamente la sovranità nazionale; 2) neoliberisti: quelle forze politiche che, guidate dalla Iron Lady, iniziarono una vasta offensiva contro lo stato sociale e le istituzioni comuni, in difesa delle prerogative dello stato nazionale; 3) liberali: eredi della tradizione liberale europea erano favorevoli all’approfondimento dell’integrazione europea soprattutto per quanto riguardava il mercato unico; 4) estrema destra: quei partiti e quei movimenti che ripresero l’antieuropeismo dei partiti nazionalisti sulla base di una strenua difesa della sovranità nazionale.

 

2. La seconda premessa riguarda il repentino cambiamento del contesto, in particolar modo europeo, che maturò nel corso degli anni ‘80  e che impose anche alle destre un ripensamento su obiettivi e strategie: 1) il crollo del blocco sovietico: la fine dei regimi comunisti nell’Europa centrale e orientale, non pose la fatidica domanda “che fare?” solo ai comunisti occidentali, ma anche a tutti quei partiti di destra che avevano costruito sull’anticomunismo molte delle loro fortune elettorali; 2) la firma del Trattato di Maastricht: le nuove sfide poste dall’integrazione europea e l’avvio dell’europeizzazione – in particolare la moneta e il mercato unico – imposero a tutte le forze politiche una riflessione sull’idea di Europa che ciascun partito aveva; 3) un massiccio attacco all’integrazione positiva: Margareth Thatcher iniziò infatti una durissima critica contro il presidente Delors rilanciando con forza la costituzione di un fronte euroscettico – il Club di Bruges – teso a rilanciare un approccio alternativo, neoliberista, all’integrazione europea.

In Europa questo contesto fece del PPE la force d’attraction per tutti quei conservatori europei che erano desiderosi di contrapporsi alla “nuova minaccia”, il PSE e i suoi affiliati. Con l’uscita di scena di Margaret Thatcher, anche i Tories britannici entrarono presto nell’orbita del PPE: tra il 1992 e il 1995 i conservatori di Londra, quelli di Lisbona e Madrid entrarono in quella che era sempre stata la casa comune dei democratico-cristiani.

 

3. E l’Italia? L’Italia era un paese nel quale, con l’ingombrante e problematica presenza dell’MSI di Almirante, dichiararsi di destra generava “qualche complicazione”. La DC, per quanto si è già detto sui partiti democratico-cristiani, non era un partito di destra, specialmente riguardo al processo d’integrazione europea. Era però un partito in difficoltà – come testimoniano i cedimenti verso Spadolini e soprattutto Craxi a Palazzo Chigi.

La caduta del blocco sovietico causò in Italia uno degli effetti più deflagranti dell’Europa occidentale, se non il principale. La DC aveva largamente lucrato sulla minaccia anticomunista e, come emerge limpidamente dai dibattiti del Consiglio Nazionale tra il 1989 e il 1991, ci si domandava quale sarebbe stato il futuro del partito nel nuovo contesto non più bipolare. Quale sarebbe stato il collante – ci sarebbe stato? – che avrebbe continuato a tenere insieme le diverse anime del partito? E quale sarebbe stata la risposta dell’elettorato, anch’esso spinto per una sua buona parte a votare Dc secondo logiche ancorate alla guerra fredda?

A “rincarare la dose” si aggiunse la sfida del trattato di Maastricht che, seppur accettata e ricercata con forza da Andreotti e dalla dirigenza, strideva in modo palese con l’inadeguatezza del paese, della quale la Dc era la principale responsabile insieme al PSI di Craxi, a farvi fronte. L’Italia del dissesto finanziario, delle direttive non trasposte, della lira fuori dallo SME, era un paese debole che chiaramente non avrebbe retto la sfida della moneta unica e il cui approccio all’Europa era basato principalmente sull’esercizio della retorica, meglio se di stampo federalista – si pensi al referendum del 1989. Il “1992”, con l’avvio di tangentopoli e l’attacco mafioso, s’inserì in questo contesto dando la spallata finale. Un sistema politico, rimasto pressoché inalterato dagli inizi stessi della stagione repubblicana, crollò rapidamente.

4. La fine del sistema partitico della cosiddetta “prima repubblica” si unì quindi alla “liberazione” di enormi energie politiche che erano state per lungo tempo saldamente ancorate alle logiche della guerra fredda e del mondo bipolare. In Italia si aprì dunque un enorme vuoto politico, creato dal collasso della Dc. Tra il 1992 e il 1994 quello spazio fu immediatamente occupato da Silvio Berlusconi e dalla sua Forza Italia e dal parzialmente nuovo MSI-AN di Gianfranco Fini – che sposò il progetto AN lanciato da Fisichella su “Repubblica Presidenziale”. In quello stesso spazio insisteva da qualche tempo, come le ricerche di Diamanti, Biorcio e Mannheimer hanno confermato, la Lega Lombarda/Lega Nord di Umberto Bossi. Una posizione di nicchia, infine, era occupata dal Centro Cristiano Democratico che chiamava a raccolta gli orfani della Dc in particolare di stampo doroteo. Il 27-28 marzo questi partiti vinsero inaspettatamente le elezioni politiche e l’Italia si scopriva di destra.

 

5. Nella nuova compagine governativa, assai eterogena, convivevano approcci e visioni che anche sull’integrazione europea erano diversi se non incompatibili. Nel corso della breve esperienza del primo governo Berlusconi furono essenzialmente cinque gli elementi che colpirono nel rapporto tra le destre italiane e la costruzione europea: 1) la mancanza di collegamenti transnazionali; 2) la presenza al governo del MSI-AN; 3) le culture politiche che convivevano in Forza Italia; 4) il regionalismo della Lega Nord; 5) un approccio cauto, se non euroscettico.

Il primo elemento che colpiva era l’assoluta mancanza di legami transnazionali dei nuovi partiti della destra italiana. La Lega Nord, che dal 1989 militava nella compagine autonomista, fu immediatamente espulsa dal gruppo al PE a causa dell’alleanza col MSI-AN. Gli eletti di quest’ultima forza aderirono al gruppo dei non iscritti. Forza Italia cercò un primo avvicinamento al PPE bruscamente stoppato dai popolari italiani e a causa dell’alleanza col MSI e fu costretta a ripiegare sulla fondazione di un gruppo autonomo – Forza Europa. Il problema rimase costante negli anni successivi: le nuove forze politiche avevano bisogno di trovare dei partner in Europa sia per rafforzare la loro posizione interna, accreditandosi come forze moderate parte di un più vasto schieramento europeo, sia nel PE e nelle istituzioni comuni per non restare marginali nei luoghi in cui “si faceva l’Europa”. Solo nel 1998 si riuscirono a sciogliere alcuni importanti nodi: in quell’anno, infatti, AN, con la conferenza programmatica simbolicamente tenuta a Verona, città nella quale fu lanciato il programma della RSI, mise in soffitta l’eredità politica e ideale del MSI ed entrò nel gruppo gollista al PE. Anche in questo caso, l’approccio all’Europa e l’alleanza al PE furono tra le cause principali che portarono alla “scissione” della minoranza guidata da Pino Rauti e da Marcello Veneziani – sulla rivista “lo Stato” –L’alleanza coi gollisti francesi fu un secondo “sdoganamento”, dopo quello interno fatto da Berlusconi, che permise a Fini di presentarsi come forza politica ormai inserita tra le grandi famiglie del conservatorismo europeo. Anche in questo caso, come per quello PCI-PDS, l’adesione a un gruppo/federazione transnazionale serviva a legittimare un cambiamento interno.

Sempre nel 1998, anche per rispondere alla mossa di Fini, Berlusconi riuscì a portare a termine il corteggiamento verso il PPE e finalmente Forza Italia e i suoi deputati a Strasburgo entrarono ufficialmente nella federazione popolare avviandosi a diventare una delle componenti, almeno dal punto di vista numerico, dominanti. Nella federazione popolare si replicava l’atipicità italiana già comparsa nel PSE, ovvero la compresenza nella stessa federazione transnazionale di partiti che invece nell’arena interna si trovavano su posizioni opposte. Il culmine si raggiunse con le elezioni del 1999 quando i partiti italiani presenti nel PPE e diversamente collocati nell’arena politica interna, furono ben cinque.

Anche la Lega Nord non trovò vita facile: dopo l’espulsione dal gruppo Arc en Ciel aderirono a quello liberaldemocratico dal quale uscirono, sempre nel corso del cruciale 1998, a causa dell’avvio della strategia euroscettica e progressivamente antieuropea.

6. La seconda questione riguardava la presenza del MSI-AN al governo. Si è già detto di come l’ingombrante presenza missina avesse causato difficoltà per gli altri alleati di governo nel trovare a Strasburgo un gruppo che li accogliesse. C’erano due problemi legati all’MSI: il primo era il suo rapporto col fascismo, il secondo quale approccio all’Europa avrebbe espresso la nuova forza politica. Quanto al primo punto, ancora nel 1989 Gianfranco Fini rivendicava la vocazione europea del fascismo e della RSI. La reazione all’arrivo al governo del MSI fu forte sia perché si temeva un rischio “contagio”, ovvero, che il successo missino fungesse da propellente per analoghi successi, ad esempio, del FN in Francia e dei Repubblikaner in Germania, sia perché si temeva che l’Italia abbandonasse le tradizionali posizioni filoeuropeistiche (la rivendicazione dell’Istria e della Dalmazia, la cancellazione degli accordi di Osimo contenuti nel programma missino per le politiche e per le europee del 1994 non costituivano segnali positivi). La tensione toccò il culmine il 6 maggio 1994 con la discussa mozione approvata dal PE in vista del vertice di Corfù nella quale si invitava l’Italia a riaffermare la sua fedeltà agli ideali democratici che, dopo l’orrore del nazismo e del fascismo, erano alla base della costruzione europea. L’Italia di Berlusconi e di Fini non venne quindi invitata ai festeggiamenti per il cinquantenario dello sbarco in Normandia e diversi esponenti missini con incarichi governativi trovarono spesso freddezza o aperta ostilità dei partner nei vari forum dell’Ue – si pensi al belga Di Rupo e agli adesivi fatti trovare a Tatarella con la scritta 1922-1943 io non dimentico. Solo dopo il “Fiuggi 2” e soprattutto dopo Verona nel 1998, AN cessò di essere associata tout court all’MSI e al neofascismo nonostante che sporadicamente suoi esponenti o alcune questioni tornassero a far agitare lo spettro di una continuità coll’estremismo fascista mai completamente recisa.

 

7. Ad amplificare le agitazioni verso la presenza missina contribuiva il fatto che il principale perno dell’alleanza, Forza Italia, era nel 1994 un partito assai poco facile da decifrare. FI sembrava replicare, per certi versi, la DC: un partito composto da diverse anime. Queste anime avevano sull’integrazione europea, visioni diverse e opposte: si andava dall’euroscetticismo neoliberista di Martino, membro e sostenitore del Club di Bruges, ai federalisti provenienti dai radicali e dalle ex fila democristiane, ai conservatori più classici, ai liberali. Di conseguenza, anche l’europeismo di Forza Italia era assai contraddittorio. Berlusconi gli dedicava poca attenzione, giudicandolo un terreno poco attraente e poco remunerativo in termini di propaganda e campagne elettorali per cui, cosa inusuale, lasciava molto spazio agli altri dirigenti di primo piano, che però, appunto, esprimevano posizioni diverse.

 

8. Il caso della Lega Nord era ancora più emblematico. Nato come movimento fortemente europeista, di un europeismo visto come antidoto al “centralismo romano”, l’approccio leghista si sviluppò nei primi anni ’90 sposando in pieno il progetto di Maastricht che ben rispondeva alle ambizioni delle piccole e medie imprese del Nord. La proposta, che cozzava incredibilmente contro il progetto missino, era quello di ristrutturare la repubblica in senso federale in modo da garantire più autonomia alle regioni del Nord. Fatto un primo tentativo insieme alle altre destre, e fatto un secondo tentativo, sempre più in nome dell’Europa, attraverso il sostegno al governo Dini, la Lega Nord inaugurò nel dicembre del 1995 la strategia secessionista orientata a “staccare” il Nord dall’Italia, ribattezzato dal 1996 “Padania”, nel caso in cui il Paese non fosse riuscito a entrare nella moneta unica passando per la porta principale.

L’escalation si basò su una vera e propria costituzione, su una dichiarazione d’indipendenza, sulla fondazione di istituzioni para-governative – il governo “Sole” e il Parlamento del Nord” – sulle elezioni per il parlamento “padano” e per giunta su un referendum per l’indipendenza. Questa escalation avvenne davanti alla passività di forze politiche e istituzioni repubblicane, alle quali reagì la sola magistratura. Tuttavia, con l’ingresso dell’Italia nell’Euro, anche l’europeismo leghista rivelò ben presto la sua connotazione strumentale. Da questa prospettiva, quella della Lega Nord era un’attitudine assai simile a quella degli “odiati” partiti romani.

9. Maastricht, da quanto si è detto finora, fu la cartina di tornasole della vera novità che le destre italiane portarono nel dibattito sull’integrazione europea. Se la sinistra moderata e i popolari continuarono nel solo del tradizionale europeismo italiano, riuscendo a imbarcare nel progetto anche quella Rifondazione Comunista che aveva votato contro il trattato, ma che poi approvò tutti i provvedimenti necessari per rispettarne il processo di convergenza, le destre italiane palesarono da subito un comune scetticismo verso il trattato. Scetticismo che si manifestò nell’avvio di una critica forte alle istituzioni comuni, in particolare verso la Commissione europea, in esibizioni “muscolari” per difendere interessi nazionali e la sovranità del Paese – tipo il veto sull’adesione slovena. Per la prima volta dagli anni ’80, nel panorama partitico italiano riuscirono quindi ad andare al governo forze politiche che non mettevano il processo d’integrazione tra le fondamenta della loro strategia politica, ma che anzi lo criticavano apertamente pur senza arrivare a invocare l’uscita dell’Italia dall’Ue.

 

10. Alcune conclusioni sono state già accennate – come la difficoltà di trovare collegamenti transnazionali. Rimangono però due brevi riflessioni che mi pare utile fare. La prima è la difficoltà delle destre italiane a costruire sull’integrazione europea una piattaforma comune che fungesse da punto d’incontro tra le diverse culture politiche. Anzi, le destre riunite in coalizione non sono riuscite ancora a trovare la formula esatta per rispondere adeguatamente alla doppia pressione che viene dal basso dalle realtà locali e dall’alto dall’Europa, ma si sono spesso affidate a una sorta di “cerchiobottismo” che mirava a soddisfare contemporaneamente esigenze diverse. La seconda è la scarsità di ricerche e studi che hanno riguardato le destre, le loro culture politiche, il loro approccio alle problematiche dell’integrazione europea, nonostante che dal collasso del precedente sistema partitico abbiano governato a lungo il paese guidandolo anche durante appuntamenti chiave per l’Europa come l’allargamento a Est, le relazioni internazionali e il rapporto Ue-Europa-USA post 9/11, la convenzione.

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    By: Massimo Piermattei

    Massimo Piermattei, curatore del numero, è professore a contratto di Storia delle relazioni internazionali presso l’Università della Tuscia e membro del teaching staff della cattedra Jean Monnet “l’Europa mediterranea nell’integrazione europea: culture e società, spazi e politiche”. Le sue ricerche sono incentrate sull’europeizzazione dell’Italia e dell’Irlanda, sull’evoluzione della regione mediterranea nella storia del processo d’integrazione europea e sui partiti europei. Tra le sue più recenti pubblicazioni: Crisi della repubblica e sfida europea, Bologna, Clueb 2012; Territorio, nazione, Europa: le presidenze Cossiga, Scalfaro e Ciampi, in “Presidenti. Storia e costumi della Repubblica, nell’Italia democratica”, ed. by, M. Ridolfi, Roma, Viella, 2014; On the Mediterranean shores of EU: geography, identity, economics and politics, in C. Blanco Sío-López, S. Muñoz, ed. by, Converging pathways. Spain and the European integration process, Bruxelles, Peter Lang, 2013.

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    L’Europa mediterranea nell’integrazione europea: spazi e culture, economie e politiche
    Officina della Storia. Indice n. 7 / 2011
    Le culture politiche italiane e il Trattato di Maastricht (1992-1994)

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