Quando e come cinema e fotografia hanno cominciato ad occuparsi della Shoah?
La fotografia e il cinema hanno avuto due momenti di avvicinamento all’argomento Shoah diversi: la fotografia ha avuto un avvicinamento più immediato rispetto agli accadimenti perché al seguito delle truppe americane in Europa c’erano dei grandi fotografi, come Lee Miller, i quali sono entrati nei campi di sterminio subito dopo la liberazione, cioè dopo la caduta del nazismo…
Lo stesso si può dire per alcune troupe cinematografiche, sempre al seguito delle truppe americane, che hanno girato delle sequenze alla liberazione dei campi. Dopodichè, una volta che c’è stata la liberazione e la sconfitta del nazismo, è subentrato una sorta di tabù, di difficoltà anche solo a parlare di questo argomento, specie in determinati paesi europei. Per ciò che riguarda il cinema di finzione dunque ci sono stati anni di silenzio assoluto.
Il cinema ha patito molto questo problema?
Si, senz’altro. D’altra parte, non si può neanche considerare un problema perché è naturale che un evento di tale portata, un genocidio messo in atto nel cuore dell’Europa colta, del Vecchio Continente, abbia generato una sorta di necessità di distacco dal punto di vista emotivo. Ciò ha determinato una specie di pausa necessaria, che, lentamente, ha lasciato il posto alla riflessione espressiva.
Quale è stato il primo passo, in tal senso?
Certamente il primo passo è stato il film di Alain Resnais, il documentario Notte e nebbia (1956). Ci sono stati, successivamente, anni in cui il cinema che si occupava della Shoah è passato attraverso percorsi laterali, poi, negli ultimi tempi, abbiamo assistito ad una escalation ancora tutta da analizzare.
Riguardo a Notte e nebbia, ma anche a Kapò di Gillo Pontecorvo, si può dire che entrambi i film hanno degli eccessi dovuti alla poca distanza storica dall’avvenimento?
Certo. Tra l’altro, Kapò (1959) generò, già all’epoca della sua realizzazione, delle polemiche per il famoso movimento di macchina, il carrello in avanzamento drammatico spettacolare realizzato dal regista sulla prigioniera che va a suicidarsi sul filo spinato elettrificato. Kapò ha anche un eccesso di retorica determinato da un uso ingombrante della musica, ma questo era inevitabile, dal punto di vista espressivo, perché erano le prime tappe di avvicinamento a questo argomento e agiva ancora una parte fortemente emotiva. Questi meccanismi hanno spinto anche un autore, di solito molto rigoroso, come Pontecorvo ad esprimersi attraverso una parte emotiva che, nel caso del carrello incriminato dai Cahiers du Cinéma e da Jacques Rivette, oltrepassa, forse, veramente la misura.
Selezionando alcuni film e lasciandone fuori altri, che non si occupano direttamente della Shoah ma di ciò che l’ha preceduta come Concorrenza sleale (2001) di Scola, non si rischia di isolare la soluzione finale dalle sue cause?
Potrebbe esserci questo pericolo ma, facendo riferimento, per esempio, al citato Concorrenza sleale, direi che si tratta di un film dignitoso ma che, dal mio punto di vista, concede troppo a quell’ impostazione vicina alla commedia all’italiana, controproducente per quanto riguarda questo tipo di argomento all’interno del cinema. Comunque, la mia scelta non è stata quella di fare un libro che comprendesse tutto e che storicizzasse nel cinema l’argomento. Il mio è stato, semplicemente, un tentativo, attraverso alcuni percorsi precisi, di rintracciare alcuni film, alcuni autori, che, più che rappresentare la Shoah, o ciò che l’aveva preparata, la evocassero in senso filosofico.
Accanto a “evocazione”, un’altra parola-chiave è “identità”. In che senso?
La parola “identità” c’entra moltissimo in queste tematiche relative alle connessioni tra cinema e Shoah, in primo luogo, perché uno degli obiettivi del nazismo era la cancellazione del popolo ebraico a partire dalla cancellazione dell’identità degli individui. Per questo, i deportati venivano privati del loro nome, ridotti a numeri, senza più dignità, quasi allo stato animale. Dunque, il problema dell’identità è centrale: l’ideologia del nazismo nei confronti della soluzione finale era, non solo allontanare il popolo ebraico dal cuore dell’Europa, ma privare ogni singolo ebreo, prima ancora di ucciderlo, della sua identità. Questa è una tematica presente in molti film, perché ci sono personaggi di alcune pellicole che hanno dovuto subire sulla propria pelle questo meccanismo e sono stati segnati profondamente per tutta la vita.
Facendo riferimento a Il portiere di notte (1974) di Liliana Cavani, il nazismo può essere descritto come un complesso di ingranaggi autistico e generatore di perversità sessuali…
Questo è un altro aspetto della Shoah che emerge chiaramente dal film della Cavani: il meccanismo, anche organizzativo, che portò all’applicazione della soluzione finale fu un meccanismo autistico, chiuso in se stesso e che, quindi, determinava comportamenti compulsivi, anche a livello individuale. Il problema è che questo meccanismo autistico si sia ingigantito in maniera spaventosa nell’Europa della seconda guerra mondiale, inglobando, al suo interno, intere popolazioni, intere fasce di popolo. Non solo in Germania: il razzismo contro gli ebrei è stato qualcosa che è venuto a catena in tutta Europa.
Alcuni film, come Music box (1989) di Costa Gavras, ma anche il più recente My Father (2006) di Egidio Eronico, raccontano padri e figli, all’interno della Shoah. In che modo?
Music box è estremamente interessante perché parla della mimetizzazione, non solo dell’antisemitismo, delle idee naziste, all’interno della società capitalistica, occidentale, americana. I protagonisti principali sono un’avvocatessa di origine ungherese e il padre immigrato che, ad un certo punto, si rivela per quello che è stato in gioventù: un gerarca nazista, massacratore di ebrei. Questa rivelazione cambia completamente i rapporti tra padre e figlia! Anche questo è un film sull’identità perché la personalità dell’avvocatessa americana si definisce proprio nel momento in cui allontana da sé il padre, non solo fisicamente.
E’ così anche in My Father?
Il meccanismo psicologico che si instaura tra Josef Mengele e suo figlio è qualcosa di molto più contorto e malato, al punto che il regista fa vedere più volte il figlio nell’atto di voler uccidere il padre. Il percorso del figlio di Mengele è più complesso perché passa attraverso la volontà di vivere fino in fondo il senso di colpa di essere, appunto, il figlio di un tale orrendo personaggio. L’atto dell’uccisione del padre sarebbe per lui liberatorio, mentre il protagonista intende vivere, fino alla fine, il senso di colpa e assumersi idealmente quelle responsabilità che, in Italia, gran parte della popolazione non si è mai assunta.
E’ il caso, ad esempio,delle leggi razziali decretate nel 1938 dal regime fascista e delle deportazioni degli ebrei italiani nei campi di sterminio…
In Germania, questa presa di coscienza c’è stata ed è stata anche molto forte. In Italia si fatica ancora a dire che il nostro è stato il paese delle leggi razziali e che si sono perseguitati gli ebrei, mentre si tratta di un fatto preciso, testimoniato da eventi e documenti. Ma, non si sa perché, da noi se ne parla poco, anzi, si tende a non parlarne proprio!
In Schindler’s List (1993) di Steven Spielberg, una bambina urla, con molta veemenza “Andate via, giudei”, a dimostrazione di un sentimento malato e diffuso che albergava nelle famiglie comuni, negli animi dei semplici cittadini, perfino nei bambini. Non è, un po’, quello che accade oggi nei confronti delle minoranze?
Certamente, questa frase va attualizzata nei confronti di quelle etnie, di quelle popolazioni che adesso sono al centro dell’attenzione e che, per certi versi, stanno subendo determinati trattamenti. Accanto a questi sentimenti nei confronti dei rom, dei romeni, ecc, continua, però, ad esistere in maniera nascosta, ma non meno pericolosa, il problema dell’antisemitismo. Esso è ancora fortemente presente nella nostra società: è solamente mascherato e attenuato, anche in determinati settori, solo per convenienze politiche.
Nel film di Spielberg, il fantasma dell’antisemitismo si dilegua attraverso la conoscenza dell’altro…
Questo è il cuore del film che,anche da parte della critica, è stato un po’ compreso male perché si è parlato molto delle sequenze di ricostruzione dei campi o della liberazione del ghetto di Cracovia: tutte scene che, certamente, hanno una loro importanza ma il cuore tematico del film è un altro. E’ l’abbattimento del pregiudizio attraverso il contatto umano, la conoscenza, il rapporto quotidiano, l’abitudine a parlarsi. Questo è il cuore del film, il resto è solo rappresentazione!
Cosa pensa riguardo all’atteggiamento della Chiesa cattolica? Il film Amen (2002) di Costa Gavras, offre l’esempio positivo di un sacerdote, ma si tratta di una scelta individuale…
Questa è una questione estremamente complessa: tra l’altro, gli storici se ne occupano con molta attenzione! Io tenderei a non esprimermi con posizioni nette. Certamente, esiste un antisemitismo di carattere cristiano che si perde nella storia però, facendo riferimento al film, Costa Gavras mostra, appunto, un prete cattolico che prende coscienza e cerca di far sì che le cose cambino. Ed oggettivamente ha destato qualche perplessità l’atteggiamento del Vaticano. Però, sinceramente, questa questione la lascerei più agli storici…
Rosenstrasse (2003) di Margarethe Von Trotta mostra un manipolo di mogli che riesce ad ottenere la scarcerazione dei mariti, prima della deportazione. Allora, era possibile fare qualcosa?
Anche questo è un discorso importantissimo perché legato proprio allo sterminio concreto che fu effettuato nei campi. Nel film di Margarethe Von Trotta, venti mogli “matte” si mettono sotto il carcere e, alla fine, riescono in quello che sembrava impossibile. Che significa questo? Non è vero che le popolazioni civili non avessero la possibilità di far sentire la loro voce contro il nazismo, così come non è vero che i militari tedeschi dovevano a tutti i costi obbedire a ordini folli e criminali. Chi l’ha fatto, come Eichmann, ha agito con la logica dell’adesione totale e colpevole alle idee deliranti e abominevoli del nazismo, oppure semplicemente, come sostenuto dal cineasta israeliano Eyal Sivan, per una logica di raccapricciante attitudine all’obbedienza gerarchica sul posto di lavoro. Chi facilitava la deportazione degli ebrei nei campi di sterminio evidentemente non si poneva il problema delle conseguenze dei suoi atti amministrativi, organizzativi e burocratici. Ciò è terribile e spaventoso, poiché anche mettere un timbro su un documento rappresentava all’epoca una condanna a morte per un individuo totalmente indifeso. Il problema della complicità delle popolazioni civili, dei semplici soldati, della gente comune, è stato, sicuramente, un elemento mostruoso quanto l’odiosa follia dei gerarchi.
Un discorso a parte va fatto per Roman Polanski: tutto il suo cinema è una metafora della Shoah. O no?
Fin dal suo primissimo cortometraggio, Il crimine, in cui c’è una persona che dorme in una stanza e un uomo che entra improvvisamente e la uccide, senza alcun motivo, è possibile comprendere come lo strato profondo di tutte le storie che Polanski racconta sia legato in maniera inequivocabile alla questione della Shoah, ai temi della persecuzione e della fuga. Tale motivo è rintracciabile in tutti i suoi film, anche in quelli apparentemente lontani da questo argomento, come Repulsion(1965) o Rosemary’s Baby (1968).In L’inquilino del terzo piano (1976), la metafora è leggibilissima, fino ad arrivare a Il pianista (2002), che rappresenta l’apoteosi di questo percorso, che poi riparte con Oliver Twist (2005). Quest’ultimo, la cui esistenza è caratterizzata da solitudine, abbandono, violenza, sopraffazione, perdita di identità, rappresenta esattamente l’infanzia di Polanski nella Polonia occupata dai nazisti.
Passando al documentario, la memoria della Shoah è stata affrontata con un approccio totalmente diverso da Claude Lanzmann con l’opera Shoah (1985) e da Steven Spielberg con il lavoro svolto dalla Shoah Foundation…
Spielberg e Lanzmann sono due personaggi con una formazione completamente diversa: il primo è un cineasta, mentre il secondo nasce come filosofo alla corte di Sartre e della rivista Les Temps Modernes. Dunque, hanno un’impostazione completamente diversa: esclusivamente cinematografica, nel caso di Spielberg, filosofica, applicata al linguaggio del cinema, nel caso di Lanzmann. La spaccatura profonda che c’è tra Lanzmann e Spielberg è proprio sulla questione della Shoah Foundation di Spielberg, cioè sulla catalogazione asettica e fredda delle esperienze dei sopravvissuti. Secondo Lanzmann, queste esperienze non aggiungono nulla a quanto si sa della Shoah: in sostanza, Lanzmann sostiene che il lavoro di Spielberg sia inutile! In effetti, il compito di chi si accosta alla questione della Shoah utilizzando il cinema dovrebbe essere quello di riflettere sulle motivazioni profonde che hanno portato a questa gigantesca tragedia. Lo si può fare, secondo Lanzmann, non attraverso la ricostruzione o la catalogazione, ma attraverso la riflessione filosofica e l’emersione della memoria.
Il lavoro svolto dalla Shoah Foundation è abbastanza noto, quello di Lanzmann no…
Fino all’anno scorso, c’era stato un passaggio su Rai 3 a Fuori Orario, che l’aveva trasmesso tutta la notte, e poi, era stato visto in qualche Festival ma, per il resto, era introvabile. Fortunatamente, adesso, questo vuoto è stato colmato!
Nel libro, si dice che non servono ulteriori documenti per conoscere o comprendere meglio la Shoah. Perché?
A poco serve vedere e rivedere, o anche trovare, specie nella società contemporanea, in cui la violenza, il sangue, la morte sono rappresentati in mille modi, anche in tv, nuovi documenti che mostrino gli interni dei campi di sterminio, i corpi ammassati, le fosse comuni. Il problema, come dicevamo, è quello della memoria, che è un’altra cosa e che lavora a livello più profondo. Qui si innesta un altro problema: nella società attuale si sta procedendo a quella che si potrebbe definire una “museizzazione istituzionalizzata” della Shoah. Quando una “cosa” viene messa in un museo, diventa molto distante da chi guarda!
Cosa bisognerebbe fare?
Bisogna lavorare in un altro senso: un giovane, un adolescente non deve vivere con distacco questa esperienza ma attraverso l’emersione della memoria. In questo senso, il cinema, che è un linguaggio fruibile da tutti, può essere fondamentale. Però, c’è cinema e cinema: La vita è bella (1997) di Benigni non è Shoah di Lanzmann…
Perché giudica negativamente il film di Benigni?
La vita è bella, secondo me, non ha alcun merito perché sono più gli elementi fuorvianti e pericolosi rispetto a quelli positivi. Ciò che mostra Benigni è la visione dei campi di sterminio attraverso gli occhi di un bambino deportato che crede di partecipare a un gioco. Ma una cosa è lo sguardo del bambino, un’altra è quello dello spettatore. Per una questione morale, allo spettatore dovrebbe essere mostrato ciò che lo sguardo del bambino non riesce a percepire. Invece, Benigni fa coincidere perfettamente i due sguardi, con il risultato che molti spettatori hanno visto una dimensione concentrazionaria del tutto falsa ed edulcorata. Benigni è, certamente, un personaggio interessante, divertente ma l’operazione è sbagliata!
Tra l’altro, lei scrive: “Quello di Wajda (Dottor Korczak, 1991), è uno dei più importanti lungometraggi di finzione sulla Shoah, opera che però è sempre più dimenticata perché nulla può rispetto alle immense macchine industriali spielberghiane o al sistema di marketing benigniano…”
Improvvisamente, negli ultimi anni, da una situazione di non frequentazione del cinema nei riguardi della Shoah, è cambiato qualcosa: sono apparsi La vita è bella, Train de vie (1999) di Radu Mihaileanu, poi tutta una serie di film che oserei definire commerciali. Il cinema, specie quello americano, mai casualmente comincia a sfornare film su determinati argomenti perché c’è, nella cinematografia americana, una programmazione commerciale determinata dal marketing. Allora, io mi domando: “E’ mai possibile che un argomento come la Shoah possa entrare in maniera così leggera in un meccanismo di marketing? E’ giusto che i sopravvissuti e i parenti di coloro che sono morti nei campi siano sfruttati da un’industria cinematografica che utilizza la Shoah per scopi commerciali?”
Questa è, secondo me, una domanda che ci si pone poco. Proprio per questo, chi si occupa di cinema, ma anche gli storici che utilizzano il cinema come forma di percorso, devono porre un confine tra opere che degnamente si occupano della Shoah e quelle che utilizzano questa immane tragedia per far soldi.
Questo discorso vale anche per la fotografia?
Nella fotografia, c’è il problema dello sguardo del fotografo: c’è, spesso, una tendenza all’estetizzazione della Shoah, attraverso la rappresentazione del campo di sterminio. Se guardiamo, per esempio, le immagini di Michael Kenna, ci sono delle operazioni estetiche sul campo di sterminio. Questo, secondo me, sfiora l’immoralità! Cosa che non avviene nell’opera di altri grandi fotografi come l’israeliano Simcha Shirman. C’è in Israele una generazione di artisti che lavora su questa questione accostandosi al procedimento intellettuale e creativo di Lanzmann.
Notevole sembra anche il lavoro di Naomi Tereza Salmon che ha documentato la Shoah attraverso gli oggetti ritrovati nei campi…
Questa è un’operazione interessante e che non bisogna sbagliare ad interpretare! Qualcuno ha anche detto che gli oggetti, presi ed esposti, possano risultare dei feticci. In realtà, lei fa un lavoro diverso: mostra come sei milioni di ebrei fossero sei milioni di individui, con le loro storie, i loro sentimenti, i loro dolori, le loro speranze. Gli oggetti che riguardano le loro vite ci fanno capire che queste persone erano in carne ed ossa, non erano dei fantasmi, e sono stati strappati alle loro prospettive esistenziali in una maniera folle!
Nel libro, si parla di un corto di Christian Boltanski, L’homme qui tousse (1969), che non fa alcun riferimento alla Shoah, ma la evoca attraverso l’agonia di un individuo. Ancora una volta, torna la parola “evocazione”…
Boltanski è uno di quegli artisti che lavora sulla stessa lunghezza d’onda di Lanzmann, cioè sul piano dell’evocazione. Tra l’altro, L’homme qui tousse è un’opera giovanile: Boltanski ha continuato a lavorare su questo argomento e la memoria continua ad essere, ancora oggi, l’oggetto principale della sua arte.
Una conclusione?
Il problema è, sempre, la rappresentazione: nel momento in cui rappresenti qualcosa, la consegni ad un’altra dimensione, che non è più quella della memoria, ma della ricostruzione e, inevitabilmente, della spettacolarizzazione.