Introduzione
La ricerca storiografica sul processo d’integrazione europea si è sviluppata nel corso dei decenni attraverso il tentativo di definire l’esperienza comunitaria come un campo di studio riservato ad alcune specifiche quanto tradizionali sotto-discipline. Così, di volta in volta, il processo di integrazione europea è stato studiato soprattutto dagli storici delle relazioni internazionali, “propensi a considerarlo un aspetto della politica estera, dagli storici delle idee – in larga parte concentrati sulla valorizzazione del pensiero europeista e federalista -, dagli storici delle istituzioni – rivolti all’esame delle istituzioni comunitarie – e, ovviamente dagli storici economici”[1]. Tuttavia, a causa degli sviluppi seguiti dal progetto di unificazione, larga parte della storiografia contemporaneistica si è progressivamente aperta alla necessità di conoscere e interpretare la dimensione europea nella sua originalità e nella sua specificità, anche al fine di comprendere meglio alcuni passaggi della storia di uno Stato: Lucio Levi è infatti dell’opinione che “l’integrazione europea ha rappresentato l’occasione di profonde revisioni nel campo della cultura politica che hanno gettato nuova luce sul nostro passato e, nello stesso tempo, hanno permesso di considerare in termini nuovi i grandi problemi del mondo contemporaneo”[2]. Questo quadro è stato rafforzato dall’evidente processo di internazionalizzazione dei processi politici avutosi in Europa e nel mondo in seguito al crollo del Muro di Berlino.
Da quanto appena scritto, ne consegue che la crisi politica che attraversò l’Italia tra il 1992 ed il 1994 può trovare nuovi spunti di lettura e di interpretazione nel contesto dell’unificazione europea e specialmente del Trattato sull’Unione Europea di Maastricht (Tue) proprio perchè, come ha sostenuto Mario Monti, è di sicuro interesse studiare “la trasformazione di un paese attraverso l’integrazione”[3]. La ricerca politologica ha più volte ricordato come la rigida quanto tradizionale distinzione tra politica interna ad uno Stato ed esterna ad esso, sia sempre più insoddisfacente:
“lo sviluppo dell’Europa comunitaria rende sempre più significativa una nuova realtà che è costituita dalla stretta interconnessione tra le politiche dei vari stati membri all’interno di un quadro istituzionale e di politiche comuni a livello europeo (…) È la stessa politica domestica che viene, per effetto di essa (della politica europea), a collocarsi in una dimensione profondamente nuova”[4].
La nascita di questa terza dimensione, una sorta di politica intra-europea, si può individuare nell’avvio della fase positiva del processo d’integrazione avvenuta tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta: l’elezione a suffragio universale e diretto del Parlamento europeo (Pe), la nascita e lo sviluppo del serpente monetario e successivamente del Sistema Monetario Europeo (Sme), l’obiettivo del mercato unico, e, naturalmente, il Tue col progetto di unione monetaria, furono tutti elementi che sancirono la nascita, lo sviluppo e il rafforzamento di una serie di politiche europee che cominciarono ad avere ampi risvolti in ambito nazionale, alterando profondamente i concetti di politica interna ed estera.
A questi aspetti è necessario aggiungere che se è pur vero che tempi e contenuti del processo di integrazione sono stati dettati principalmente da personalità politiche o da esponenti governativi, tale processo rimane pur sempre un fenomeno eminentemente politico: di conseguenza, la ricerca storica sta attribuendo maggiore spazio e attenzione al contributo dato dai partiti politici e dalle federazioni transnazionali dei partiti europei alla costruzione dell’Europa unita. Le difficoltà che hanno progressivamente incontrato le procedure di ratifica dei nuovi Trattati, confermano che le decisioni prese dal Consiglio europeo hanno bisogno di fondarsi anche sulle sensibilità espresse dalle forze politiche e sul sostegno delle varie popolazioni, per non dire, del popolo europeo.
L’approccio dei partiti italiani all’integrazione europea
L’atteggiamento dei partiti italiani di fronte all’integrazione europea nel periodo precedente al Tue, può essere suddiviso in due fasi: 1) prevalenza della politica internazionale. In questo periodo, compreso nell’arco cronologico che va dal 1950 alla fine degli anni Sessanta, il contesto dato dalla guerra fredda condizionò i partiti italiani nelle scelte di politica estera e, quindi, le portò a sostenere il processo d’integrazione a seconda del campo di appartenenza[5]: così, Pci e Psi avversarono l’avvio stesso del progetto di unificazione e la prospettiva federale, sostenuti con forza da De Gasperi e dalla Dc, in quanto definiti come strumenti di aggressione economica e politica all’Urss[6]. Non è un caso che i socialisti italiani attribuirono un valore diverso all’integrazione europea proprio nel momento in cui ruppero il patto d’unità d’azione con il Pci per imboccare la strada che avrebbe portato all’esperienza del centro sinistra. Anche il Msi sostenne l’avvio della Ceca poiché riteneva che fosse uno strumento necessario affinché l’Europa riacquistasse quella centralità nello scacchiere planetario che l’intervento delle due super potenze nel secondo conflitto mondiale aveva ridimensionato. 2) l’“europeismo retorico”. L’inizio di questo periodo risale ai primi anni Settanta quando il Pci, in seguito alla linea voluta da Berlinguer, si schierò in favore dell’integrazione europea. Nel Parlamento italiano si creò la situazione per la quale non si registrarono posizioni contrarie né ai contenuti del progetto di unificazione, né all’idea stessa di integrare l’Europa[7]: anzi, tutte le forze politiche sembravano aderire convintamente all’ideale federale e rimproveravano agli altri Stati, in particolare alla Gran Bretagna guidata da Margaret Thatcher, un’eccessiva prudenza verso ulteriori forme di unificazione. Esempio classico di questa seconda fase fu la plebiscitaria affermazione del “Sì” al referendum consultivo del giugno 1989, nel quale si chiedeva agli italiani se erano d’accordo che il Pe si dotasse di poteri costituenti. La frequenza delle prese di posizione a favore dell’accelerazione del processo d’integrazione fu accompagnata da una pari incapacità di tenere fede agli impegni richiesti dal mercato unico e dall’auto-esclusione sul Trattato di Schengen: la classe politica degli anni Ottanta non riusciva a tradurre in pratica politica l’europeismo retorico dichiarato ad ogni piè sospinto. Altro aspetto negativo fu che l’assenza di voci fuori dal coro impedì un serio confronto tra i protagonisti dell’arena politica, al quale seguisse la definizione di una visione italiana dell’integrazione europea, degli interessi nazionali comuni da difendere a prescindere dall’appartenenza partitica. Non di rado, l’europeismo retorico servì, come nel caso del Pci, a rivendicare una piena legittimità politica interna: non si poteva essere antieuropeisti o criticare il processo d’integrazione se ci si voleva candidare alla guida del Paese. Lo sfondo comune a queste due fasi fu quello della teoria del vincolo esterno, in altre parole, dall’opinione espressa dal ceto politico, come da quello economico e dai mezzi di comunicazione, che le lacune delle quali era accusato a vario titolo lo Stato italiano, potessero essere sanate e risolte solo mediante una più pressante appartenenza del Paese al processo di unificazione europea[8].
L’impatto di Maastricht
La fase dell’europeismo retorico entrò in crisi durante i lavori delle due Conferenze intergovernative (Cig) e dalla firma del Tue ovvero, mano a mano che Governo e partiti acquisivano consapevolezza degli impegni assunti dall’Italia e del grave quanto colpevole ritardo del Paese. Prima di iniziare a studiare in che modo il Tue e la caduta del Muro di Berlino incisero nella ridefinizione delle culture politiche italiane sorte dalla crisi 1992-1994, è bene precisare che sottolineare il ruolo di questi due grandi eventi non significa affermare che tornò in voga lo schema che si è visto nella prima fase, ovvero, un contesto europeo e internazionale che, dominando sulle logiche politiche interne, determinasse la linea politica generale delle singole forze politiche. Con la caduta del Muro di Berlino, i partiti italiani furono oggettivamente più liberi di seguire strategie di politica internazionale più articolate e autonome; con il Tue, si rafforzò l’area intra-europea della politica, che fece sì che un Trattato, come quello firmato nella cittadina olandese, non potesse essere ridotto ad atto di politica estera. Nello stesso tempo, la lotta politica interna seguiva proprie logiche e traiettorie che, come nel caso dell’offensiva scatenata dalla mafia o dalle inchieste sulla corruzione della politica, poco avevano a che vedere con il rinnovato quadro internazionale. Ciclicamente, questi ultimi assumevano carattere preminente, a volte, invece, a prevalere erano i primi: è dall’analisi dell’intrecciarsi di queste due dimensioni che la stessa ricerca storica sulle culture politiche negli anni Novanta può uscirne rafforzata e più completa.
Inserendosi nella spirale della bufera politica e sociale avviata nel febbraio 1992 dalle inchieste giudiziarie, e che giunse presto al culmine con gli attentati che uccisero i giudici Falcone, Borsellino e le loro scorte, il Tue squarciò il velo di europeismo retorico. A Maastricht si celebrò l’innocenza perduta dell’europeismo italiano che scoprì, quasi in un sol colpo, che le mere dichiarazioni di fedeltà europeistica sarebbero state inutili se non coadiuvate da una rivoluzione culturale nell’approccio italiano all’integrazione europea. La disastrosa situazione economico-finanzaria del Paese, ad esempio, poteva impedire all’Italia di proseguire di pari passo con gli altri Stati sulla via dell’integrazione. La priorità assegnata dal Tue all’Unione economica e monetaria (Uem) e, in quest’ultima, l’affermazione di una ferrea linea monetarista pretesa dalla Germania riunificata, e ben rappresentata dai famigerati parametri di convergenza, suscitarono forti perplessità nei partiti italiani e scatenarono le prime opposizioni. Fu proprio durante la ratifica del Tue che si ruppe quell’unanimità europeistica che, voto sullo Sme a parte, procedeva compatta da quasi vent’anni costituendo l’unica area politica sulla quale non ci fosse un’accesa conflittualità interna. Certo, tale nuovo atteggiamento verso l’integrazione sarebbe stato difficilmente possibile se non si fosse inserito in un contesto nazionale come quello brevemente tratteggiato in precedenza, così come, la crisi interna non avrebbe raggiunto certi livelli se al Paese non fossero state poste importanti sfide dal processo d’integrazione. In quest’ottica, Sergio Romano è stato tra quelli che non vide come casuale il nesso tra l’approvazione del Tue e l’infuriare della bufera politica: è opinione di Romano, infatti, che gli industriali si ribellarono al sistema delle tangenti, che avevano alimentato con complicità e interesse per anni, non perché “sono angeli, ma hanno compreso che l’Italia non era più in grado di tener dietro agli sviluppi dell’integrazione europea (…) era in gioco ormai tutto quelli che essi erano riusciti a creare dopo la ricostruzione e il ‘miracolo’ degli anni [Cinquanta][9].
Il dibattito che precedette la ratifica si incentrò su tre critiche: a) la prevalenza dell’Uem sull’unione politica: questo punto accomunò quasi tutte le forze politiche italiane in nome della battaglia per la democratizzazione dell’Europa unita. Non si trattò solo di una battaglia ideale: la questione democratica era il terreno sul quale l’Italia aveva cercato di sfidare gli altri membri visto che sui temi relativi all’Uem le condizioni che si stavano profilando erano nettamente svantaggiose per il Paese. Anche il Msi e la Lega Nord (Ln) aderivano a questo filone di critica al Tue seppur con diversi presupposti o con diversi obiettivi: i missini, infatti, vedevano negli accordi di Maastricht una netta cessione di sovranità ad organi burocratici e per questo rilanciavano la loro preferenza per lo schema confederale. La Ln, per contro, individuò nello schema istituzionale uscito da Maastricht una replica dell’assetto centralizzante che, a suo giudizio, caratterizzava i Dodici, a danno delle diverse autonomie regionalistiche; b) la situazione italiana: questo ordine di critiche non era direttamente rivolto ai contenuti del Tue, ma al suo impatto nel Paese a causa della situazione economico-finanziaria dell’Italia e per le responsabilità politiche, soprattutto frutto dell’aumento esponenziale del debito pubblico negli anni Ottanta, di tale situazione. Questa linea di frattura vide schierate in un campo le forze a sostegno dell’esecutivo, che ribadirono la loro determinazione ad operare per una gestione delle risorse più sana, trasparente ed in linea con i parametri, mentre nell’altro stavano i partiti di opposizione, Pds, Ln, Rifondazione Comunista (Rc) e Msi, che criticarono aspramente la classe politica che aveva guidato il Paese, ritenendola responsabile del tracollo italiano, auspicandone un immediato ricambio. Solo il Msi, prendendo atto dello stato dei conti pubblici, denunciò “l’avventurismo di chi (…) ha firmato un Trattato, che impegna la credibilità degli italiani, ben sapendo con largo anticipo di non poterne rispettare le condizioni”[10] e chiese che il Governo si impegnasse per ottenere scadenzari diversi o un opting out come quello britannico; c) filosofia e contenuti del Trattato: quest’ultimo rappresentò sicuramente il fattore di novità rispetto alle precedenti critiche, legate per lo più alla dialettica politica interna e all’azione per la democratizzazione della Ue. Prendendo spunto dalla filosofia che stava alla base del Tue, dai suoi contenuti, in particolare al progetto di Uem e al cammino tracciato per raggiungerlo, alcuni partiti italiani tornarono ad esprimere profondo dissenso verso l’integrazione europea. Rc e il Msi si distinsero presto per una serrata opposizione al Tue. Se il Msi non condivideva quello che definì, per usare le parole di Cesare Pozzo, “un esproprio di sovranità politica”[11], Sergio Garavini a nome di Rc attaccò più duramente il Trattato e le forze che lo sostenevano:
“le imposizioni di politica economica e sociale più restrittive vengono poi stabilite da una CEE senza democrazia, dove il Parlamento è eletto ma non ha potere, dove c’è un Governo che non risponde al Parlamento, dove comandano non gli eletti del popolo, bensì i banchieri e ministri prevalentemente conservatori. Riteniamo del tutto negativo (…) che questi dati di fatto siano ignorati nell’ambito di una posizione acritica verso la CEE, di pura e semplice accettazione del trattato di Maastricht così come esso è”[12].
Il dibattito politico divenne incandescente alla fine dell’estate del 1992 a causa di tre eventi: 1) il referendum di giugno con il quale i danesi bocciarono il Tue; 2) le turbolenze monetarie inaspritesi all’inizio di settembre, e che portarono il Governo Amato ad optare per una doppia svalutazione della lira e alla sua uscita dallo Sme; 3) la progressiva incertezza e, in seguito, il ristrettissimo margine col quale i francesi approvarono il 20 settembre il referendum su Maastricht voluto da Mitterrand. Il fermento politico suscitato in special modo dal referendum francese ebbe profonde riflessioni in Italia anche perché l’esecutivo aveva deciso di forzare i tempi del dibattito parlamentare per l’approvazione del Tue al fine di esercitare una pressione politica sul voto d’Oltralpe[13]. Ne conseguì un inasprimento dello scontro politico. Un esempio fu rappresentato dal fatto che già al Senato, ad introdurre il dibattito in Aula vi furono ben tre relazioni, una di maggioranza, una presentata da Rc e l’altra dal Msi. Questi ultimi due cercarono di rallentare l’iter di approvazione sollevando in Parlamento, ognuno per proprio conto, pregiudiziali di costituzionalità, respinte ad ampia maggioranza, e richiedendo un referendum consultivo sulla base del precedente costituito da quello del 1989.
Lo scontro andò in scena soprattutto a sinistra: Rc accusò ripetutamente il Pds di avallare una strategia di unificazione europea che aveva assunto ormai un carattere “autenticamente reazionario”[14] e, affermò Lucio Magri, “marcatamente autoritario”[15]. Nello specifico, al Pds fu rimproverata la contraddizione di votare a favore di un trattato la cui impostazione, come si poteva desumere dagli interventi in Aula, non condivideva; Ersilia Salvato definì come infondata la speranza che, votando il Tue, questo potesse essere completato nel breve tempo da una riforma dell’architettura istituzionale comunitaria in senso democratico:
“A chi oggi, nonostante le critiche puntuali, finisce poi col dichiararsi comunque disponibile ad esprimere voto favorevole, in maniera quasi unanimistica, rinviando all’indomani l’inizio del cambiamento, diciamo che questo ragionamento ha fatto il suo tempo, e non solo da qualche mese. Questo ragionamento ha condotto e continua a condurre ad una sconfitta culturale, sociale e politica della Sinistra”[16].
Per contro, Claudio Petruccioli riteneva che la decisione del Pds “si accompagna alla precisa convinzione che si è aperta, e deve essere sostenuta, una battaglia tra sbocchi di destra e di sinistra per l’Unione europea”[17]. Da questo polemico scambio di opinioni si possono dunque cogliere due importanti novità. A poco più di un anno dalla trasformazione del Pci, i partiti nati da quella scissione avevano scelto percorsi politici divergenti in Italia come, più evidente, sull’integrazione europea: il Pds, che aveva aderito all’Internazionale Socialista e co-fondato il Partito dei Socialisti Europei (Pse), si era incamminato lungo la strada della socialdemocrazia europea, mentre Rc aveva mantenuto le riserve dell’ortodossia comunista tipiche del Pcf. La seconda indicazione è racchiusa nelle parole pronunciate da Petruccioli: con il Tue e la caduta del Muro di Berlino, il processo d’integrazione cessò di essere concepito come un cammino quasi automatico che procedeva su binari condivisi dalle principali forze europee a prescindere dal posizionamento sulla linea destra-sinistra. Timidamente e in modo indefinito, si stava aprendo una lotta tra diversi modi di concepire il cammino e gli obiettivi del processo d’integrazione: la controprova fu fornita dalle “grandi manovre” che proprio nel 1992 ebbero per protagonisti il Partito Popolare Europeo (Ppe), con l’adesione dei Tories, e il Pse.
Di diverso tipo fu l’opposizione del Msi. In questo caso, risaltò più chiaro il legame tra la crescente tensione della situazione politica interna e la ratifica del Trattato, tanto è vero che al Senato il Msi non optò per il “No”, ma decise di abbandonare l’aula affinché tale contrarietà non fosse posta sullo stesso piano di quella espressa da Rc e che i missini giudicavano come antieuropea. I vertici della Cisnal, sindacato molto vicino al Msi, denunciarono un clima “per cui ogni critica, sia pure costruttiva e seria, al Trattato viene interpretata come forma di antieuropeismo”[18]: ancora una volta, si sottolineava che era lo strumento ad essere sbagliato, o meglio, criticabile, e non il progetto in se. Il referendum francese, la svalutazione della Lira e le inchieste giudiziarie, produssero invece le condizioni affinché alla Camera dei Deputati il Msi votasse “No”. Il partito guidato da Gianfranco Fini accusò la maggioranza di Governo e le forze che avrebbero votato a favore del Tue di andare contro gli stessi interessi dell’Italia; era ormai indispensabile, ribadì Maurizio Gasparri, “porre in termini problematici la riflessione sul ruolo della Comunità europea, difendendo i nostri interessi nazionali e quello della nostra realtà produttiva”[19]: “in troppe occasioni”, scrisse ancora Gasparri, era successo che “la retorica europeista, ben diversa da un’organica Europa delle patrie (…) sia servita da alibi, nel caso italiano, ad una classe dirigente che non ha saputo difendere l’identità e l’indipendenza della nostra nazione”[20].
Da quanto scritto, risulta evidente quanto stesse cambiando l’atteggiamento dei partiti italiani verso l’integrazione europea: basterebbe fare un rapido confronto con i dibattiti, gli ordini del giorno, approvati solo pochi anni prima per il referendum consultivo o sui lavori della Cig per l’unione politica. Verzichelli e Conti hanno sottolineato che,
“Dopo la ratifica di Maastricht, il tema dell’integrazione europea, sia stato affrontato in maniera più attenta, con l’emergere di una crescente pluralità di posizioni (…) Cambiamenti importanti sono riscontrabili sia nelle preferenze in merito a issues specifiche (…) sia nella valutazione complessiva che i partiti hanno del processo di integrazione (…) In conseguenza, si assiste a un lento passaggio dalla indeterminatezza di posizioni spesso simili, alla chiarezza di posizioni controverse”[21].
Un’importante fattore di novità e di rottura fu rappresentato dal leghismo. Il movimento di Bossi iniziò a delineare un progetto di riforma federale italiana all’interno di un’Europa unita improntata alla medesima filosofia. Il clamoroso successo registrato alle elezioni politiche dell’aprile 1992 aveva fatto della Ln il quarto partito ed un interlocutore fondamentale per qualunque maggioranza ambisse a governare il Paese. La Ln, convinta sostenitrice del processo d’integrazione, intravedeva il rischio, come si è anticipato, che gli Stati nazionali replicassero nella Ue le loro strutture:
“L’Europa si è fin qui fatta per volontà degli stati nazionali”, scrisse Marco Formentini, “e difficilmente, giunti al momento delle decisioni cruciali, questi Stati vorranno o potranno rinunciare ai propri poteri sacrificandoli ad un ideale superiore. Solo la spinta proveniente dalle forze della autonomia e della libertà potrà assicurare il conseguimento del risultato. È su questo terreno che il federalismo lancia al centralismo la sfida decisiva”[22].
Il concetto di Europa delle autonomie era piuttosto nuovo nel dibattito politico italiano che, sin dai tempi del Risorgimento, aveva condiviso una forte centralizzazione, confermata anche nel periodo repubblicano, ad esempio, dal ritardo col quale furono istituite le regioni. Il tema dell’autonomismo, inteso proprio come ideologia, iniziò a far presa in un’Italia e in un’Europa che sembrarono riscoprire l’importanza del territorio dopo vari decenni passati nel più stretto accentramento, anche a causa delle logiche imposte dalla guerra fredda. La Ln si proponeva dunque di legare l’accelerazione del processo d’integrazione europea ad un’accentuazione dell’autonomia regionale e macroregionale – come il caso del Tirolo: lo stesso slogan usato per le elezioni europee 1989, “Più lontani da Roma, più vicini all’Europa” ne era un chiaro esempio. Nel volger di pochi anni, tutti i partiti dell’arco parlamentare furono costretti a confrontarsi con questo tema e ad elaborare una propria visione.
Nascita e consolidamento della linea di frattura sull’europeismo
Tra la fine del 1992 e nel corso del 1993, la lunga crisi di logoramento del sistema partitico raggiunse la fase terminale: le inchieste della magistratura sulle tangenti e sulle collusioni tra la politica e la criminalità organizzata decapitarono i vertici del Psi, della Dc e delle altre forze del Pentapartito. Nell’aprile del 1993 un quesito referendario approvato a larghissima maggioranza, soppresse la legge elettorale per il Senato, mentre, alle elezioni amministrative di novembre, una netta affermazione della coalizione raccolta intorno al Pds – in alcuni casi ottenuta sul filo di lana rispetto a candidati del Msi – e della Ln a Milano, fornì l’inequivocabile segnale che gli umori politici degli italiani erano radicalmente mutati. In questo contesto di crisi irreversibile, che permise però ai Governi Amato e Ciampi di avviare le prime operazioni di risanamento economico-finanziarie, il Presidente Scalfaro decise di sciogliere il Parlamento. Ad appena due anni dalle ultime consultazioni nazionali, la geografia politica italiana risultò stravolta: tale imponente cambiamento non poteva che ripercuotersi anche sul rapporto tra le culture politiche e l’integrazione europea. L’interesse è duplice. Se, naturalmente, era interessante capire come le nuove formazioni politiche concepissero l’Europa unita e il suo processo d’integrazione, ancor più stimolante era osservare come approcci diversi potessero coesistere all’interno di una stessa coalizione: infatti, come rilevò Mario Pirani alla vigilia delle elezioni,
“vi è, per contro, qualcosa di inedito e di profondamente destabilizzante in questa competizione elettorale che riguarda sia i Progressisti sia il polo di Destra. Il fatto, cioè, che all’interno delle rispettive alleanze, siano presenti forze apertamente avverse, su uno o più punti, alla politica estera seguita dall’Italia dal dopoguerra ad oggi (…) la collocazione di Rifondazione e del Msi è qualitativamente diversa da prima: da forze di minoranza estremista ed esterna al potere, ambedue si presentano ora come componenti costitutive delle due maggiori alleanze (…) a seconda di chi vincerà, quei pericolosi programmi non suoneranno più come testimonianze nostalgiche ai margini dell’uno o dell’altro campo ma come condizionamenti interni alle possibili coalizioni di governo”[23].
Era nelle zone grigie dei programmi elettorali, nelle sfumature, nelle enfatizzazioni, nelle omissioni, completava Piero Ignazi, “che si ritrovano le differenze tra politiche che, probabilmente, diverranno cruciali nei prossimi anni”[24].
Nei Progressisti, le distanze tra il Pds e Rc emersero piuttosto velocemente; alla genericità del documento che sanciva la costituzione della coalizione[25], facevano da contraltare i toni usati da Bertinotti che, in una lettera inviata al Sole 24 ore, affermò:“Siamo altrettanto convinti che proprio per rilanciare un processo politico di unificazione dell’Europa, bisogna rovesciare la logica che ha ispirato il trattato di Maastricht, dominata dalla logica del capitale finanziario, da impostazioni monetario-mercantili, e invece ripartire dai problemi sociali concreti che affliggono i popoli di questo Continente, la pace, la solidarietà, l’occupazione (…) Quindi non è vero che ‘nessuno sembra mettere in dubbio la necessità di procedere sempre più rapidamente alla realizzazione degli obiettivi di Maastricht’: Rifondazione comunista lo fa”[26].
Ancor più radicale fu l’ala minoritaria di Rc che, all’interno della mozione presentata al II° Congresso del partito, ribadì come gli elementi di base dell’accordo dei Progressisti dovessero “rappresentare una netta rottura con la politica internazionale ed economico-sociale dei governi Amato e Ciampi: l’uscita dalla Nato e dall’Ueo, no a ipotesi interventiste, rifiuto di Maastricht”[27]. Il Pds decise di inaugurare la strada tesa a stemperare i toni usati da Rc, preoccupato che questi potessero allontanare dalla coalizione molti potenziali voti dell’elettorato moderato, piuttosto che valutare quanto la propria strategia politica fosse compatibile con quella bertinottiana. Luciana Castellina, pur apprezzando i tentativi di unità, ribadiva infatti che proprio sulla politica estera “esistono nella sinistra divisioni particolarmente aspre che facilmente assumono un carattere ideologico (pro-contro l’Occidente; pro-contro l’Europa)”[28]. Quella della “gioiosa macchina da guerra”, era una sinistra sicura di vincere e per questo non dedicò molta attenzione all’idea di Europa che stava prendendo forma nel movimento fondato da Silvio Berlusconi e in quell’Alleanza Nazionale (An) che era vista solo come un contenitore politico più attraente e frequentabile rispetto al Msi[29].
Se I Progressisti esprimevano al loro interno diversi approcci al Tue e all’integrazione europea, ciò fu ancora più evidente nelle due coalizioni promosse da Berlusconi e da Forza Italia (Fi) rispettivamente al Nord con la Ln e al centro-sud con An. Nello specifico, spiccò immediatamente la lontananza che separava le formazioni di Fini e Bossi. All’interno di un documento redatto dalla commissione che al congresso di fondazione di An si occupò del ruolo internazionale dell’Italia, dopo aver riaffermato la giustezza del modello confederale, si ammoniva: “è assurdo voler fondare l’Europa, che è il nostro destino, sulla disgregazione delle Nazioni e sulla decadenza degli Stati; è utopistico disegnarla come una grande federazione di innumerevoli entità regionali”[30]. Le parole usate nel testo di An erano una chiara risposta ai leghisti: la Ln, già al pre-congresso federale del dicembre 1993, aveva approvato una bozza di costituzione federale provvisoria basata “sulla libera associazione della Repubblica federale del Nord, della Repubblica federale dell’Etruria e della Repubblica federale del Sud”[31]. All’interno della sezione esteri del programma elettorale leghista si ribadì: “l’Europa che va realizzandosi è nata all’insegna del federalismo e del liberalismo economico, dobbiamo quindi necessariamente riformare in senso federale lo Stato e liberalizzare il nostro sistema economico, in sintonia con le regole e con lo spirito dell’Unione europea”[32].
L’unica coalizione che si presentò alle elezioni mantenendo inalterato il suo approccio all’Europa fu il Partito Popolare Italiano (Ppi), che dal gennaio 1994 aveva rilevato il posto di una Dc travolta dagli scandali. Il Ppi si pose l’obiettivo prioritario di scorporare quella parte positiva di eredità storico-politica della Dc dalle responsabilità della classe dirigente coinvolta dalle inchieste. In questa “parte buona” dell’eredità Dc, ricordava Gerardo Bianco, c’era naturalmente il sostegno all’unificazione dell’Europa:
“la nostra battaglia è ovviamente rivolta a far rivivere con forza la battaglia europeista e a rinnovare una partecipazione e una reale forma di interesse per l’europeismo”, rispetto a una destra e ad una sinistra dove “abbiamo avuto invece delle posizioni di remore e di difficoltà (…) ancora oggi, a mio avviso, la destra (…) determina delle difficoltà per l’unificazione europea (…) ci sono correnti politiche e culturali che hanno stimolato in maniera diversa da quella che era la cultura insieme nazionale ed europea che avevano portato avanti le grandi forze politiche del secondo dopoguerra (…) che hanno sollecitato stimoli egoistici, stimoli localistici, hanno spinto verso tendenze che sono legate soprattutto a egoismi e interessi (…) determinando quell’affievolimento della cultura europeista che può essere un danno”[33].
Da quanto scritto, risulta evidente la differenziazione delle posizioni sull’Europa rispetto ai programmi elettorali del 1992 che si erano caratterizzati ancora per un generale sostegno all’idea federale e di critiche velate rispetto al Tue. Le elezioni europee, che si tennero a soli tre mesi da quelle politiche e a venti giorni dalla formazione del primo Governo Berlusconi, rappresentarono l’occasione per constatare un progressivo consolidamento nelle diverse posizioni e quindi l’inizio di una nuova fase dell’approccio dei partiti italiani al processo di unificazione europea, riflesso di una più generale ridefinizione delle culture politiche. In questo contesto la storica vittoria della destra svolse un essenziale ruolo di propulsore, anche se tale effetto fu dovuto in gran parte alle reazioni che si ebbero per l’affermazione personale di Berlusconi, di An ormai terzo partito e per l’insediamento di Antonio Martino alla Farnesina. Infatti, la stessa campagna elettorale decollò solo ad inizio maggio, ovvero, quando il Pe approvò una mozione in vista del Consiglio europeo di Corfù nella quale palesò la sua preoccupazione per la possibile presenza nel governo italiano di esponenti del Msi: l’episodio iniziò ad essere cavalcato dalle sinistre sia in vista di una rivincita sul terreno europeo, sia per denunciare l’euroscetticismo che, secondo il Pds, il Ppi e Rc, albergava nel nuovo esecutivo. Così come la destra cominciò ad assumere una posizione più rigida sulle istituzioni europee e sul processo d’integrazione. Tra i due fuochi venne a trovarsi la Ln, alleata di Fi e An, ma con una spiccata vocazione europeistica.
Tuttavia, parte del gergo elettorale risultò ancora molto simile e spesso i vari partiti usavano le medesime terminologie avendo però in mente obiettivi completamente diversi. Esemplare è il caso del motto “Europa dei popoli”. Con tale espressione, ad esempio, il Msi intendeva “un’Europa delle storiche patrie indipendenti”[34]: “noi abbiamo un’impostazione molto chiara”, affermò Mirko Tremaglia, “si fa l’Europa solo se vi sono gli Stati europei (…) in realtà, solo così noi costruiremo non sulla sabbia, ma su qualcosa che è vivo la nostra Europa”[35]. Di diverso avviso era l’alleato di governo Marcello Staglieno che, al congresso della Ln dichiarò: “L’era degli Stati nazionali sta ormai definitivamente tramontando, il Leviatano è morto (…) i popoli reclamano la loro libertà! Reclamano istituzioni più vicine ai cittadini, istituzioni che siano espressione della loro specifica realtà socio-economica regionale”[36]. Ancora, per Fausto Bertinotti l’Europa dei popoli non era figlia del dilemma nazione/Europa, o regione/Europa, quanto frutto della scelta “tra le classi subalterne e i padroni dell’Europa”[37]. Simile a quella di Rc era la posizione del Pds che sostenne di rifarsi ad “un’Europa che parta dalle cittadine e dai cittadini (…) dai loro diritti, che faccia della giustizia e della pace un perno per le sue politiche interne e per le sue relazioni esterne”[38], un’Europa, concludeva Pasqualina Napoletano “in continuo sviluppo democratico”[39]. Secondo Anna Clemente, candidata alle europee per il Ppi, Europa dei popoli “significa che l’importanza della persona è fondamentale (…) una risposta reale ai bisogni dell’uomo”[40] in modo che, proseguì Pierluigi Castagnetti, “abituiamo i nostri popoli al valore della solidarietà, dell’integrazione, ci abituiamo a pensare che le diversità sono una ricchezza e non una penalizzazione”[41].
La vittoria della destra alle elezioni politiche, come anticipato, avviò quel processo di bipolarizzazione tra “l’Europa della destra e quella della sinistra”, anche se si è visto quanto fosse ancora difficile potersi riferire a degli schieramenti o, come nel caso di Fi, a delle posizioni partitiche unitarie. La mozione del Pe e la nota cautela euroscettica di Martino, fornirono le esche affinché tale tema entrasse nel dibattito; in un’intervista rilasciata all’Unità, Achille Occhetto attaccò: “nel nostro paese per la prima volta c’è una spaccatura profonda sull’europeismo. Le destre pensano solo ad un grande mercato di scambio. Non vogliono un’Europa forte in termini politici e democratici, come invece la vogliamo noi”[42]. Andrea Manzella, evidenziando le differenze di approccio all’interno della maggioranza di governo, si dichiarò preoccupato in quanto “una forte prevalenza delle componenti nazionalistiche (…) darebbe l’idea di un’Italia spostata su posizioni di europeismo ‘freddo’. Posizioni che mai furono nostre nei quasi cinquant’anni di vita comunitaria e che muterebbero fatalmente gli equilibri interni dell’Unione”[43]. Fi e An risposero alle critiche italiane e, soprattutto, europee, da una parte sottolineando anche con lo stesso Martino come l’impegno italiano per la costruzione dell’Europa non sarebbe venuto meno[44], dall’altro mostrando i muscoli con dichiarazioni provocatorie sul Tue, sull’adesione della Slovenia o sullo stesso processo d’integrazione[45]: la linea forzista fu ben rappresentato dallo slogan scelto per le elezioni, “Per contare di più in Europa” che, inequivocabilmente, racchiudeva un messaggio il cui senso era che l’Italia non aveva conseguito netti vantaggi dall’appartenenza al processo d’integrazione europea e sarebbe stato quindi necessario invertire la rotta e difendere con ogni mezzo gli interessi nazionali. Per la prima volta, quindi, l’integrazione europea iniziò ad essere rappresentata non come un fattore positivo per lo sviluppo economico-politico e sociale del Paese, ma come un suo limite. Quando nel giugno del 1994 si trattò di nominare il nuovo presidente della Commissione europea, la posizione del Governo italiano nel Consiglio europeo fu decisiva affinché al posto del belga Deahene, inviso ai britannici in quanto considerato troppo federalista e vicino a Delors, fosse scelto Santer.
Il partito guidato da Bossi non condivideva la linea europeistica degli alleati di governo: la dirigenza leghista da una parte non voleva compromettere gli equilibri di governo, sperando così di poter giungere in breve tempo alla riforma federale del Paese, dall’altra si rese perfettamente conto della inconciliabilità tra la sua idea d’Europa rispetto a quella di An. Di conseguenza, lo stesso Bossi si lanciò in una serie di affondi contro Berlusconi e Fini, dichiarando ripetutamente come la Ln fosse il garante dell’impegno europeistico della nuova coalizione e, in relazione alle polemiche sui ministri di An, della fedeltà ai valori democratici e antifascisti del nuovo esecutivo[46], giungendo a definirsi addirittura come l’erede di Altiero Spinelli[47].
Conclusioni
Da quanto scritto, seppur brevemente per esigenze di sintesi, affiora chiaramente che il biennio 1992-1994 ha un’importanza fondamentale nell’approccio dei partiti italiani all’integrazione europea: nella situazione magmatica venutasi a creare dalla crisi politica-sociale-economica interna, le tematiche legate all’integrazione europea ed in particolare il Tue si inserirono profondamente svolgendo un ruolo di primo piano nella definizione del bagaglio politico-identitario dei nuovi partiti. Nello specifico: a) risulta evidente la progressiva fine di quell’europeismo retorico che non si era mai concretizzato in una definizione di una visione italiana della CEE/UE e del futuro del suo processo d’integrazione. Dopo lo smarrimento iniziale verso la piega che aveva preso il processo d’integrazione, le forze politiche si divisero rapidamente tra quelle che considerarono il Tue un chiodo nella roccia, come sostenne anche Ciampi, sul quale far perno per riformare il sistema-Italia e quelle che, con diversi presupposti, ritennero quel Trattato come l’inizio di una deriva a-democratica e dettata dai mercati – Rc – o tecnocratica, penalizzante per il Paese – Msi e, successivamente, Fi e Ln. Tuttavia, questa opposizione non si tradusse mai in un’aperta rottura verso la Ue o la moneta unica: solo a cavallo tra il 1997 e il 1998, in seguito alla delusione per l’ingresso italiano nella terza fase dell’Uem – che privava le richieste di indipendenza del maggior presupposto politico ed economico, la Ln lasciò l’euroscetticismo per assumere posizioni dichiaratamente antieuropee[48]. b) tale divisione, non ricadendo per intero in un determinato segmento della linea destra-sinistra, fu destinata a ripercuotersi sul grado di coesione europeistica delle coalizioni che si contesero il primato alle elezioni politiche del 1994. Per il centro-destra, la divisione sul Tue e sul processo d’integrazione fu tra le motivazioni che portarono la Ln al ritiro della fiducia al Governo Berlusconi nel dicembre 1994. Solo con la conferenza programmatica di An, che segnò, tra l’altro, l’ingresso dell’ex Msi nell’area dei partiti conservatori europei – sancita dall’alleanza al Pe con i gollisti – e con la linea euroscettica/antieuropea della Ln, si raggiunse nel centro-destra una certa omogeneità. Nel centro-sinistra l’approccio all’Europa unita rimase fonte di inconciliabilità tra l’europeismo più tradizionale che unì il Pds al Ppi, e quello di Rc, che rimase fermamente contraria a Maastricht – salvo poi approvare tutti i provvedimenti del Governo Prodi tesi a far rispettare all’Italia i parametri del Tue; c) tuttavia, al di là delle contraddizioni appena sottolineate, nel biennio 1992-1994 furono poste le basi affinché, sulle tematiche europee, anche in Italia si avviasse un processo di lenta bipolarizzazione, con un centro-destra più favorevole alla valorizzazione degli elementi intergovernativi e alla critica verso le istituzioni e le politiche europee, e un centro-sinistra maggiormente sostenitore ella democratizzazione e dell’approfondimento del processo di unificazione.uQuanto ripo
[1] Ariane Landuyt, Introduzione, in Id., a cura di, Idee d’Europa e integrazione europea, il Mulino, Bologna, 2004, pagg. 7-8.
[2] Lucio Levi, Introduzione, in L.Levi, U. Morelli, L’unificazione europea. Cinquant’anni di storia, Celid,Torino, 1994, pag. 7
[3] Mario Monti, Intervista sull’Italia in Europa, a cura di, F. Rampini, Laterza, Roma-Bari, 1998, pag. 23.
[4] Maurizio Cotta, Pierangelo Isernia, Luca Verzichelli, Introduzione, in Id., a cura di, L’Europa in Italia, il Mulino, Bologna, 2005, pag. 8.
[5] Le problematiche di politica internazionale non furono però l’unico fattore che concorse a determinare la posizione di ciascun partito in merito all’avvio dell’integrazione europea: è doveroso menzionare sia le esigenze di ricostruzione economica che la necessità di pacificare le popolazioni europee.
[6] Infatti, ricorda Napolitano, il federalismo europeo era visto come “un mito dietro il quale si nascondeva l’adesione del governo guidato dalla Dc al disegno dell’imperialismo americano”, Giorgio Napolitano, Dal Pci al socialismo europeo. Un’autobiografia politica, Laterza, Roma-Bari, 2006, pag. 310. Diversamente, Luciana Castellina sostiene come “molti degli oppositori dell’inizio – certamente il Pci – non erano affatto contrari a una ipotesi di unificazione europea, ma solo a quella che stava prendendo corpo”, Luciana Castellina, Cinquant’anni d’Europa. Una lettura antiretorica, UTET, Torino, 2007, pag. VIII. La posizione di Napolitano sembra più convincente: nel Pci non emerse per un lungo periodo, al di là dei rituali richiami all’internazionalismo, la volontà politica di unificare l’Europa.
[7] Se si eccettua il voto negativo espresso dal Pci sullo SME che allontanò il partito guidato da Berlinguer dalle posizioni della socialdemocrazia europea, e fu aspramente criticato da Altiero Spinelli – eletto come indipendente proprio nelle liste comuniste.
[8] Sul vincolo esterno si vedano, Guido Carli, Cinquant’anni di vita italiana, Laterza, Roma-Bari, 1996, pagg. 8 e 435, Lucio Caracciolo, Euro no. Non morire per Maastricht, Laterza, Roma-Bari, 1997, pag. 57.
[9] Sergio Romano, L’Italia scappata di mano, Longanesi, Milano, 1993, pag. 54.
[10] On. Franco Servello, Atti Legislativi (Aleg), Camera dei Deputati (Cade), XI Legislatura (Leg.), Bollettino Commissioni (Bc), III Commissione (Comm.), 13 ottobre 1992, pag. 15.
[11] Sen. Cesare Pozzo, Aleg, Senato della Repubblica (Sere), XI Leg., Bc, III Comm., 9a seduta, 15 settembre 1992, pag. 6.
[12] On. Sergio Garavini, Aleg, Cade, XI Leg., Assemblea, Discussioni, 3 luglio 1992, pag. 617.
[13] Tale forzatura dei tempi fu riconosciuta anche nel documento col quale la Commissione speciale per le politiche comunitarie concluse l’indagine conoscitiva sull’impatto del Tue in Italia: il tentativo di influenzare il voto francese, “portava a sacrificare una analisi dei contenuti che desse ai soggetti istituzionali e politici piena consapevolezza delle caratteristiche del cambiamento che l’attuazione del Trattato avrebbe avviato nell’Europa comunitaria e all’interno dei singoli Stati”, Aleg, Cade, XI Leg., Documenti, Indagini conoscitive e documentazioni legislative, n. 4, Documento conclusivo, 20 ottobre 1993, pag. 247.
[14] On. Sergio Garavini, Aleg, Cade, XI Leg., Assemblea, Discussioni, 3 luglio 1992, pag. 617.
[15] On. Lucio Magri, Aleg, Cade, XI Leg., Assemblea, Discussioni, 29 ottobre 1992, pag. 5339.
[16] Sen. Ersilia Salvato, Aleg, Sere, XI Leg., Assemblea, 44a seduta, 17 settembre 1992, pag. 106.
[17] On. Claudio Petruccioli, Aleg, Cade, XI Leg., Assemblea, Discussioni, 28 ottobre 1992, pag. 5259.
[18] On. Gianni Magliaro, Aleg, Cade, XI Leg., Documenti, Indagini conoscitive e documentazioni legislative, n. 4, 24 settembre 1992, pag. 49.
[19] On. Maurizio. Gasparri, Aleg, Cade, XI Leg., Assemblea, Discussioni, 7 maggio 1993, pag. 13251.
[20] Maurizio Gasparri, L’Europa affonda, ritorna la nazione, in il Secolo d’Italia, 8 dicembre 1992.
[21] Luca Verzichelli, Niccolò Conti, La dimensione europea del discorso politico in Italia: un’analisi diacronica delle preferenze partitiche (1950-2001), in M. Cotta, P. Isernia, L. Verzichelli, a cura di, L’Europa in Italia, cit., pagg. 102-104.
[22] Marco Formentini, Maastricht apre al federalismo, in Lombardia Autonomista, n. 32, a. X, 4 settembre 1992.
[23] Mario Pirani, L’Italia alle urne dimentica l’Europa, in la Repubblica, 25 marzo 1994.
[24] Piero Ignazi, Politica estera? Dettagli, in il Sole 24 ore, 15 marzo 1994.
[25] “E’ nostro impegno comune lavorare alla realizzazione di un patto unitario, sociale, civile e politico fra i cittadini europei e alla costruzione dell’Unione europea, dell’Europa dei popoli, politicamente coesa, in alternativa all’Europa delle oligarchie e tecnocrazie, a quella dei protezionismi e dei nazionalismi”, Testo del documento sottoscritto da “I Progressisti”, in Liberazione, 4 febbraio 1994.
[26] Fausto Bertinotti, Bertinotti: perché non rispondiamo, in il Sole 24 ore, 26 marzo 1994. La lettera del segretario di Rc era la risposta ad un sondaggio lanciato dal quotidiano finanziario per monitorare i programmi elettorali in vista del voto del 27-28 marzo. L’inciso al quale fa riferimento Bertinotti faceva parte dell’introduzione stessa alle varie domande.
[27] Mozione congressuale “L’autonomia dei Comunisti per l’alternativa anticapitalistica”, riportata in Liberazione, 28 gennaio 1994.
[28] Luciana Castellina, Relazione di Luciana Castellina sulle elezioni europee, in Liberazione, 22 aprile 1994.
[29] Anche se il ruolo giocato dal Comitato promotore, sorto intorno alla rivista “Repubblica Presidenziale”, diretta da Domenico Fisichella, non fu marginale. Nelle “Idee per un manifesto” si affermava come fosse prioritario “il rilancio dell’immagine dell’Italia per entrare in Europa a testa alta. Il crollo della prima Repubblica rischia di precludere il nostro ingresso nella Comunità europea”, Comitato per l’Alleanza Nazionale, Idee per un manifesto, in Repubblica Presidenziale, a. III, n. 2/93, pag. 18.
[30] Assemblea congressuale Msi-dn – Commissione sul ruolo internazionale, “Politica estera: l’Italia sia protagonista”, in il Secolo d’Italia, 29 gennaio 1994.
[31] Art. 1 Costituzione Federale Provvisoria, Pre-congresso Federale della Lega Nord, Assago, 12 dicembre 1993.
[32] Segreteria Politica Federale Lega Nord – Settore Esteri, Programma elettorale, pag. 69.
[33] Tribuna politica europee, 1 giugno 1994, Archivio Multimediale Rai (AmRai), F149605.
[34] Giuseppe Basini, Un’Italia finalmente a testa alta nell’Europa delle patrie, in il Secolo d’Italia, 1 aprile 1994.
[35] On. Mirko Tremaglia, Aleg, Cade, XII Leg., Assemblea, Discussioni, 19 maggio 1994, pag. 138.
[36] Sen. Marcello Staglieno, “L’Italia nel nuovo contesto internazionale”, Tesi congressuale elaborata dalla Segreteria politica/Area esteri, II° Congresso Federale Lega Nord, Bologna, 4-6 febbraio 1994.
[37] Tribuna politica, 26 maggio 1994, AmRai, F102779.
[38] Tribuna politica – Elezioni europee 1994, 6 giugno1994, AmRai, F149625.
[39] Stefano Bocconetti, intervista a Pasqualina Napoletano, Pasqualina Napoletano: “L’Europa dei diritti, non quella delle lobby”, in l’Unità, 5 giugno 1994.
[40] Tribuna politica – Elezioni europee 1994, 8 giugno 1994, AmRai, F149679.
[41] Milano-Italia, 9 giugno 1994, AmRai, F187797.
[42] Alberto Leiss, intervista a Achille Occhetto, “Resto per aprire una nuova fase”, in l’Unità, 5 maggio 1994.
[43] Andrea Manzella, Il valore di questo voto, in la Repubblica, 11 giugno 1994.
[44] “C’è sostanziale continuità con il passato sui grandi ideali (…) ci possono essere, come ci sono, divergenze di opinioni circa le strategie per raggiungere questi grandi ideali (…) l’euroscetticismo è un fenomeno diffuso di cui bisogna tener conto”, Tribune RAI, 30 maggio 1994, AmRai, F102787.
[45] Il senatore di An, Porcari, affermò come “La dimensione politica dell’Unione europea non può prescindere, sotto il profilo economico, da un’attenta valutazione dei nostri interessi concreti, da una valutazione del prezzo che siamo chiamati a pagare per gli impegni assunti e per quelli che dovremo assumere. È lecito calcolare, conti alla mano, i costi ed i benefici derivanti da tali impegni e qui si colloca (…) la riflessione sul trattato di Maastricht (…) è necessaria infatti una rilettura di quei documenti in termini di calcolo costi-benefici, a tutela dei nostri interessi, una rilettura che sia tale però da non compromettere, in ogni caso, il processo di unificazione europea”, Sen. Saverio Salvatore Porcari, Aleg, Sere, XII Leg., Assemblea, 7a seduta, 17 maggio 1994, pag. 14.
[46] Sull’europeismo di Fi Bossi dichiarò: “Al di fuori della Lega non c’è un solo partito che sia europeista”, sostenne Bossi, “e meno che mai può definirsi europeista Berlusconi (…) figuriamoci se Berlusconi vuole un Parlamento europeo (…) in grado di legiferare. Un tale Parlamento sarebbe in grado di ridurgli le televisioni”. E su An invitò “a restar calmi: fino a quando ci sarà la Lega, non bisogna avere alcuna paura del fascismo. La Lega ha mani popolane e dure e i fascisti li soffoca sul nascere”, Bossi: Berlusconi non è europeista, AgeLega, a. 6, n. 207, 30 maggio 1994.
[47] Nel corso del dibattito sulla fiducia al Governo Berlusconi, il segretario leghista affermò: “Sotto certi aspetti la Lega onora oggi, con la sua presenza nell’attuale Governo, la memoria di un grande europeista italiano, Altiero Spinelli”, On. Umberto Bossi, Aleg, Cade, XII Leg., Assemblea, Discussioni, 19 maggio 1994, pag. 118.
[48] Racchiuse nello slogan “se l’Europa non riconosce la Padania, la Padania non riconosce l’Europa”.