Incontro con Bruno Torri

Micciché afferma che il cinema dei cosiddetti “calligrafici”, così vituperato dai critici della rivista “Cinema”, era, in realtà, di buon livello qualitativo ed era un cinema, se non proprio antifascista, almeno a-fascista. Sei d’accordo con lui?

 

Sono sostanzialmente d’accordo con Micciché nella sua valutazione del cinema cosiddetto formalistico-calligrafico e, quindi, sono in disaccordo con le stroncature che, all’epoca, fecero i critici della rivista “Cinema”: stroncature, in piccola parte, giustificate dal fatto che loro stavano conducendo una battaglia di tipo culturale,e anche politica, perché si battevano per un altro cinema, un cinema più realistico, più impegnato sul piano sociale, più attento ai contenuti. Detto questo, va riconosciuto che il cinema calligrafico era non soltanto attento alla forma cinematografica, quindi alla composizione dell’immagine, alla raffigurazione degli ambienti, al disegno dei personaggi, insomma alla messa in scena, ma era anche colto. Non a caso, quello che avevano in comune i registi cosiddetti calligrafici o formalisti (Castellani, Chiarini, Lattuada, Soldati, Poggioli) era proprio la derivazione dei loro film da fonti letterarie, in genere, piuttosto alte e, in particolare, fonti letterarie italiane a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento. Era, dunque, un cinema colto, accurato sotto il profilo della scrittura filmica, un cinema che non concedeva nulla all’ideologia fascista dominante e che, anzi, implicitamente, con il senno di poi, possiamo dire che, se non vogliamo proprio definire antifascista (perché esplicitamente non lo era e, forse, neppure poteva esserlo), era sicuramente al di fuori dei canoni dell’ideologia del cinema fascista. Quindi, concordo con la rilettura critica e con il parziale risarcimento critico di Micciché e di altri che, come lui,(penso ad Andrea Martini, a Mino Argentieri, a me stesso è capitato di scriverne, ad Adriano Aprà) ritengono che quel cinema vada oggi riletto in una chiave diversa, e non soltanto in rapporto al fascismo, ma proprio per vederne le sue caratteristiche intrinseche.

 

 

Parlando del cinema italiano sotto il fascismo, Micciché scrive che un film ideologicamente chiave del periodo è “Il signor Max” (1937) di Camerini, un film che risponde, in certo modo involontariamente, al progetto freddiano di una cinematografia neutra, tranquillizzante, non militante. Che ne pensi?

 

Il fascismo aveva una propria idea del fenomeno cinematografico, aveva una propria politica cinematografica, per certi aspetti, anche moderna, per esempio, per quanto riguarda la creazione di nuove strutture o la nuova visione  dell’influenza sociale che può avere il cinema (vd. la famosa frase di Mussolini, “Il cinema è l’arma più forte”, che riecheggia un po’ la frase analoga di Lenin). Per quanto concerne i contenuti ideologici dei film fascisti, possiamo distinguere diversi filoni: un filone, minoritario quantitativamente, che è quello del cinema di propaganda fascista, diretta o indiretta, con film come “Scipione l’Africano” (1937) di Gallone o “Vecchia guardia” (1935) di Blasetti, che esaltavano la visione e la mistica fascista, e, poi, la stragrande maggioranza dei film, tra cui tutti i cosiddetti film dei “telefoni bianchi”, che erano film a-fascisti, nel senso che non erano né filofascisti né antifascisti. Poi, si può fare un discorso più attento per certi film che non erano privi di una certa rilevanza espressiva, come i film di Camerini, che erano commedie ben scritte, ottimamente interpretate e che contenevano un messaggio implicito. Camerini non voleva dire cose che sostenessero il fascismo però, sotto sotto, l’immagine dell’Italia che finiva per dare era un’immagine che allo stesso fascismo andava bene. Cosa veniva fuori da questi film e da altri film firmati anche da altri registi? Che, alla fine, tutti i contrasti si ricompongono, che i ricchi devono stare con i ricchi, i poveri con i poveri, che la povertà e i lavori anche umili possono essere una bella cosa e dare la felicità, che la campagna è migliore della città e così via. Veniva fuori una visione della vita un po’ antiquata, pre-moderna, portata ad accettare la realtà come è, senza nessun impulso ad un’assunzione di responsabilità o di posizioni politiche anticonformiste. In sostanza, erano film che non davano fastidio né al regime né ai benpensanti.

 

A proposito del gruppo di “Cinema”, Micciché dice che, per difendere il proprio credo realista e il proprio film- bandiera, i “congiurati” di Piazza della Pilotta considerarono avversari mortali ed eliminarono, senza pietà, tutti coloro che, pur essendo “contro”, volevano esserlo a modo loro…

 

Non credo che, valutando l’attività di “Cinema”, Micciché li accusasse di essere troppo ideologici, anzi: questo, caso mai, era un loro merito! Li accusava di essere, in qualche caso, soltanto ideologici e di trascurare la specificità del linguaggio cinematografico. In pratica, se i critici di “Cinema”, che poi diventeranno quasi tutti registi, avevano un difetto, era quello di essere troppo esclusivi nel portare avanti e nel difendere la loro politica, la loro concezione di cinema: un cinema realistico, impegnato, implicitamente antifascista, un cinema contro ogni forma di evasione, un cinema militante, sia sul piano ideologico che formale. Non dimentichiamo – qui sta il grande merito della rivista – che loro facevano dei discorsi che non erano solo ideologici ma anche poetici ed estetici: proponevano dei modelli alti, si rifacevano al cinema sovietico, al realismo poetico francese, cioè ad un cinema che sapeva coniugare impegno e cura della forma, militanza ideologica e accuratezza di scrittura cinematografica. Volevano un cinema “alto”, non semplicemente propagandistico o declamatorio, tanto è vero che dal laboratorio di “Cinema” esce fuori un film-manifesto, “Ossessione” (1943) di Visconti, che è un film che ha i suoi pregi, anzitutto, sotto il profilo estetico, della scrittura filmica e, poi, ricco di contenuti. Quindi il discorso su “Cinema” fatto da Micciché, distinguendo gli aspetti positivi da alcuni limiti, dovuti ad una certa intransigenza ideologica, è un discorso complesso, articolato, dialettico. “Cinema” cadeva, qualche volta, in qualche rischio schematistico ma, comunque, la sua battaglia, cinematografica e politica, fu senza dubbio una battaglia importante e di tipo progressista, sotto tutti gli aspetti.

 

Il neorealismo, definito da Micciché “un’etica dell’estetica”, non era funzionale, però, nei confronti di una società a capitalismo maturo, qual’è quella italiana degli anni ’60, tant’è che quello “sguardo” viene, nei fatti, abbandonato…

 

Bisogna tener presente un aspetto: in tutti i grandi film l’etica si coniuga, sempre, con l’estetica. Se questo è particolarmente visibile durante il periodo neorealista è perché quella particolare congiuntura storica dava un’immagine dell’Italia talmente evidente, talmente forte che bastava guardare con la macchina da presa la realtà (I fatti sono lì, basta filmarli – diceva Rossellini) e si era, automaticamente, dalla parte del giusto, della ragione, del progresso. Bastava riprodurre la realtà così come si presentava, naturalmente sempre con consapevolezza estetica e con rigore formale. Il neorealismo è stato questo: uno sguardo limpido, un distacco dal conformismo e dalla retorica, un momento di rottura netta, forte, con il cinema precedente, per mostrare senza veli la realtà di quel periodo. Una realtà che era frutto di una guerra perduta, di distruzioni fisiche e morali e in cui erano anche forti le ingiustizie sociali: il neorealismo ha raccontato tutto questo. I tre grandi maestri del neorealismo, Rossellini, Visconti, De Sica hanno raccontato tutto ciò, ciascuno in modo diverso, con una propria concezione cinematografica, però, tutti animati da una spinta etica molto forte che trovava una corrispondenza nell’estetica dei loro film. Invece, negli anni ’60, quando l’Italia non è più una società prevalentemente agricola ma industriale, non è più una società totalmente da ricostruire ma che viene fuori da un processo di ricostruzione, le cose cambiano. Siamo negli anni del boom, le città non sono più cumuli di macerie, c’è stata l’emigrazione interna, l’industrializzazione e questa Italia, con un capitalismo più avanzato, che, poi, Pasolini prenderà di mira perché porta con sé spinte consumistiche e nuove ideologie, richiede un altro sguardo, un altro approccio. I grandi registi di questo periodo (Fellini, Antonioni, Ferreri, Pasolini, Olmi, Bertolucci, Taviani, Bellocchio) fanno un cinema di ricerca, di sperimentazione ma si sente, nelle loro opere, l’indignazione verso le forme di ingiustizia che ancora permangono e traspare la questione meridionale (vd. film come “Salvatore Giuliano”(1961) di Rosi o “Un uomo da bruciare”(1962) dei Taviani e Orsini, su un sindacalista ucciso dalla mafia). Anche i film del nuovo cinema italiano sono motivati spesso dall’impegno sociale e nobilitati dal fatto che questo impegno trova riscontro in forme cinematografiche avanzate.

 

Prima di arrivare agli anni ’60, c’è tutta la fase del cinema postneorealistico, dove la norma è l’abbandono dell’atteggiamento morale e l’assunzione a modello estetico di alcune figure della produzione propriamente neorealistica: si passa da “ Roma città aperta” (1945) di Rossellini                  a “Pane, amore e fantasia” (1953) di Comencini…

 

Questa fase, all’epoca, fu detta dalla critica più attenta, più impegnata anche ideologicamente, del cosiddetto “neorealismo rosa” (“Pane, amore e fantasia”,“Poveri ma belli” (1956) di Risi,ecc.): un neorealismo che aveva perso la sua spinta ideologica, totalmente “annacquato”, che si adagiava sull’esistente, che non guardava più ai fenomeni sociali ma agli epifenomeni di costume. Erano, appunto, le pellicole di Risi o di un certo Comencini: commedie ben fatte, divertenti e sostanzialmente evasive, disimpegnate. Un discorso a parte bisognerebbe fare per la cosiddetta commedia all’italiana, che ha il suo momento di massimo fulgore all’inizio degli anni ’60 con film come “Tutti a casa” (1960) di Comencini, “Divorzio all’italiana” (1961) di Germi, “Il sorpasso” (1962) di Risi. Anche se la maggioranza di questi film hanno scopi prevalentemente commerciali e puntano soprattutto a divertire, comunque, nei loro esiti più alti, raggiungono, in qualche caso, una sostanza contenutistica forte. C’è, in alcuni di essi, una critica sociale importante: si criticano i vizi dell’uomo italiano nelle sue forme più archetipiche come l’arte di arrangiarsi, l’accomodamento, il mammismo, ecc. L’emblema di tutto ciò è stato il personaggio di Sordi che ha attraversato tanti di questi film. Quindi, la commedia all’italiana è stato un cinema di luci e di ombre, con alcuni piccoli capolavori importanti, che si tenevano su una posizione di critica sociale anche progressista, e molti altri che, invece, finivano per meritare la critica che a questo filone fece, all’epoca,  Italo Calvino. In uno scritto, dal titolo “Diario di uno spettatore”,Calvino accusava la maggior parte di questi film di rendere accettabili i nostri vizi, spingendoci ad ammiccare e a convivere con la parte peggiore di noi stessi.

 

Negli anni ’50, scrive Micciché, la pratica neorealistica non si costituisce come fondamento di un “altro” cinema, bensì accade che quello che era stato il cinema della speranza diventa il cinema della rassegnazione…

 

Chiediamoci questo: se il neorealismo ha avuto un’ideologia che ha accomunato, un po’, tutti i film e i registi più importanti di questo periodo – che è stato uno dei più felici del cinema italiano -, qual’era il suo spirito? Era lo spirito della Resistenza, dell’antifascismo, di un’idea di emancipazione sociale che doveva essere portata avanti a favore delle classi più sfruttate o, perlomeno, delle figure sociali più emarginate, quelli che De Sica, riprendendo un termine manzoniano, chiamava “gli umili”.De Sica non aveva nulla di marxistico come ideologia, però i suoi film finivano per avere una portata ideologica progressista: il disoccupato di “Ladri di biciclette” (1948), i poveri di “Miracolo a Milano” (1951), il pensionato di “Umberto D.” (1952) sono tutti personaggi, non a caso, esterni al processo produttivo vero e proprio, personaggi che la società tiene in un angolo e opprime. Per questi personaggi, De Sica si batte, così come Rossellini si batte a favore dei partigiani o del bambino di “Paisà” (1946) oppresso dalla Storia, dall’ideologia nazista. O così come Visconti sta dalla parte dei pescatori de “La terra trema” (1948) o degli emigrati dalla Lucania in “Rocco e i suoi fratelli” (1960), per non parlare dei veri e propri film neorealistici di Visconti. Lo spirito, l’ideologia della Resistenza, tipici del neorealismo, diventano, nel cinema degli anni ’50, cinema della desistenza, di chi ha una concezione del cinema come occasione di evasione, come strumento, non per far pensare, ma per distrarre, per trarre fuori dall’impegno, dalla consapevolezza, dalla riflessione ideologica. Obiettivo, questo, che il cinema si è sempre dato, soprattutto il cinema  hollywoodiano, e che, in sé, non è qualcosa di assolutamente negativo, però bisogna saperlo e dirlo: il cinema, spesso, è questa cosa qua ma c’è anche un “altro” cinema che vuol essere arte, discorso impegnato, assunzione di responsabilità sociali, ideologiche e, perché no, politiche (che non vuol dire, necessariamente, partitiche).

 

Nonostante il periodo ’60-’69 sia – a parte la stagione neorealistica – il migliore del cinema italiano, Micciché sostiene che, in Italia, non nacque, come negli altri paesi, una “nouvelle vague”, almeno nel senso autentico del termine. E’ così?

 

Gli anni ’60, a mio avviso, restano la decade più importante del cinema italiano, quella più ricca quantitativamente e qualitativamente di film: basti pensare che, negli anni ’60, ci sono ancora grandi film di grandi autori neorealistici, grandi film di due grandi maestri degli anni ’50 (Antonioni e Visconti), e grandi film dei registi che ho elencato prima, cioè i maestri del nuovo cinema degli anni ’60 (i Taviani, Olmi, Pasolini, Ferreri, Bertolucci, Bellocchio). Insieme a loro, ci sono anche altri registi, meno importanti, ma che si mettono, anche loro, nel solco del nuovo cinema: penso a Gianni Amico o ai primi film della Cavani. In sostanza, è vero ciò che dice Micciché, cioè che in Italia non c’è stato un fenomeno analogo a quello della nouvelle vague francese o del cinema novo brasiliano o dell’underground americano ma non c’è stato, non nel senso che non ci siano stati film d’avanguardia. Quello che è mancato è stato un movimento a livello organizzativo: la nouvelle vague italiana si è manifestata sul piano dell’espressione dei film, non si è manifestata, invece, sul piano dell’organizzazione. Non si è costituito un gruppo, non c’è stato un confronto, non c’è stata dietro un’elaborazione comune o una rivista che avesse fatto da palestra. In questo senso, i registi italiani non sono paragonabili alla nouvelle vague degli altri paesi però, in quanto a produttività artistica e culturale, anche in Italia c’è stata una nuova generazione, oltre a quella che già operava. Il vero elemento di novità è che, negli anni ’60, il soggetto che maggiormente viene portato sullo schermo è il borghese, o l’intellettuale borghese. La messa in scena riguarda sempre la crisi esistenziale di personaggi borghesi, maschili o femminili: penso all’incomunicabilità e all’alienazione dei personaggi antonioniani o al misticismo di certe figure felliniane e, in parte, anche rosselliniane. Solo Visconti continua, non sempre, a portare avanti un discorso anche di classe, con “Rocco e i suoi fratelli” ma, in altri film, anche lui porterà sulla scena il mondo borghese. Anche i giovani registi che ho citato prima, alcuni parlano del mondo del lavoro, ma molti parlano di personaggi borghesi (vd. il protagonista di “Prima della rivoluzione” (1964) di Bertolucci o quello dei “Pugni in tasca”(1965) di Bellocchio). E’ questo l’elemento di novità, sul piano tematico! Anche per questo, il cinema degli anni ’60 è stato tanto importante: perché ha portato avanti discorsi a tutto campo, che riguardavano le più diverse tipologie di personaggi (contadini e intellettuali, proletari e borghesi, ricchi e poveri, uomini e donne) e, quindi, offriva uno spaccato dell’Italia pressoché completo, sempre con un occhio critico, con uno sguardo molto acuto, con una visione dialettica delle cose.

 

Gli anni ’70 sono gli anni del “riflusso”, testimoniato, nel cinema, dal ripiegamento che caratterizza gli ultimi capitoli della filmografia viscontiana e pasoliniana o dal parossistico autobiografismo felliniano che trova la propria acme in “Amarcord” (1973)…

 

Questa osservazione è giusta se la si prende come tendenza, non come qualcosa di assoluto perché, poi, anche in questi casi ci sono delle eccezioni: negli anni ’70 ci sono film come “Padre padrone” (1977) dei Taviani o “L’albero degli zoccoli (1978) di Olmi, in cui si parla ancora di una certa umanità, di una certa antropologia, con uno sguardo realistico acuto,anche se magari si usa di più la metafora, che non canoni naturalistici. Non si ha, cioè, un piatto fotografismo ma si ha un modo di raccontare attraverso linguaggi più traslati, però, come linea di tendenza, l’osservazione di Micciché è giusta. Gli anni ’70 sono gli anni del riflusso, sono anche gli anni di piombo, gli anni in cui i grandi registi cominciano a dare segni di crisi: non a caso, fatto che assume anche una portata simbolica, nella seconda metà degli anni ’70 muoiono alcuni dei grandi registi (Pasolini, Rossellini, Visconti). Il panorama del cinema italiano si impoverisce e poi si assiste al prevalere, sempre di più, nell’ambito dell’audiovisivo, della televisione sul cinema. Da qui la crisi del cinema come industria, non solo come forma di espressione artistica: comincia un periodo di decadenza molto marcato, sia sul piano industriale, strutturale, sia sul piano espressivo.

 

La fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 vedono l’esordio di nuovi attori/autori comici:la nuova comicità è, per Micciché l’unica vague apprezzabile e positiva del cinema italiano della crisi. Sei d’accordo?

 

Si, sempre tenendo presente, però, che, sia il genere commedia che il genere comico, due generi confinanti tra loro, sono sempre stati strutture portanti del cinema italiano, in tutti i periodi. Poi, nella seconda metà degli anni ’70, c’è stato questo fenomeno di un gruppo di comici che, curiosamente, però, non provenivano, come prima, dall’avanspettacolo, ma dal cabaret: sono entrati nel cinema, con maggiore o minore fortuna, dando dei risultati, qualche volta, ragguardevoli. Moretti, in un primo tempo, poteva essere annoverato tra questi ma era un errore perché era chiaro, fin dagli inizi, che lui seguiva la strada dell’autorialità, che si poneva, cioè, come un figlio del nuovo cinema degli anni ’60. A parte questo, io credo che Moretti e Amelio siano i due registi, dopo i nati negli anni ’70, che hanno dato il meglio nel cinema italiano e che possono essere annoverati tra gli autori di spicco, come i fratelli maggiori degli anni ’60. Fra gli altri registi comici, dalla comicità più pura, nel senso che badavano soprattutto a far ridere, senza troppe preoccupazioni di discorso (anche se , poi, ognuno di essi ha tentato di far passare anche dei contenuti sociali), un’attenzione particolare avrei per Troisi. Qualche risultato, all’inizio, l’ha dato anche Nuti, poi è entrato in una fase involutiva; anche Verdone, senza mai raggiungere grandi vette estetiche, ma, comunque, facendo dei film dignitosi, e non solo divertenti, ha dato qualche esito soddisfacente. In conclusione, fu un fenomeno, non direi del tutto effimero, ma neanche un momento di forza: è stato, piuttosto, un fenomeno sintomatico, faceva capire che, in quegli anni di piombo, gli italiani avevano bisogno di distrarsi, di ridere, di impegnarsi poco.

 

Nel 1976, in pochi mesi, sorgono, in Italia, centinaia e centinaia di emittenti televisive private e si crea un vero e proprio caos mediologico in cui regna, indisturbata, la legge della giungla…

 

Non c’è dubbio che la deregulation che si è avuta negli anni ’70 – che fu una scelta politica per favorire le televisioni private – abbia messo il cinema in ginocchio: il cinema italiano, negli anni ’60  e nei primi anni ’70, aveva più di 10000 sale, nel giro di pochi anni sono scese a 2000. In media, gli italiani andavano al cinema 15 volte all’anno, poi quelle 15 volte sono diventate una sola: c’è stata una caduta verticale! Il cinema è diventato, sempre più, teledipendente, non solo sotto l’aspetto economico, industriale, mercantile, ma anche sotto l’aspetto del linguaggio. Molti registi, in questi anni, fanno cinema con un linguaggio quasi televisivo, pensando di andare, poi, sul piccolo schermo. Naturalmente c’è stato anche chi, durante questo periodo di vera e propria involuzione, è stato capace di andare controcorrente: penso a tanti, giovani negli anni ’70, come Bertolucci o Piscicelli, poi, via via, ci sono stati molti altri. Se arriviamo all’oggi, oltre tutti i nomi di registi che ho già fatto, vanno ricordati due giovani autori importanti che hanno dato film di grande rilievo come “Il divo” (2008) e “Gomorra” (2008): Sorrentino e Garrone sono autori ancora giovani che possono costituire, per il cinema italiano, due punti di forza, di riferimento, due speranze per il futuro molto fondate.

 

Tornando alla pluriennale deregulation del settore audiovisivo, Micciché conclude: “ certo i governi craxiani e lo spregiudicato rampantismo PSI degli anni ’80 ebbero la loro importante funzione; ma non avrebbero potuto giungere a tanto se non vi fossero state l’organica complicità diretta della DC e in generale dei partiti di governo e quella indiretta dell’allora PCI: tutti collettivamente responsabili del cinecidio”.

 

Va detto, però, che, anche in questo caso, ci sono state delle eccezioni. Indubbiamente, come dice Micciché, tutto quello che è avvenuto nel cinema italiano, a partire dagli anni ’70 ai giorni nostri, è il risultato del connubio Craxi-Berlusconi: il craxismo, poi, è diventato berlusconismo, come ideologia, come pratica politica, come disegno del mondo, con il rampantismo, l’affarismo, la corruzione, l’imbarbarimento dei costumi, però non c’è stato solo questo. C’è stato anche chi ha cercato di opporsi! Certamente, c’è stata, poi, una crisi delle ideologie che è diventata, essa stessa, una sorta di ideologia perversa. C’è stata la crisi del PCI che, per certi versi, non è stata mai risolta perché, ad un certo momento, si è deciso che il comunismo in Italia era morto però non c’è stato un discorso critico sul perché il comunismo è fallito, sul perché il PCI era costretto a mutare, non solo il nome, ma anche la linea politica, sul perché una piccola minoranza cercasse di rifondare il comunismo stesso. In fondo, il PCI, quando ancora si chiamava così, portava avanti una linea social-democratica; a partire dalla svolta di Occhetto, ci sono state, via via, nuove definizioni, nuove vesti ideologiche, senza, però, mai fare una vera e propria revisione critica del proprio passato, del proprio modo di essere. Dall’altra parte, il partito di Rifondazione Comunista, che aveva una base sociale dell’8%, non solo non ha detto come voleva rifondare il comunismo e realizzarlo, ma ha dovuto, addirittura,  rifondare se stesso: oggi Rifondazione non esiste più, è scesa dall’8 all’1%, è stato, cioè, un altro fallimento. Questo per dire che si è trattato di una sconfitta generale o, se vogliamo, di una vittoria del peggio, che c’è sempre stato nella storia d’Italia e che ha assunto varie forme. Nonostante ciò, l’Italia resta una democrazia, non soltanto formale, ma anche con degli anticorpi al proprio interno: una democrazia debole, minacciata, involgarita, però ci sono ancora margini per opporsi, per assumere, anche nel cinema, delle posizioni antagoniste, sia facendo film, sia parlando del cinema, sia facendo teoria e critica cinematografica.

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