La storia delle regioni nell’ultimo seminario nazionale della Sissco

Il secondo incontro del Seminario nazionale sulla storia italiana del secondo dopoguerra (1943-1994), organizzato a Bologna, il 12-13 marzo 2010, dalla Società italiana per lo studio della storia contemporanea (Sissco), ha spostato l’attenzione sugli anni 70 e 80, dedicando una sessione ai temi della storia regionale nell’Italia «dopo il miracolo». Il titolo del panel proponeva un intreccio tra aspetti di storia economica, istituzionale e politica (L’intervento pubblico nelle trasformazioni economiche delle regioni tra consolidamento del ceto politico locale e consenso al governo), ruotando intorno alla cesura del 1970. Una data periodizzante nella storia dell’Italia repubblicana, come ha rimarcato con forza Mariuccia Salvati, discutendo e arricchendo con le sue osservazioni i cinque “casi” di studio proposti da David Celetti, Tommaso Baris, Francesco Di Bartolo, Michele Romano e Carlo De Maria.

 

Nelle parole di Salvati, la discontinuità rappresentata dall’introduzione delle regioni a statuto ordinario va misurata a partire dalla consapevolezza che, da quel momento, la distribuzione del denaro pubblico non sarebbe più passata esclusivamente dalla «filiera centrale» (governo, partito nazionale, enti pubblici), ma avrebbe riconosciuto una «articolazione territoriale». E ciò ha portato a un cambiamento radicale della storia del nostro paese e delle sue realtà territoriali, anche nel senso ‒ non bisogna nasconderlo ‒ di una maggiore frammentazione, tanto che non sembriamo più in grado di darci una solida rappresentazione nazionale (una difficoltà palesata dall’ormai prossimo 150° anniversario dell’unità d’Italia).

Le prime tre relazioni, lette da Celetti, Baris e Di Bartolo, hanno affrontato il blocco cronologico 1950-70, indagando tre aree geografiche nelle quali la Democrazia cristiana svolse un ruolo essenziale nella transizione dalla società agricola a quella industriale. Se è vero che i meccanismi di attuazione sul territorio furono diversi, è altrettanto vero che essi funzionarono sempre attraverso una «cerniera politica» che aveva il suo perno al centro: enti pubblici e partiti costituivano i grandi strumenti di tipo centrale, nazionale, attraverso i quali passava la distribuzione di lavoro e la raccolta di consenso.

Entrando nel dettaglio, l’intervento di David Celetti (Una Cassa del Mezzogiorno per il Veneto bianco. Appartenenza politica ed industrializzazione diffusa negli anni Sessanta e Settanta) ha analizzato il contesto economico regionale del Veneto, dove all’inizio degli anni 60 ‒ di fronte ad acute tensioni sociali e a sacche di estrema povertà ‒ alcuni esponenti democristiani chiesero un piano di intervento statale, capace di promuovere l’attività manifatturiera con particolare riguardo alla piccola imprenditoria. Si parlava di un progetto di «cambiamento nella tradizione», nel quale lo sviluppo industriale non alterasse valori e consuetudini di una società rurale che si era dimostrata fedele alla linea politica centrista. «Lo strumento che avrebbe permesso di realizzare un simile progetto venne individuato ‒ secondo le parole di Celetti ‒ nell’erogazione “a pioggia” dei contributi pubblici previsti dalla legge del 1957 per lo sviluppo delle aree “depresse”. Maturò così l’idea di creare una “cassa del Mezzogiorno” per il Veneto, esplicitamente finalizzata alla creazione di piccole e medie imprese nel contesto rurale di tanti comuni della regione». Nella fase attuativa, un ruolo fondamentale venne ricoperto dai parroci, che incoraggiarono iniziative locali, anche se condotte da imprenditori improvvisati e privi di esperienza, garantendo agevolazioni di varia natura. I parroci, insomma, ricoprirono spesso un ruolo di tramite tra i nuovi imprenditori e il notabilato politico cattolico. Fabbriche e “capannoni” cominciarono a sorgere dovunque, solitamente concentrati in settori a bassa tecnologia e alta intensità di lavoro, sostenuti dalla mobilitazione di una manodopera quasi sempre familiare. Un contesto nel quale sopravvivevano aspetti di tipo precapitalistico, come appunto quelli legati al mondo familiare-rurale, e dove l’assenza di una pianificazione urbanistica portò velocemente al dissesto territoriale che oggi conosciamo.

La relazione di Tommaso Baris (Il ceto politico del Lazio meridionale tra centro e periferia: dinamiche della rappresentanza e costruzione del potere, 1946-1973) si è concentrata sul territorio di Frosinone, dove in un contesto agricolo caratterizzato da una proprietà «frazionatissima», la Dc si affermò, fin dalle elezioni comunali del 1946, come il partito del mondo contadino. A partire dagli anni 50, grazie alla Cassa del Mezzogiorno, lo Stato investì in provincia di Frosinone ingenti risorse finanziarie, che portarono alla realizzazione di numerosi interventi infrastrutturali (come la costruzione degli acquedotti, già annunciata negli anni del fascismo, ma mai realizzata). L’intervento pubblico fu «lo strumento principe di creazione del consenso» e venne adoperato da Campilli, Andreotti e Restagno per «legare saldamente gli orientamenti dell’elettorato ciociaro alla Dc». Una formula che venne rinnovata un decennio più tardi, quando le elezioni politiche del 1963, segnando una flessione del partito di Moro e una avanzata delle sinistre, sembrarono mettere in pericolo l’egemonia scudocrociata: «Occorreva dunque ‒ secondo la ricostruzione di Baris ‒ un nuovo progetto di rilancio, che fu trovato nella scelta in favore dell’industrializzazione. A questo punto il raggruppamento andreottiano si fece sponsor del progetto di industrializzazione della provincia, non esitando a svolgere una vera e propria funzione di mediazione tra la dimensione locale e quella nazionale». L’apertura dell’Autostrada del Sole e il suo passaggio per Frosinone e Cassino accrebbero, insieme ai finanziamenti pubblici, la capacità attrattiva esercitata da quel territorio, dove nel 1973 aprì anche uno stabilimento della Fiat. Tutto questo corrispose a un rilancio elettorale della Dc, che sfiorò nelle politiche del 72 la maggioranza assoluta.

La terza relazione, quella di Francesco Di Bartolo (Città e campagna nella Sicilia sud orientale, 1962-1970), ha toccato il caso di Gela e le profonde contraddizioni che l’hanno segnato. Infatti, mentre lo scopo originario era di favorire una diffusa industrializzazione con la nascita di piccole imprese che lavorassero a fianco dell’industria petrolchimica, si assistette invece a uno snaturamento del processo di industrializzazione in buona parte dovuto al «prezzo politico che la Dc fu costretta a pagare dovendo offrire, nell’immediato, risposte a quei gruppi sociali che le avevano offerto il loro consenso». Si apriva il «torbido sistema degli appalti», caratterizzato dalle infiltrazioni mafiose e da forme di speculazione tra soggetti appaltanti, appaltatori e classe politica. In questo ambito, la Regione Sicilia sfruttò, a piene mani, «l’uso delle risorse finanziarie provenienti dal fondo della solidarietà nazionale e dagli interventi straordinari della Cassa per il Mezzogiorno», costruendo le basi del consenso in un meccanismo di scambio reciproco.

Le ultime due relazioni, quelle di Michele Romano e Carlo De Maria, hanno spostato in avanti l’arco cronologico, trattando gli anni 1970-90 e individuando, quindi, dopo il 1950-70, un secondo blocco temporale all’interno del panel. Se dei caratteri fondamentali della «svolta» del 70 si è già detto, per quanto riguarda il terminus ad quem è appena il caso di ricordare che la legge sulle autonomie locali del 1990 ha rappresentato un’altra cesura, introducendo un profondo mutamento della forma di governo locale, in un contesto nazionale che vedeva la crisi e la fine dei partiti tradizionali.

La relazione di Romano (Sviluppo e autonomie locali nel Mezzogiorno. La Provincia di Brindisi, 1970-1990) ha mostrato comel’attuazione delle regioni a statuto ordinario abbia implicato novità importanti anche sulle funzioni istituzionali e sulle prerogative dell’ente provincia. I temi sono quelli del «rapporto Stato-regioni-enti locali» e della persistente «impronta statalista», sostanzialmente mutuata anche dalle regioni. Commentando i contenuti del DPR 616/1977, Romano ne rileva, ad esempio, la nebulosità per quanto riguarda le competenze assegnate alle province (in materia di inquinamento, viabilità, acquedotti, lavori pubblici e pesca). Una incertezza normativa di fronte alla quale le province rischiarono costantemente di essere fagocitate dalla «esplicita volontà di accentramento esercitata dalla Regione». E tutto questo mentre nel dibattito nazionale si riaccendeva la discussione intorno all’abolizione dell’ente provincia.

Secondo Romano, a partire dagli anni 70 e almeno fino agli anni 90, si assistette a uno «svuotamento» del ruolo ricoperto in passato dagli enti provinciali (con riferimento all’esclusiva ed essenziale azione di intermediazione fra Stato e comuni) e gli anni passarono senza che arrivasse «l’agognata legge sul riordino delle autonomie locali», che avrebbe dovuto recepire il principio del ruolo di «ente intermedio di programmazione» spettante all’istituzione provinciale. Nel caso specifico della provincia di Brindisi, ha concluso il relatore, «ciò ha vanificato occasioni importanti per la tutela del territorio, lo sviluppo dell’economia, la crescita sociale».

Il panel si è chiuso con la relazione di Carlo De Maria (Nascita e sviluppo dell’ordinamento regionale in Italia. Il “caso” della Regione Emilia-Romagna, 1970-1995), che ha preso le mosse dai risultati di un importante seminario svoltosi nel giugno 2009 presso il Dipartimento di studi sulla comunicazione dell’Università della Tuscia, promosso tra gli altri da Maurizio Ridolfi, Giovanna Tosatti e Pier Luigi Ballini. In quella occasione, era emerso un quadro dettagliato, regione per regione, sullo stato delle fonti relative all’esperienza regionale, nell’ambito del quale De Maria si era occupato proprio della ricognizione relativa all’Emilia-Romagna, mettendo in evidenza una situazione incoraggiante per quanto riguarda il riordino e l’inventariazione delle carte prodotte dall’ente regione. Da tempo, infatti, su sollecitazione della Soprintendenza archivistica, è stato allestito un archivio storico, con sede autonoma e servizio al pubblico regolare (http://www.self-pa.net/CorsiPubblici/archivio/index.htm).

Attraverso le carte della Presidenza di Giunta, De Maria si è soffermato sul frangente dei primi anni 80, quando il dibattito interno all’amministrazione regionale sembra giungere a un momento decisivo. L’inizio della terza legislatura (1980-85) segnava la fine del momento di rodaggio della nuova istituzione, in un momento nel complesso favorevole all’Emilia-Romagna e alla sua economia: in quegli anni gli economisti parlavano di fallimento del modello economico torinese (produzione di massa standardizzata) e di vittoria del modello emiliano (produzione specializzata, piccole-medie aziende, collaborazione con il sindacato).

Sono due le parole chiave a emergere nel dibattito che coinvolgeva, in quel frangente, i vertici regionali: «autonomia» e «programmazione», nella consapevolezza che l’identità e la caratterizzazione dell’ente regione risiedesse ‒ secondo le parole degli amministratori ‒ proprio «nel metodo della programmazione», visto come «il modo veramente nuovo e originale di essere della Regione». Del resto, non si pensava più, come negli anni 60, a una programmazione «onnicomprensiva», che pretendesse di ridisegnare l’assetto sociale ed economico, sostituendosi al mercato, ma si ricercava una programmazione «possibile», attenta alla complessità dei bisogni sociali.

Contestualmente, le province sarebbero state rafforzate e trasformate da «enti settoriali» in «enti generali», incaricati di articolare sul territorio la programmazione regionale. Si proponeva, dunque, di fare marcia indietro rispetto all’istituzione dei comitati comprensoriali (1975) e di affidarne le funzioni di coordinamento alle province, sempre in attesa di un provvedimento legislativo che riordinasse nel suo complesso il sistema delle autonomie (nel novembre 1979 il ministro della Funzione pubblica Giannini aveva presentato in Parlamento un “Rapporto sui principali problemi dell’amministrazione dello Stato”, che andava appunto in quella direzione).

Nel corso degli anni 80, con il declino politico e culturale dell’idea di programmazione, è venuto probabilmente meno il motivo principale di identità dell’ente regione, mentre è rimasto il cosiddetto «neocentralismo regionale». Ricominciare a parlare di programmazione, soprattutto per quanto riguarda la tutela e la valorizzazione delle risorse naturali ed energetiche, sembrerebbe oggi indispensabile.

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    By: Carlo De Maria

    Carlo De Maria, Dipartimento di Discipline storiche, antropologiche e geografiche dell’Università di Bologna. E’ studioso del socialismo, dell’associazionismo popolare laico e cattolico, delle autonomie locali tra Ottocento e Novecento e di alcuni aspetti della storia istituzionale e sociale del fascismo. Fra le sue pubblicazioni Alessandro Schiavi. Dal riformismo municipale alla Federazione europea dei comuni, Bologna, Clueb, 2008 e Andrea Costa e il governo della città. L’esperienza amministrativa di Imola e il municipalismo popolare (a cura di, Reggio Emilia, Diabasis, 2010)

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    Il “modello emiliano” nella storia d’Italia

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