1. Premessa.
Il cosiddetto “modello emiliano” rappresenta probabilmente la parte migliore del patrimonio culturale della sinistra italiana dal secondo dopoguerra a oggi, ma affonda le radici più indietro nel tempo, e precisamente nel socialismo autonomista e decentrato di fine 800. Le origini del “modello emiliano” sono rintracciabili, infatti, nel socialismo dei Costa, dei Prampolini, dei Massarenti e risalgono, dunque, a una stagione nella quale il movimento di emancipazione costruì occasioni di inclusione e partecipazione popolare più incisive di quelle previste dai governi liberali[1]. A fronte della ristretta natura di classe che aveva caratterizzato la causa patriottica durante il Risorgimento, il municipalismo popolare fu capace ‒ nei decenni a cavallo del 1900 ‒ di dare maggior respiro e freschezza a istituzioni nate, con l’Unità, su una ristretta base censitaria[2]. Questa raccolta di energie nuove, realizzatasi a livello locale, costituisce uno dei caratteri peculiari della storia d’Italia e coincide con l’implantation del “modello emiliano”, che si nutre dello scambio continuo fra amministrazioni comunali e società scaturito dalla riforma elettorale del 1889. I “laboratori” socialisti di Imola e Reggio Emilia diedero inizio alla storia di un modello culturale, politico e amministrativo caratterizzato da un forte tessuto associativo, da virtù civiche e capacità organizzative, da una attenzione alla cittadinanza sociale che si declinò in forme avanzate di welfare locale.
Nonostante i decenni tra le due guerre mondiali sembrassero liquidare, in Italia e in Europa, questo modello di sviluppo decentrato (con l’affermazione dello Stato come gestore della società) e il fascismo lasciasse nel nostro paese pesanti eredità in termini di crescita degli apparati e concentrazione del potere, è ormai assodato che la storia dell’Italia repubblicana debba necessariamente passare attraverso una viva rappresentazione della sua territorialità, richiamando l’attenzione sulla complessa articolazione del civismo repubblicano. Approfondendo l’analisi a livello regionale, emerge ad esempio l’immagine di un Partito comunista per nulla monolitico, ma anzi permeabile alle diverse tradizioni locali[3].
Vale la pena insistere su questo punto. Dopo che, negli anni 20 e 30, la violenza e la forza di attrazione esercitate dallo Stato fascista avevano schiacciato le pratiche di autogestione e soffocato l’autonomia degli enti locali, uno dei caratteri di originalità del Partito comunista fu la capacità di recuperare, nel secondo dopoguerra, la tradizione del socialismo emiliano, sottraendola perfino al PSI e facendola propria[4]. Lungo gli anni Cinquanta, il “modello emiliano” si arricchì di istanze provenienti dal confronto/scontro con il cattolicesimo sociale (Dossetti, poi Gorrieri) e, ancora negli anni Settanta e nei primi anni Ottanta, benché tra crisi e aspri conflitti sociali, riuscì a esprimere una peculiare visione autonomista e territoriale nel governo delle città, con particolare riferimento all’esperienza di Bologna e alla figura di Renato Zangheri.
Il “modello emiliano” si affermò, insomma, come espressione tra le più significative dell’autonomismo italiano, dove si intrecciavano la tradizione del socialismo gradualista, assorbita e fatta propria dai comunisti locali, con istanze proprie del cattolicesimo sociale. Su questa linea interpretativa, la riflessione dovrà spingersi ad affrontare sia il tornante rappresentato dall’introduzione della Regione a statuto ordinario (1970), con il complesso dibattito sull’identità del nuovo ente e sul rapporto tra autonomia e programmazione, sia la cesura dei primi anni Novanta, con la riforma del governo locale e la crisi delle formazioni politiche della “Prima repubblica”.
Oggi, a vent’anni dalla fine del PCI e del PSI, le tradizioni del socialismo non trovano più spazio nel dibattito pubblico e in quello culturale, salvo in piccole nicchie intellettuali e accademiche. Pertanto, il “riformismo” della sinistra appare una parola svuotata di senso, proprio per l’assenza di una connessione convincente con la storia politica. Nel campo ex socialista (ex PSI), mi sembra rimanga il nodo di Craxi: si assiste talvolta al tentativo di costruire una genealogia politica che va da Turati a Craxi senza soluzione di continuità, passando per Pertini e per Nenni[5], ma è evidente come la cosa non stia in piedi, per lo meno per quanto riguarda la questione morale. Nel campo ex-comunista, si preferiscono i riferimenti alla democrazia americana, nella persona di Obama (si pensi a Veltroni, ad esempio), oppure a una socialdemocrazia europea che appare però quasi una entità indistinta, senza articolazione, senza prospettiva storica (si pensi a D’Alema e alla sua Fondazione). Del resto, nel modello socialdemocratico, così come si è delineato in Europa a partire dagli anni tra le due guerre mondiali, è ingombrante la presenza dello Stato, del centralismo e del dirigismo, e sono convinto, come altri, che sia un modello che abbia esaurito la sua vitalità.
Bisogna ricominciare a pensare in termini di un nuovo inizio? Credo di sì, ma senza radici e senza tradizioni politiche che costituiscano una ispirazione e un punto di riferimento ideale ho l’impressione che non si vada da nessuna parte. Anche da qui scaturisce l’esigenza (“politica” se si vuole, e del resto gli storici sono intellettuali a vocazione politica, oggi schiacciati e battuti dagli economisti) di ragionare sul lungo periodo per non smarrire definitivamente per strada quegli spunti di interesse che può ancora fornire il primo socialismo italiano ed europeo: mi riferisco alla molteplicità delle scuole che lo caratterizzavano, al suo profilo autonomista e federalista, alla fantasia istituzionale che esprimeva.
La volontà di riflettere congiuntamente sullo ieri e sull’oggi ha animato gli organizzatori e i partecipanti di due seminari che sono stati programmati a Bologna tra 2010 e 2011. Il primo, svoltosi nella Sala Farnese di Palazzo d’Accursio il 4 dicembre 2010, era intitolato Bologna Futuro: socialità sviluppo uguaglianza. Il “modello emiliano” alla sfida del XXI secolo[6], mentre il secondo previsto per il 28 ottobre 2011 sarà dedicato proprio a: Il “modello emiliano” nella storia d’Italia. Tra culture politiche e pratiche amministrative (1889-2011)[7]. Entrambi gli appuntamenti muovono dallo stimolo che viene dalla visione socialista, libertaria e territoriale di Costa, dalle prassi amministrative del municipalismo popolare, dal loro collegamento con le organizzazioni di base e con la vita delle comunità (la loro “logica partecipativa”, diremmo oggi). Si crede che questi siano aspetti da riproporre nella riflessione odierna sulle nostre città, per ripensare la politica a partire dagli spazi municipali, provinciali e regionali.
2. I pilastri del “modello” [8].
Per sociologi ed economisti il “modello emiliano” è quella configurazione socio-politica che si realizza concretamente in un ventennio collocato tra la fine degli 50 e la fine degli anni 70 del XX secolo. È possibile individuare due momenti periodizzanti: la celebre conferenza regionale del PCI che, nel 1956, dopo i fatti di Ungheria metabolizza, in ambito regionale, la svolta politica dei comunisti italiani e poi, come fase terminale, il Settantasette. Questo è il periodo storico nel quale si realizza, entra a regime e accusa i primi elementi di crisi il cosiddetto “modello emiliano”.
Il “modello” si basa su una serie di elementi. Il primo è di carattere economico: il sistema delle piccole imprese, cioè la socializzazione manifatturiera dal basso, un sistema flessibile di produzione “disintegrato” e innervato nel territorio regionale. Il secondo elemento è quello costituto dal capitalismo popolare cooperativo, che si intreccia con il primo aspetto, formando la matrice economica e manifatturiera regionale.
Il terzo elemento è lo sviluppo dei sistemi di welfare a livello locale e le pratiche di investimento sociale. Quindi un forte investimento sul cosiddetto salario differito, sul salario sociale e sui servizi sociali, ma anche sul capitale fisso sociale, cioè le infrastrutture, come elementi fondamentali per assecondare, accompagnandolo, il processo di sviluppo economico e industriale.
Un altro elemento, di carattere politico questa volta, è costituito dalle pratiche di concertazione tra le diverse rappresentanze e categorie economico-sociali: sindacati, cooperazione, associazioni di ceti medi, la cui partecipazione è implementata nei processi politico-decisionali. Si tratta di un fitto intreccio di relazioni, molto assidue e strutturate.
L’elemento, però, veramente apicale e cruciale è la centralità del partito politico. L’integrazione di tutti gli aspetti sopra elencati non avviene per via spontanea ma è guidata e indirizzata dalla rilevanza che ha il partito politico, cioè il PCI. Esiste, naturalmente, un incontro dialogico con altre componenti politiche presenti in regione, all’insegna della cosiddetta “cultura costituzionale”: repubblicani, socialisti, ecc. Ma indubitabilmente, il PCI tiene per sé questa importante funzione di direzione e integrazione delle diverse parti.
La cultura comunista degli anni 60 e 70 ha una importanza centrale rispetto alla storia del “modello emiliano”. Il riferimento è a quella riflessione innovativa che si muove secondo gli stimoli contenuti nelle formule “via italiana al socialismo” e “democrazia progressiva”. Il valore nazionale del “modello emiliano” è da ricondurre al fatto che esso si inserisce all’interno di quella elaborazione. Ne è scaturita una pratica riformista molto seria, che ha saputo misurarsi con i processi di industrializzazione e con la modernizzazione più spinta.
La base economico-sociale del “modello” vede, accanto all’imprenditoria diffusa e alle classi medie applicate alla produzione materiale, una vasta e poderosa classe operaia, formatasi durante il processo di industrializzazione della regione, ma di estrazione rurale. I pensionati che oggi abitano la periferia bolognese, e continuano a caratterizzarla, sono essenzialmente ex operai immigrati in città dalle campagne negli anni 50 e 60. Questa matrice è importantissima. L’Emilia-Romagna del dopoguerra è una regione prevalentemente rurale. Con città importanti, funzioni complesse, ma essenzialmente agricola. È questa la sua peculiarità rispetto alle altre aree del Centro-Nord. Nel dopoguerra, infatti, il Veneto, la Toscana e perfino le Marche erano più avanti nello sviluppo industriale, per non parlare del cosiddetto “triangolo industriale”.
Questo aspetto è da ritenersi molto importante, proprio perché segnala come fosse ancora presente l’imprinting del socialismo delle origini. Le forze originarie di accumulazione di quel capitale sociale che viene acquisito e ritrasformato, dentro il “modello emiliano”, nella società industriale degli anni 60 e 70 hanno la loro base nel mondo rurale. La caratterizzazione del movimento socialista e poi comunista emiliano-romagnolo è quello della lotta contro la rendita fondiaria. Non la lotta al capitalismo, ma la lotta contro la signoria fondiaria, nelle sue forme arcaiche e semimoderne, come nei rapporti di mezzadria, o nelle sue forme moderne, come nel caso dell’economia agraria basata sui salariati agricoli. Una lotta di liberazione e di emancipazione dal giogo della signoria fondiaria.
Ad un certo momento il PCI riesce a prendere il posto del PSI perché diviene un interprete più duttile di questa vocazione di carattere storico. Uno dei punti di frattura tra PCI e PSI si crea, infatti, nel modo di trattare i mezzadri, cioè i cosiddetti ceti medi agricoli. I socialisti, che avevano il loro insediamento soprattutto nel bracciantato e tra i salariati agricoli, perseguono politiche di collettivizzazione e sono ostili alle classi medie del mondo rurale, mentre il PCI capisce che lì, all’interno delle classi medie rurali, c’è la possibilità di allargare enormemente il fronte della lotta contro la signoria fondiaria. In questo modo, il PCI costruisce il suo elemento egemonico nelle regioni rosse, dove i ceti colonici sono particolarmente diffusi. Si tratta di un aspetto fondamentale, perché la lotta del lavoro contro la rendita è anche l’elemento costitutivo, di fondo, del “modello emiliano”. Qual è infatti la sua filosofia, la sua politica: un accordo tra i produttori per combattere la rendita, la rendita fondiaria urbana, la rendita speculativa, la rendita finanziaria, la rendita monopolistica. Quando Togliatti viene in Emilia e fa il classico discorso sui ceti medi e l’Emilia rossa (1946), quella che egli prefigura è una alleanza tra lavoro e piccolo capitale, i ceti produttivi autonomi, contro le varie configurazioni della rendita.
Questa, del resto, è stata l’unica politica economica della sinistra italiana: l’alleanza dei ceti produttivi contro gli elementi che zavorrano lo sviluppo economico, civile e la modernizzazione del paese. L’Emilia-Romagna è la regione che si incarica di materializzare questo programma, che il PCI persegue però a livello nazionale.
Cosa è cambiato oggi? È cambiato tutto. Nessuno degli elementi che sono stati elencati è più nelle forme che lo caratterizzavano nel momento aureo di realizzazione del “modello”. Il sistema manifatturiero vive le vicissitudini che riguardano l’economia mondiale ed essendo un sistema export-oriented ha accusato in modo acuto la crisi economica. Il capitalismo popolare cooperativo ha avuto modo di affermarsi, di realizzarsi, e sicuramente è l’elemento che fra tutti si è più allargato e rafforzato nel corso del tempo, ma sicuramente ha subito delle modificazione qualitative rilevanti. Il welfare locale (l’investimento sociale) è in condizioni difficili a causa della congiuntura attuale e della situazione fiscale e finanziaria dello Stato, che scarica i costi della crisi sulle realtà locali. Si deve fare i conti con l’impossibilità – conclamata da oltre un ventennio – di praticare quelle politiche di deficit spending che caratterizzavano il “modello emiliano”.
Rimane operativa la concertazione sociale e politica, sicuramente, ma i soggetti che partecipano a questa concertazione si sono inevitabilmente appesantiti, a causa degli anni trascorsi e della storia che hanno accumulato. Le associazioni di interesse hanno tutte le loro origini storiche nei decenni tra Otto e Novecento, traggono origine da una determinata energia sociale, da istanze di emancipazione e solidaristiche. Nel corso del tempo tendono a saturarsi, a trasformarsi in sistemi sempre più stabilizzati, di governance, di selezione di classi dirigenti, e forse eccessivamente pletorici. E la società emiliana è ricca come nessun’altra di classi dirigenti, essendo una società molto organizzata, molto strutturata in rappresentanze sociali e politiche. Una classe dirigente che tende inesorabilmente a riprodursi e, in parte, a dimenticare gli impulsi e le energie sociali da cui trae la propria legittimazione.
Ma soprattutto la cosa che manca, clamorosamente, rispetto al “modello” è la funzione integrativa del partito politico. Non c’è più. Certo, esistono i partiti politici, esiste ancora un partito politico egemone, con un forte seguito elettorale, il PD, ma non ha nulla a che spartire con il partito politico che svolgeva la funzione integrativa del “modello”. Non ne ha più la base ideologica, non ne ha più la base organizzativa e il modo intrinseco di funzionamento. Oggi il PD è un partito ancora sufficientemente organizzato rispetto alle altre formazioni politiche, che sono costruite su base carismatica e sono, anzi, dei comitati elettorali a base carismatica. In qualche modo, il PD è l’unico partito rimasto, ma appunto “rimasto”, un residuo, a metà tra il partito della tradizione e le spinte attuali verso il modello carismatico. Rimane a metà, in modo tribolato e incerto.
L’ultimo elemento da ricordare è la mutazione socio-demografica che ha interessato la società. L’aspetto caratterizzante della società contemporanea, nella sua stratificazione, è la presenza massiva, vasta e pervasiva, ma molto frammentata, di classi medie intellettualizzate, con tutto ciò che questo significa in termini di alleanze sociali. È enorme, cioè, la distanza che passa tra l’alleanza dei produttori (classe operaia e classi medie applicate alla produzione materiale) e una realtà nella quale il soggetto centrale della società è la classe media intellettualizzata, collegata allo sviluppo delle funzioni di servizio, alla terziarizzazione. Una classe media in piena crisi, dal momento che chiudere la spesa pubblica significa bloccare l’assunzione dei laureati, e non solo di quelli umanistici. Una classe media all’interno della quale, non a caso, riscuotono sempre più successo i movimenti che si presentano all’insegna della iperdemocrazia, come i “grillini”.
Tuttavia, l’aspetto paradossale è che la cittadinanza continua a credere nel fatto che il “modello” esista ancora, e ha fiducia in esso. I dati dei sondaggi locali rivelano che la gente ha fiducia e si aggrappa in modo determinato a certi elementi che crede sicuri: il mondo cooperativo (un bolognese su due è socio di una cooperativa), la piccola e media impresa, le amministrazioni locali. Le tre gambe del “modello”. Naturalmente ignara delle trasformazioni intervenute, ma questo non importa. Inoltre, gli stessi cittadini che hanno fiducia nel “modello”, si collocano ideologicamente a sinistra, o nel centrosinistra. Destra e sinistra contano ancora, altroché! È un riflesso condizionato, se si vuole, ma molto attivo. Il capitale sociale, insomma, ha prodotto una fiducia profonda.
In definitiva, di fronte alla dissolvenza del “modello”, rimane una straordinaria originalità della società regionale, che unisce persistenze del passato a caratteristiche della società postmoderna.
3. La cooperazione oggi[9].
La cooperazione in Emilia-Romagna è stata una parte fondamentale del riscatto dal basso delle classi povere, sia per quello che ha ottenuto direttamente, sia per quello che ha ottenuto indirettamente. Nel senso che le altre realtà economiche si sono dovute misurare con il fatto che esisteva una alternativa per gli strati popolari.
Grazie alla cooperazione è proseguita, in età contemporanea, quella tradizione di valorizzazione delle risorse locali che è sempre stata presente in Emilia-Romagna. Una regione che non esisteva al momento dell’Unità, perché formata da tanti pezzi che si erano autogovernati da tempo immemorabile e lo avevano fatto cercando di valorizzare le risorse locali. Si può dire, quindi, che la cooperazione è un modo nuovo di vivere questa valorizzazione. Probabilmente, questo è il vero motivo di un tale radicamento originario della cooperazione, che ha avuto poi la possibilità di sfruttare anche delle sinergie con la politica, che pure era una politica molto legata alla promozione delle risorse locali.
La presenza della cooperazione in Emilia-Romagna è settorialmente pervasiva, e in quanto tale è capace di avere supporti economici forti. È da ricordare la presenza nel consumo, nelle costruzioni, nell’agro-alimentare (qui in maniera davvero radicata, dal momento che più del 60% delle attività agroalimentari in regione hanno forma cooperativa). La cooperazione è presente nella finanza: la più grande assicurazione italiana controllata da cooperative ha sede a Bologna. Ma anche le banche di credito cooperativo (BCC) e le banche popolari. Queste ultime, benché nel 1948 siano state giuridicamente escluse dal mondo dell’art. 45 della Costituzione, sono vissute di fatto come una realtà molto cooperativa e anche adesso rappresentano una sorta di public company, e sicuramente di proprietà diffusa. Ma poi la cooperazione è presente in vari servizi: facility management, catering, logistica, trasporti, oltre naturalmente alle cooperative sociali. Un radicamento a tutto campo. Senza dimenticare che in Emilia-Romagna è presente anche una cooperazione manifatturiera, molto rara a livello mondiale. Le cooperative importanti del settore manifatturiero sono localizzate in questa regione.
Bisogna poi sottolineare l’incidenza delle grandi imprese cooperative: tra le prime 100 cooperative italiane, ben il 55% sono emiliano-romagnole. Insomma, è qui il modello. Questo primato è perfino imbarazzante in alcuni settori, come quello delle costruzioni, dove su 15 grandi imprese 14 sono emiliano-romagnole. Anche nel caso dell’agroalimentare l’incidenza è molto elevata: su 18 grandi imprese, 14 sono in questa regione. Nei servizi di pulizia, dove pure la presenza cooperativa a livello nazionale è molto forte, su 27 sono 12 (una presenza leggermente inferiore, ma sempre importante). Nel consumo, sono 6 le grandi imprese cooperative emiliano-romagnole su un totale di 15. Tirando le somme dei vari settori, risulta 57 su 103.
Può essere interessante farsi la seguente domanda: come mai? Come mai in Emilia-Romagna e non altrove?
Le risposte potrebbero essere tante, e varrebbe veramente la pena di condurre una riflessione più approfondita. Limitandosi ad avanzare alcune idee, va rilevato innanzi tutto che il “modello emiliano” è un modello a rete. Non è affatto vero che l’impresa in Emilia-Romagna sia disintegrata, è invece fortemente integrata. Naturalmente, non in forma verticistica e gerarchica, come avviene nelle grandi imprese americane, ma con un modello a rete, il networking. In primo luogo, le reti create dai consorzi. La pratica dei consorzi in Emilia-Romagna è stata estrema e ha richiamato l’attenzione anche di riviste americane di business history. Inoltre, favorite dagli stessi consorzi, ci sono state le fusioni, cioè la nascita di imprese di più grandi dimensioni. Infine, la costituzione di gruppi con Spa, e quindi una significativa varietà di forma giuridica.
Esiste, insomma, un vero e proprio “modello emiliano” della cooperazione. Altrove si è avuto qualche caso simile, ma sempre “a rimorchio”. Forse l’unica eccezione è in Toscana, l’Unicoop Firenze, realtà assai vivace, ma piuttosto isolata.
Il radicamento della cooperazione ha significato occupazione, come si è dimostrato anche recentemente. Infatti, mentre tutti tendono a delocalizzare e a licenziare, nelle cooperative l’occupazione tiene, addirittura al costo di un qualche abbassamento della produttività. Si veda, a questo proposito, l’ultimo rapporto che è stato fatto in collaborazione tra Legacoop e Banca d’Italia sulla situazione delle cooperative in Emilia-Romagna, dove si mette in evidenza proprio questo aspetto: il mondo della cooperazione salva l’occupazione a costo di diminuire, eventualmente, la remunerazione e a costo di una produttività ridotta. Del resto, se si decide di mantenere l’occupazione nel momento in cui cala il fatturato, è inevitabile che diminuisca la produttività.
Occupazione, ma anche competizione istituzionale. La cooperazione dimostra che si può fare impresa, impresa di successo, in una forma diversa da quella capitalistica. Molto spesso davanti a questa affermazione, qualcuno dice: “beh, ma una grande cooperativa con un milione di soci, come Coop Adriatica, che razza di cooperativa sarà mai, visto che non consulta mai i suoi soci”. Intanto, questo non è del tutto vero, ma poi non si può guardare solo a quell’aspetto; è chiaro che una cooperativa di grandi dimensioni non potrà realizzare una democrazia diretta, come riesce invece a fare una cooperativa di piccole dimensioni. Tuttavia, nel momento in cui risponde del suo operato all’opinione pubblica (e rispondere a un milione di soci significa rispondere all’opinione pubblica), svolge ugualmente la sua funzione di cooperativa.
Le grandi cooperative sono in grado di fare competizione istituzionale e di fronteggiare le grandi multinazionali. Questo, ad esempio, è molto evidente nel caso di Camst, la terza impresa di catering attiva in Italia, che si trova di fronte a due multinazionali francesi, ma anche nel caso di Manutencoop che affronta sul mercato italiano una competizione molto difficile con multinazionali straniere.
Un’altra ricaduta positiva della cooperazione è il mantenimento di una prassi e di una mentalità anti-individualistiche, anche se qui non bisogna nascondere dei punti critici, ci sono dei problemi ed è inutile tacerli. Tuttavia, per il semplice fatto che l’impresa cooperativa vive di reti, non può esercitare l’individualismo negli stessi termini in cui esso viene esagitato dalle grandi imprese di carattere capitalistico.
Si prenda l’esempio del famoso Consorzio cooperative costruzioni, con sede a Bologna, che è il grande consorzio nazionale delle costruzioni, il quale raccoglie circa 120 imprese, alcune molto grandi (3 tra le prime 10 imprese di costruzione italiane fanno parte di CCC). Si tratta del più grande soggetto imprenditoriale italiano del settore, ma continua a lavorare in maniera cooperativa, dovendo attivare tutte le realtà imprenditoriali che lo compongono e senza le quali non esisterebbe. Si potrebbe, altresì, fare cenno alle cooperative di consumo, che svolgono una preziosa opera di valorizzazione nei confronti di imprese piccole e medie (non solo cooperative) del territorio, che trovano spazio sugli scaffali della Coop. Una possibilità senza la quale, probabilmente, queste imprese non esisterebbero neppure.
Per quanto riguarda l’analisi dei problemi, è il caso di insistere innanzi tutto sulla responsabilità nazionale del movimento cooperativo emiliano-romagnolo, sulla sua responsabilità direzionale sull’intero mondo cooperativo italiano. Una funzione di indirizzo che si dovrebbe porre come primo obiettivo quello di evitare l’omologazione delle cooperative, cioè l’individualismo di impresa. Il riferimento è alla negazione dell’idea di rete e alla perdita dei valori sociali che sono intrinseci in una cooperativa. Infatti, l’impresa cooperativa è stata definita efficacemente come un “Giano bifronte”, dove si intrecciano, in un delicato equilibrio, aspetti economici e sociali. Un equilibrio che oggi rischia di venir meno o, comunque, di non essere all’altezza del passato.
C’è poi un paradosso che andrebbe sempre rilevato. La grande impresa capitalistica ha delle schiere di studiosi che lavorano per lei, mentre la grande impresa cooperativa non ha mobilitato nessuno, se non quei pochi che lavorano volontariamente sulle cooperative. Si tratta di una situazione insostenibile. Mentre le piccole imprese si possono amministrare “a naso”, questo non è possibile per le grandi imprese. I capitalisti è un pezzo che se ne sono accorti, hanno fatto le Harvard Business Schools per questo. Nelle facoltà di Economia italiane esistono schiere di studiosi che spezzano il loro intelletto per trovare la maniera migliore per far funzionare le imprese capitalistiche. E c’è da chiedersi, allora, come sia possibile mandare avanti le grandi imprese cooperative, sottolineando cooperative (che non diventino, cioè, delle imprese capitalistiche), senza qualcuno che ci rifletta sopra in maniera professionale.
In conclusione, anche per le cooperative vale l’osservazione che va fatta per l’intera imprenditorialità italiana e, in particolare, per quella bolognese. La routine, perfino la migliore delle routine, è l’anticamera del declino. In un mondo in continuo movimento è di fondamentale importanza la progettazione di nuove direzioni d’impresa. Il mondo cooperativo, inoltre, ha bisogno di una interlocuzione politica ed è quello di cui oggi si sente maggiormente la mancanza. La politica non ha più una funzione di stimolo intorno a progetti di ampio respiro. Per affrontare i problemi odierni del welfare locale, ad esempio, si potrebbe ipotizzare un ruolo decisivo della cooperazione: una nuova dimensione di welfare cooperativo avrebbe la possibilità di nascere intorno alla cooperazione di consumo (basti pensare al milione di soci di Coop Adriatica), ancor più che intorno alla cooperazione sociale, e progettare servizi di nuova generazione. Ma se mancano gli stimoli della politica, ognuno fa la propria parte, ma solo la propria, e non contribuisce alla crescita collettiva.
4. Problemi strutturali e rappresentazioni culturali.
Quando parliamo di “modello”, come noto, intendiamo solamente una schematizzazione concettuale utile a tratteggiare particolari aspetti della realtà. È bene non dimenticare, dunque, che da un lato ci sono le rappresentazioni culturali, relative alla politica, all’economia e alla società emiliane, e dall’altro lato c’è la struttura che, nel corso degli anni, si è intrecciata con queste rappresentazioni. Da questa dicotomia emerge sempre più spesso il bisogno di un luogo di riflessione che possa servire a riproblematizzare il rapporto tra le questioni strutturali e le loro rappresentazioni, anche per porre una domanda chiara sulla adeguatezza delle culture politiche odierne rispetto ai problemi all’ordine del giorno.
La periodizzazione del “modello emiliano” è abitualmente fissata nell’arco cronologico fine anni 50-1977. Era quella la cosiddetta “età dell’oro” nel mondo. Eravamo all’interno di un paradigma economico e sociale dove la redistribuzione stava al centro delle politiche dello sviluppo. In quel contesto, si colloca la specificità emiliana: un processo di modernizzazione molto diverso sia rispetto al Nord sia rispetto al Sud del paese. La peculiarità risiede in una estensione dei diritti di partecipazione e cittadinanza, che caratterizzò il “modello emiliano”. In questa regione, il conflitto si sedimentò in forme di autorganizzazione. Ed è da sottolineare l’importanza del ruolo degli amministratori, accanto a quello delle piccole imprese e del sindacato[10].
Era diffusa la convinzione che nell’idea di coesione sociale e territoriale, di “popolo coeso”, potessero essere contenuti tutti i termini di quella modernizzazione. Sarebbe invece utile andare a cercare le faglie, i vuoti, presenti già allora, ma che si rendono evidenti soprattutto oggi. Di conseguenza, porre l’interrogativo di cosa sia oggi una dimensione non tradizionale di costruzione di una cittadinanza forte e di uno sviluppo sostenibile.
Recentemente, un volume ha ricordato il biennio 1969-70 e l’opera straordinaria di un sindacalista bolognese come Claudio Sabattini[11]. Approfondendo lo studio di quel periodo, si vede come la stessa crescita industriale fortissima degli anni 50-60 non fosse colta appieno, nelle sue implicazioni sociali, neppure dalle amministrazioni riformiste e progressiste. Ci si accorse improvvisamente della immigrazione operaia, della conflittualità crescente. Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, non tutto era armonico e contenuto nelle maglie coese del “modello”. In quel contesto, ad esempio, Sabattini pose il problema della responsabilità sociale d’impresa, parlando di un contributo dell’1% che le imprese avrebbero dovuto versare per finanziare i servizi sociali.
Avvicinandosi poi all’oggi, se c’è un primo spiazzamento significativo della cultura di governo a Bologna, questo avviene nei primi anni 90 di fronte ai problemi dell’immigrazione extracomunitaria. Duccio Campagnoli ha ricordato[12] come prevalesse l’idea che fosse un fenomeno passeggero e da contenere. Un atteggiamento che spiega la costruzione dei villaggi alla periferia della città, come insediamenti transitori. Addirittura, si diceva sottovoce – perché il solidarismo pubblico non permetteva la franchezza – che non bisognava favorire troppo i ricongiungimenti familiari.
In quegli stessi anni, il sindacato è stato uno dei migliori osservatori sulla crisi del “modello”, con particolare riferimento alle rotture avvenute sui luoghi di lavoro rispetto alle pratiche di solidarietà. Lì si è percepito che qualcosa stava finendo, e dal punto di vista culturale è mancata una adeguata comprensione di quanto accadeva.
Abbiamo parlato di cooperazione, benissimo. Ma siamo così sicuri che le scelte che hanno incentivato il gigantismo cooperativo, le grandi centrali del consumo esterne ai centri storici, siano state corrette e sagge? Si tratta di una logica che, a ben vedere, si inserisce coerentemente nel sistema culturale del berlusconismo. Anche l’odierna crisi dei centri storici ci interroga sulla correttezza di queste scelte[13].
Di fronte a problemi e insuccessi, accade sempre più spesso che i gruppi dirigenti, presi in senso lato, si scarichino reciprocamente le responsabilità. L’economia incolpa la politica e viceversa. Il problema non è tanto di trovare le risposte, che sono senz’altro da trovare, ma costruire un luogo nel quale gli interessi particolari diventino interesse generale: si consegnino all’interesse generale. E questo non è un luogo solo della politica, ma riguarda tutti i gruppi dirigenti. Non siamo quindi di fronte solamente a una crisi della politica, quanto piuttosto a una più ampia crisi delle élite. In Emilia-Romagna si continuano a sperimentare dei tentativi di risposta alla crisi, ma queste esperienze non trovano una sponda che le recepisca e le trasformi in cultura generale. Ecco il punto[14].
Alla luce di questi ritardi e di questi errori di comprensione, c’è da chiedersi quanto la cultura democratica della regione riesca a fare i conti oggi, fino in fondo, con l’irrompere della globalizzazione, con i problemi aspri dell’immigrazione, con la questione enorme della competitività. Il rischio è quello di una citazione rituale del “modello emiliano”, che abbia l’effetto di ritardare una chiara consapevolezza dei problemi attuali. Insieme ai richiami retorici, sono da evitare anche scorciatoie come la cosiddetta “cittadinanza di prossimità”: l’essere cittadino in tre chilometri quadrati, l’essere solidali nel proprio ambito ristretto, e quindi credersi progressivi e iperdemocratici, ma poi non dare nessuna linfa a una progettualità più ampia.
5. L’amministrazione pubblica e la cultura[15].
Il “modello emiliano” ha sempre considerato come parte integrante del welfare locale il tema dell’investimento culturale. Per tutto il periodo che va dalla fine degli anni Cinquanta al 1977 è stato fondamentale garantire il pluralismo culturale attraverso il finanziamento pubblico, e una parte importante del lavoro delle amministrazioni comunali andava in questa direzione. Il meccanismo si rompe nel Settantasette, quando avviene una contestazione fortissima rispetto al modello centralistico con il quale si operava in cultura. Si chiede, cioè, una apertura rispetto alla società civile e rispetto a nuovi contenuti, che fanno fatica a essere riconosciuti. Nel Settantasette emerge con prepotenza una nuova letteratura italiana; si affermano con forza nuove forme di espressione artistica, come il fumetto; c’è l’ultimo caso di un regista cinematografico che ha una dimensione autoriale, Nanni Moretti.
Purtroppo la risposta delle istituzioni non è positiva, c’è una chiusura rispetto a queste esigenze. Chi tenterà di rispondere sarà il Partito socialista di Bettino Craxi, che risponderà però innestando all’interno dell’investimento pubblico nel settore culturale dei meccanismi più attenti all’evoluzione del mercato, che non alle esigenze della società. Da qui l’interesse per la produzione di “eventi”, la “Milano da bere”, le manifestazioni estive, ecc.
Esiste una differenza fondamentale tra i due periodi, pre e post Settantasette. Il primo periodo è caratterizzato da una forte centralizzazione degli interventi, ma in funzione di una diffusione della cultura e quindi di una pluralità. Il secondo periodo è caratterizzato dalla creazione dell’evento; e l’evento deve essere di successo, deve registrare una risposta massiccia di pubblico.
Sul cambiamento appena delineato si incentra la grande mutazione culturale del berlusconismo. Una rivoluzione culturale, quella operata dal berlusconismo, che aggiunge agli elementi già ricordati il controllo diretto dei mezzi di produzione culturale. A partire dagli anni Ottanta, gli anni del craxismo, Berlusconi si impossessa delle reti televisive, acquista il monopolio della produzione cinematografica in Italia, fa sua la proprietà delle più importanti case editrici italiane, per non parlare dei giornali, e costruisce un modello di controllo culturale e politico basato sulla proprietà di questi strumenti. Il mercato culturale è, in larga parte, nelle mani del Presidente del Consiglio.
Il passaggio successivo, quello a cui stiamo assistendo oggi, è la teorizzazione dell’inutilità dell’investimento pubblico in cultura. La famosa frase di Tremonti: “con la cultura non si mangia”, significa questo. E i tagli non riguardano solo il settore culturale, ma anche la scuola, l’istruzione, l’università. Il modello che ci viene proposto è questo: non c’è bisogno di un intervento pubblico, perché il mercato risponde alle esigenze. Ciò che sorprende è che da parte di chi si dovrebbe opporre a questa logica c’è, non dico l’affermazione dell’inutilità dell’intervento pubblico in cultura, ma di fatto l’accettazione delle pratiche conseguenze. Anche nelle amministrazioni di centro-sinistra si tagliano continuamente gli investimenti in cultura. L’ultimo bilancio della Regione Emilia-Romagna taglia sulla cultura e sulla pubblica istruzione. Molte amministrazioni locali che avevano creato in Emilia-Romagna un modello alternativo di sviluppo nel settore culturale, penso ad esempio a Ferrara, retrocedono da questo impegno.
È da ritenere che qui ci sia una delle chiavi di svolta, per uscire dalle secche dell’odierna situazione politica e culturale. Sarebbe importante recuperare il concetto di municipalità e ragionare sulla difesa dell’investimento in cultura, facendo tesoro nello stesso tempo delle esperienze precedenti. Pensare, cioè, ad amministrazioni comunali che non si fanno imprenditrici di cultura, ma che svolgono piuttosto un ruolo di stimolo e indirizzo rispetto ai soggetti che si muovono nella società civile delle nostre città, mostrando, in questa maniera, che un altro modello è possibile. Da qui passa un pezzo molto importante della capacità di innovazione.
Senza investimento in cultura sembra difficile parlare di politica. La cultura crea coesione nella comunità e dà alla comunità stessa idea di esistere. Senza questo investimento e senza questo lavoro diventa difficile anche affrontare i problemi che la nostra epoca ci riserva. È molto difficile, ad esempio, confrontarsi con altre culture, se non si ha una idea forte della propria comunità. Non una comunità chiusa, ben inteso, una comunità aperta, ma consapevole di se stessa. Anche il problema dell’immigrazione va collocato all’interno di questo ragionamento. La sottovalutazione di queste questioni e la progressiva eliminazione dell’investimento in cultura da parte dei governi (locali e centrali) sono componenti decisive del degrado del nostro Paese e delle nostre città. A Bologna, dove nonostante tutto si mantiene una ricchezza di attività ed esperienze culturali importanti, sembra ancora possibile, proprio partendo dalla municipalità, invertire questo indirizzo.
6. Conclusione.
Secondo le parole di Valerio Romitelli, «Bologna nel secondo dopoguerra è arrivata ad avere addirittura una rilevanza geopolitica mondiale. In effetti, quando Togliatti il 24 settembre 1946 arriva al teatro municipale di Reggio
Emilia e celebra come modello quello emiliano-romagnolo, su di esso e sul suo capoluogo si concentrano come mai prima le luci della ribalta storica»[16].
Nel dopoguerra, il partito comunista emiliano ha fatto delle politiche keynesiane. Ma da dove nasce questo pragmatismo? Non nasce dal politicismo di Togliatti, è qualche cosa di più profondo, da ricondurre proprio alla storia delle culture politiche della regione[17]. Da qui, il tentativo di riportare il filo del discorso alle radici del riformismo storico emiliano-romagnolo. Tutto questo stride con il fatto che, negli ultimi anni, si è assistito invece a una subalternità e a un conformismo culturale rispetto alle politiche economiche dominanti.
Da troppo tempo manca, a livello regionale e cittadino, una circolazione di idee e, proprio per questo, cercare di attualizzare l’esperienza storico-politica del “modello emiliano” sembra una operazione estremamente utile. Secondo Walter Vitali, «negli ultimi decenni abbiamo vissuto di rendita, facendo esattamente il contrario di ciò che ha reso possibile quel “modello”; le classi dirigenti si sono auto riprodotte; e intanto il vento delle sfide globali ha cominciato a battere anche sul nostro territorio ponendoci davanti a problemi molto gravi»[18].
L’esperienza del riformismo emiliano-romagnolo è messa alla prova su tre fronti principali. Il primo è quello del welfare: le risorse necessarie per la gestione di un welfare locale. Il secondo riguarda il mondo delle imprese e dei distretti industriali, perché è chiaro che dalla crisi attuale non si uscirà come ci si è entrati. Il terzo è la questione dell’immigrazione. Oggi, infatti, in Emilia-Romagna si rileva la percentuale più alta in Italia di stranieri residenti, intorno al 10%. Da qui discendono determinate competizioni e tensioni nell’accesso ai servizi, soprattutto tra gli strati più deboli della popolazione.
La domanda dell’attualità non è quella di recuperare nostalgicamente un modello che, in realtà, non è più riproducibile (perché le sue fondamenta originarie si sono trasformate), ma è come quell’esperienza – che riscuote ancora una fiducia diffusa e che viene ancora percepita come vitale – può aiutare a vincere le sfide dell’oggi.
Ad esempio, sarebbe opportuno chiedersi come la forte e radicata cultura cooperativa possa oggi aiutarci ad affrontare il tema dei temi, cioè la crisi finanziaria del welfare locale e regionale. Il deficit spending è stato possibile fino al 1978, dopodiché è cessato. Oggi le cose sono drammaticamente peggiorate anche rispetto a pochi anni fa. Come si può convogliare verso la soddisfazione dei bisogni sociali una parte del risparmio delle famiglie? Non sarà possibile cavarsela semplicemente trasferendo la gestione dei servizi esistenti dal pubblico verso soggetti privati. Probabilmente, il tema della mutualità potrebbe aiutare ad affrontare in modo innovativo tale questione. E sarebbe il modo di mettere a frutto una esperienza storica in una situazione contingente di enorme difficoltà.
Nello stesso modo, si potrebbe sollevare il tema di come fare politiche industriali, non invasive e dirigiste, da parte della Regione (l’unico soggetto istituzionale in grado di affrontare temi di questo genere) nei confronti di un tessuto produttivo che ne ha bisogno e che non può essere lasciato solo davanti alla competizione internazionale.
Infine, si impone un alleggerimento delle istituzioni. In particolare, l’ente regione è troppo simile al modello burocratico affermatosi negli anni 70 (e la Regione Emilia-Romagna è una delle migliori d’Italia), piuttosto che alle regioni di cui ci sarebbe bisogno nell’epoca in cui la Costituzione italiana prevede una articolazione federalista. E questo anche per affrontare correttamente il tema del federalismo fiscale.
In tutta Europa, il messaggio socialdemocratico è in crisi conclamata[19]. Negli ultimi vent’anni la sinistra ha perso o visto affievolirsi sia l’idea dell’uguaglianza, sia la capacità di fronteggiare culturalmente e politicamente l’ondata neoliberista. Insieme alle ultime briciole di socialismo ha smarrito anche quel senso di integrità morale che ne aveva caratterizzato le migliori stagioni. Lo statalismo, storico fondamento della sinistra, è oggi fuori uso. Proprio per questo la storia del “modello emiliano”, a partire dalle sue radici ottocentesche, con riferimento alle prassi amministrative del municipalismo popolare e al loro collegamento con le organizzazioni di base e con la vita delle comunità, può essere preziosa per una riflessione problematica sul presente e sul futuro delle nostre città, intorno ad alcune questioni fondamentali qui rapidamente accennate: l’idea e il senso di comunità, la crisi e la riforma dello stato sociale, le nuove forme di assistenza e solidarietà, l’immigrazione e l’accoglienza, i diritti e i doveri di cittadinanza e la trasformazione delle culture politiche.
[1] L’idea di tornare a riflettere sul “modello emiliano”, in una prospettiva di lungo periodo, mi è stata suggerita dal lavoro che ho intrapreso negli ultimi anni su Andrea Costa: C. De Maria (a cura di), Andrea Costa e il governo della città. L’esperienza amministrativa di Imola e il municipalismo popolare. 1881-1914, prefazione di M. Ridolfi, Reggio Emilia, Diabasis, 2010 (catalogo della mostra organizzata a Imola per il centenario della morte di Andrea Costa); C. De Maria, Riflessioni sulla storiografia, in P. Mita (a cura di), Carte e libri di Andrea Costa, Imola, La Mandragora, 2010, pp. 661-671; C. De Maria, L’associazione, intervista su Andrea Costa, a cura di F. Melandri e G. Saporetti, in “Una città”, 2010, n. 175, pp. 38-42; C. De Maria, L’orizzonte del socialismo. Un convegno internazionale e nuove direzioni di ricerca su Andrea Costa. Imola, 7-8 maggio 2010, in “Storia e Futuro”, 2010, n. 23, www.storiaefuturo.com (gli atti del convegno sono in corso di pubblicazione, a cura di M. Ridolfi, presso la casa editrice Diabasis).
[2] Cfr. R. Zangheri, Prefazione a Popolo e Comune 1848-1889. Il paese reale verso le istituzioni, a cura di P. Albonetti e M. Ridolfi, Milano, Nuova Editoriale Aiep, 1989, pp. 17-19.
[3]Cfr. M. Ridolfi, L’indimenticabile 1946. Elezioni locali e apprendistato democratico nell’Italia del dopoguerra, in P. Dogliani – M. Ridolfi (a cura di), 1946: i Comuni al voto. Elezioni amministrative e partecipazione delle donne, premessa di R. Zangheri, Imola, La Mandragora, 2007, pp. 9-26; C. De Maria, Marcello Stefanini, il Comune e le autonomie locali, in M. Ridolfi (a cura di), Il Comune democratico. Autogoverno, territorio e politica a Pesaro negli anni di Marcello Stefanini (1965-1978), Milano, FrancoAngeli, 2009, pp. 115-137; M. Ridolfi, Storia politica dell’Italia repubblicana, Milano, Bruno Mondadori, 2010, cap. 4 “La Repubblica delle autonomie. Culture municipali e spazi di governo regionali”; M. Ridolfi, «La Romagna rossa s’è sgretolata. Ma quella leghista è illusoria», intervista di S. Barbieri, in “Corriere Romagna”, 10.5.2011.
[4] Uno “scippo” che il PSI non è mai riuscito a recuperare, né con Nenni, né con Craxi: cfr. L. Cafagna, Per uscire dal dualismo, in “Mondoperaio”, 2010, n. 1, pp. 64-65. L’eclettismo del PCI trova efficace esemplificazione nel fatto che il mensile politico-culturale del PCI, “Rinascita”, mentre dava spazio al recupero del riformismo storico emiliano-romagnolo, pubblicava in parallelo le opere complete di Stalin, in 10 volumi (Roma, Rinascita, 1950-56).
[5] Ad esempio, nella nuova serie di “Mondoperaio”, pur interessante e utile. Si vedano, in particolare, i numeri del dicembre 2009 e del gennaio 2010.
[6] Promosso da Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nella provincia di Bologna (Isrebo) e “Una città”, mensile di interviste, in collaborazione con Fondazione Istituto Gramsci Emilia-Romagna e con il patrocinio del Comune di Bologna. Gli atti del convegno, curati da C. De Maria, usciranno all’inizio del 2012 nella collana “Passato Futuro” diretta da P. Dogliani presso la casa editrice Clueb.
[7] Interverranno, tra gli altri, Mirco Carrattieri, Thomas Casadei, Carlo De Maria, Patrizia Dogliani, Alberto Ferraboschi, Tito Menzani, Maurizio Ridolfi, Matteo Troilo. Il programma provvisorio e i materiali preparatori sono disponibili nella sezione Approfondimenti del sito www.clionet.it.
[8] Nelle pagine seguenti si fa riferimento alla relazione di Fausto Anderlini, Alleanze sociali e rapporti politici nel “modello emiliano” storico. I mutamenti dell’ultimo quarto di secolo, tenuta al convegno Bologna Futuro, cit. Collaboratore assiduo della rivista “Il Mulino”, Anderlini è dirigente del Servizio studi per la programmazione della Provincia di Bologna e responsabile del Centro demoscopico metropolitano.
[9] In questo paragrafo si fa riferimento alla relazione di Vera Zamagni, Il movimento cooperativo emiliano-romagnolo: ruolo e identità, tenuta al convegno Bologna Futuro, cit. Della stessa autrice si veda, tra le altre cose, Una vocazione industriale diffusa in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità ad oggi. L’Emilia-Romagna, a cura di R. Finzi, Torino, Einaudi, 1997, pp. 127-161.
[10] Cfr. M. Boarelli, L. Lambertini, M. Perrotta (a cura di), Bologna al bivio. Una città come le altre?, Roma, Edizioni dell’Asino, 2010, in particolare il saggio di Francesco Cossentino, Il welfare e l’erosione del modello emiliano. Dello stesso autore si veda, anche, Le risposte locali e regionali alla pressione globale. Il caso dell’Italia e dei suoi distretti industriali, a cura di F. Cossentino, F. Pyke e W. Sengenberger, Bologna, Il Mulino, 1997.
[11] L. Baldissara, A. Pepe (a cura di), Operai e sindacato a Bologna. L’esperienza di Claudio Sabattini (1968-1974), Roma, Ediesse, 2010.
[12] Nel suo intervento al convegno Bologna Futuro, cit.
[13] Lo ha rilevato giustamente Thomas Casadei, nel suo intervento al convegno Bologna Futuro, cit.
[14] L’osservazione è di Fausto Viviani, nel suo intervento al convegno Bologna Futuro, cit. Si veda, anche, l’intervista a Viviani, sindacalista della Cgil, realizzata da G. Saporetti, in “Una città”, 2001, n. 98.
[15] Questo tema è stato affrontato da Alberto Ronchi nel suo intervento al convegno Bologna Futuro, cit. Si veda anche l’intervista a Ronchi, assessore alla cultura del Comune di Bologna, realizzata da M. Boarelli e L. Lambertini, in “Lo Straniero”, 2010, n. 120.
[16] V. Romitelli, Ieri e oggi: ceto medio produttivo e povertà, intervento al convegno Bologna Futuro, cit. Di Romitelli si veda anche l’intervista, realizzata da C. De Maria, in “Una città”, 2010, n. 172.
[17] Lo ha osservato Francesco Cossentino nel suo intervento al convegno, Bologna Futuro, cit., ricollegandosi all’introduzione ai lavori di C. De Maria.
[18] Si cita dall’intervento tenuto dall’ex sindaco di Bologna al convegno, Bologna Futuro, cit.
[19] Cfr. R. Gianola, I socialdemocratici? Sono estinti. Parola di Giuseppe Berta, “l’Unità”, 28.7.2010, p. 39. Recensione del volume di G. Berta. Eclisse della socialdemocrazia, Bologna, il Mulino, 2009. Si vedano, anche, Michele Salvati, La sinistra europea non sta certo bene ma il Pd sta peggio. Ecco perché, “Corriere della Sera”, 30.9.2010; G. Ruffolo, Dal trionfo al declino. Il passato glorioso [del sindacato], i problemi attuali, “la Repubblica”, 14.10.2010.