Per definire la storia continentale degli anni compresi tra i due conflitti mondiali possiamo dare per affermato l’utilizzo della categoria di guerra civile europea. Se dalla seconda metà degli anni ’80 questo termine era infatti tornato di stretta attualità grazie al tedesco Ernst Nolte, che con il suo saggio sancì lo scoppio della celebre Historikestreit tra gli storici tedeschi, si deve agli sforzi di Enzo Traverso il merito di essere finalmente riuscito a spogliare la categorizzazione della guerra civile europea dalle cariche polemiche.[1] Traverso è stato capace, come pochi altri, a «cogliere il senso di un’epoca di guerre e di rivoluzioni nella quale la simbiosi tra cultura, politica e violenza ha profondamente modellato la mentalità, le idee, le rappresentazioni e le pratiche dei suoi protagonisti» e a comprendere come l’ambito continentale, vista anche la grande mobilità degli uomini e delle idee nel periodo tra le due guerre, sia quello da privilegiare.[2] La guerra civile europea ebbe origine con lo scoppio della prima guerra mondiale e, soprattutto, con l’ampia serie di traumi che questo evento avrebbe prodotto nel tessuto sociale continentale; qualsiasi serio tentativo di analizzare quanto sarebbe successo nei decenni successivi deve, a nostro avviso, partire da questo passaggio. Un esempio in questo senso ci è stato recentemente fornito da Sergio Luzzatto e dal suo bel lavoro sulla figura di Padre Pio: l’affresco della società italiana durante il regime fascista, all’interno del quale viene inserita la vicenda del controverso frate, non sarebbe stato completo se lo storico torinese non fosse partito proprio dalla prima guerra mondiale e dalle sue ripercussioni economiche e sociali.[3]
Se effettivamente possiamo parlare di un conflitto continentale dobbiamo allo stesso modo ricordare come questo fu caratterizzato anche dal susseguirsi di alcune guerre civili locali, tra le quali la più celebre e la più facilmente identificabile come tale fu sicuramente quella spagnola. Limitandoci al panorama italiano è lampante quanto non sia mai stato facile o scontato l’utilizzo della categoria di guerra civile per analizzare i conflitti novecenteschi del nostro paese. L’esempio più celebre è quello della Resistenza, basti pensare come ancora sino alla pubblicazione, nel 1994, del lavoro di Claudio Pavone parlarne in termini di un conflitto civile fosse da molti considerato tabù.[4] Oggi, fortunatamente, si è universalmente accettato di categorizzare quanto accadde in alcune zone d’Italia durante il biennio ‘43-’45 anche come una guerra civile. Dando quindi ormai per acquisito l’utilizzo di questa categoria per definire sia il complesso della storia europea degli anni compresi tra le due guerre mondiali sia alcuni conflitti locali che si produssero in quest’arco cronologico, vogliamo chiederci se sia altrettanto corretto e privo di problematicità applicarla al periodo oggetto di queste pagine. È, cioè, coerente parlare dell’Italia del primo dopoguerra, percorsa prima da una fortissima conflittualità sociale e poi dalle violenze squadriste, come di un paese scosso da una guerra civile?[5] Coglie nel segno Mimmo Franzinelli quando, riferendosi ai mesi precedenti la marcia su Roma, parla di una «guerra civile strisciante»?[6] Cercheremo di rispondere a queste domande partendo da tre lavori apparsi recentemente. Si tratta di uno studio dal carattere generale e complessivo e di due che invece prediligono le dinamiche locali: Le origini della guerra civile – L’Italia dalla Grande Guerra al fascismo (1918-1921) di Fabio Fabbri; Sovversivi e squadristi – 1921: alle origini della guerra civile in provincia di Arezzo di Giorgio Sacchetti e Una passione violenta – Storia dello squadrismo fascista a Pistoia (1920-1923) di Stefano Bartolini.[7]
Negli ultimi anni, grazie soprattutto dalle suggestioni di una nuova generazione di storici tra i quali è doveroso citare Giulia Albanese e Marco Mondini, la comunità scientifica è tornata ad interessarsi a quel delicato periodo che intercorse tra la conclusione del primo conflitto mondiale e l’avvento al potere del fascismo.[8] La questione che sembra essere tornata di stretta attualità, attorno alla quale si è sviluppato un vivace dibattito, è quella della violenza; in sostanza si è finalmente arrivati alla consapevolezza di come i primi anni Venti non si possano comprendere senza passare attraverso una narrazione dei traumi che sconvolsero la società italiana e che crearono delle fratture di difficile ricomposizione. Del resto, già nel 1934 l’intellettuale libertario Camillo Berneri, in un dattiloscritto, aveva voluto sottolineare come fosse stato proprio l’esercizio indiscriminato delle violenze ad essere il tratto saliente di quel periodo: «La riscossa antibolescevica si effettuava con uguale violenza tanto nei centri del sovversivismo quanto in quelle plaghe in cui il rivoluzionarismo post-bellico non aveva notevole sviluppo né aveva dato luogo ad alcun grave episodio di guerra di classe. Nel reggiano e nel modenese furono assalite le organizzazioni riformiste, nel bergamasco quelle cattoliche, nel padovano perfino gli organismi cooperativi apolitici e diretti da conservatori».[9] In questa direzione, in tutti e tre i saggi di cui ci occupiamo, gli autori riservano una parte centrale alla narrazione delle violenze ed in particolare di quelle squadriste; «la guerriglia di classe», scrive Giorgio Sacchetti, «e le spietate spedizioni punitive per domare la tracotanza dei rossi lasciano una interminabile scia di sangue e di conti aperti».[10] Fabbri, visto anche il carattere più generale del proprio studio, offre al lettore un vero e proprio tour attraverso il progressivo imbarbarimento della società italiana dalla fine del primo conflitto mondiale sino all’estate del 1921. I suoi principali meriti sono principalmente due: essere riuscito, anche semanticamente, ad andare oltre la tradizionale dicotomia tra biennio rosso e biennio nero ed aver presentato gli anni precedenti l’avvento al potere del fascismo come un unicum. Stefano Bartolini nel suo lavoro, pur mantenendo la definizione di biennio rosso, sottolinea come in realtà in quel passaggio vada individuata la nascita di una diffuso sentimento di paura verso un improbabile sbocco rivoluzionario tra la borghesia industriale e, soprattutto, tra i proprietari agrari senza il quale sarebbe difficilmente comprensibile il successo dello squadrismo.[11] Evidentemente la violenza fascista, che letteralmente travolse un mondo politico, sindacale ed associativo dalle forti tradizioni, trovava un consenso grazie ad un diffuso senso di timore, o di vera e propria paura, di alcuni gruppi sociali; «fu dal coinvolgimento di zone inaspettate», ha scritto Giulia Albanese, «e dall’alleanza delle squadre con gli interessi agrari che la violenza trasse quelle caratteristiche che, a posteriori, fecero la fortuna e l’affermazione del movimento fascista».[12] Anche Marco Mondini ha parlato di una vera e propria psicosi rivoluzionaria che avrebbe colpito gli ambienti più conservatori della società italiana.[13] Lo storico Gaetano Salvemini, testimone di quel periodo, avrebbe poi scritto:
Se non ci fu il pericolo di una rivoluzione comunista, ci fu la minaccia verbale da parte dei socialisti; ci fu la paura subiettiva nelle classi possidenti; ci fu l’irritazione in tutte le persone di buon senso per i disordini senza scopo; ci fu la scempiaggine socialista, che maltrattando e insultando i giovani tornati dalla guerra, quasi che fossero colpevoli di non essere scappati, scimmiottando Lenin nella lotta contro gli intellettuali, respinse verso destra moltissimi elementi i quali non domandavano se non di andare a sinistra.[14]
Le analisi sia di Sacchetti, che si sofferma per buona parte del suo lavoro sulla così detta imboscata di Renzino,[15] sia di Bartolini ci sono estremamente utili per comprendere quanto possa essere manicheo ogni tentativo di divisione degli anni del primo dopoguerra in diversi compartimenti stagni: le mobilitazioni operaie prima e lo squadrismo fascista poi furono chiaramente due espressioni di una stessa società in conflitto. La Foiano della Chiana che nel 1919 vedeva ben 1.337, su 1.810, dei propri votanti preferire il Partito Socialista era la stessa cittadina nella quale pochi anni dopo si sarebbe prodotta una delle azioni più cruente del primo fascismo toscano; così come la Pistoia che alle elezioni del 1920 vedeva 51 consiglieri comunali su sessanta provenienti dalle file socialiste era la stessa città nella quale durante i primi mesi del 1922 «la registrazione delle azioni fasciste aveva assunto le caratteristiche di un bollettino di guerra».[16] La scala locale, ma su questo torneremo in chiusura, si rivela tanto per Sacchetti quanto per Bartolini la chiave corretta per tentare di impostare delle riflessioni sul medio/lungo periodo.
L’elemento principe che determinerebbe quel periodo come una guerra civile è rappresentato dal fenomeno squadrista e dalle sue ripercussioni; «lo squadrismo», scrive Stefano Bartolini, «riunì intorno a sé disparati interessi e soggetti in nome della rivoluzione nazionali, dette sbocco alle passioni mobilitanti».[17] Le violenze squadriste, tanto le loro pratiche quanto le loro simbologie, ne ricordano molto da vicino altre che, loro si, possono sicuramente essere ricondotte nel contesto di un conflitto civile: la repressione nazionalista nelle proprie retrovie durante la guerra civile spagnola. La scelta delle vittime in base allo status sociale e al ruolo che queste ricoprivano; la decapitazione dei vertici politico/sindacali della parte avversa e, soprattutto, la convinzione di dover estirpare un cancro anti-nazionale dal corpus sociale sono soltanto alcuni degli elementi che si trovano tanto nell’Italia del ‘19-’22 quanto nella Spagna del ‘36-’39. Il radicalismo nell’odio verso, rispettivamente, i rossi o i rojos fu il sottile trait d’union tra questi due momenti della guerra civile europea.[18] Il giurista fiorentino Piero Calamandrei avrebbe rilevato come i fascisti, a suon di manganellate e non solo, si fossero applicati scientificamente «a approfondire la separazione tra “nazionali” e “anti-nazionali”», la stessa cosa che accadde, naturalmente in proporzioni diverse, nel caso spagnolo.[19]Quando Angelo Tasca avrebbe descritto l’azione “standard” squadrista (assalto alla Camera del lavoro, al sindacato, alla Casa del popolo, aggressione fisica ai sovversivi, ricerca dei leader, del sindaco, dei consiglieri, del segretario della lega contadina, del presidente della cooperativa e distruzione delle loro case, aggressione ai loro familiari dei) sembrava quasi predicesse il modus operandi delle truppe nazionaliste spagnole.[20] Questa ipotetica comparazione tra il caso italiano e quello spagnolo ci può forse dimostrare come parlare di guerra civile nell’Italia dei primi anni Venti non costituisca poi una forzatura eccessiva.
Infine, sempre per valutare la legittimità dell’applicazione di questa categoria, crediamo sia imprescindibile provare a capire quanto fosse effettivamente diffusa tra i contemporanei la percezione di essere protagonisti di un conflitto di questo tipo. Vediamo alcuni brevi esempi. Giorgio Amendola, che all’epoca delle violenze squadriste era ancora ragazzo, avrebbe ricordato come gli ex-combattenti, ed in particolare gli arditi, continuassero a praticare «contro i sovversivi la violenza appresa durante la guerra».[21] L’aretino Narciso Cacioli, che morì in carcere per le violenze subite, aveva riferito durante un interrogatorio che alcuni fascisti sarebbero andati presso il suo domicilio e lo avrebbero colpito con un pugnale alle natiche e alle braccia; non crediamo sia azzardato ipotizzare che il Cacioli potesse pensare di partecipare ad conflitto civile.[22]All’indomani dell’eccidio di Palazzo d’Accursio a Bologna, siamo nel novembre del 1920, sarebbe stato lo stesso Mussolini a fare riferimento ad una guerra civile:
Noi non siamo bevitori di sangue, né esteti della violenza e mille volte su queste colonne abbiamo detto che di tutte le guerre possibili e immaginabili, è quella civile che più ripugna l’animo nostro. Abbiamo sempre dichiarato e dichiariamo che siamo pronti ad accettare, quando ci sia imposta, la guerra civile ed a condurla con la necessaria energia e intrepidezza.[23]
Secondo Giulia Albanese, dai primi mesi del 1921 si sarebbe fatto sempre più diffuso, tra gli opinionisti, sui mezzi di comunicazione e nel lessico comune, il ricorso all’espressione “guerra civile”.[24] Non molti anni dopo, nel 1928, un gruppo di esuli antifascisti che si firmò Patronati italiani delle vittime del fascismo, pubblicò, con il sostegno del Soccorso Rosso Internazionale, un breve scritto dedicato alla memoria del comunista Michele Della Maggiora, fucilato per aver preso parte nel marzo del 1922 ai Fatti di Empoli.[25] Si trattava di un testo come tanti ne venivano dati alle stampe nel mondo dell’antifascismo in esilio; il dato interessante è come in appena venti pagine si dipingesse un clima inequivocabilmente figlio di una guerra civile: «la persecuzione contro socialisti e comunisti», recitava il testo, «si susseguirono ininterrottamente perché ad ogni azione fascista seguiva la rappresaglia operaia. I caduti furono numerosi fra i proletari, fra gli amici di lotta di Della Maggiora: il comunista Cosimini di 26 anni cadde ucciso nel novembre 1921 a Pieve a Nievole; il comunista Puccini della lega chimici cadde ucciso a Monsummano; due operai a Larciano e l’operaio comunista Maccioni di Monsummano caddero uccisi da carabinieri e fascisti in località Casselmartini. Su di un’autocorriera i tre proletari si recavano da Monsummano a Larciano quando nella località Casselmartini furono fatti scendere da fascisti e carabinieri e immediatamente fucilati».[26] Fu durante quei primi anni Venti che, per quella che sarebbe stata la prima generazione di antifascisti, si produssero gli eventi che avrebbero portato, nei decenni successivi, ad elaborare una memoria traumatica del proprio vissuto; se non è quindi corretto definire quel passaggio anche come una guerra civile crediamo sia difficile poter applicare questa categoria a molti altri periodi storici. Emilio Lussu, nel suo Marcia su Roma e dintorni, avrebbe ricordato come con la conclusione del primo conflitto mondiale milioni di combattenti fossero tornati alla vita civile «stanchi della guerra e assetati di pace. Ma, come suole avvenire ai ferventi sostenitori della pace, essi portarono, in questo loro sentimento profondo, uno spirito di guerra».[27] Vorremmo citare un ultimo dato che ci può forse servire a riflettere sulla pertinenza della categoria di guerra civile: se in Italia nel 1918 si erano registrati 6 omicidi ogni 100.000 abitanti il dato sarebbe cresciuto praticamente triplicando ed arrivando ai 17 del 1921, un incremento sicuramente tutt’altro che irrilevante.[28]
Gli esempi che abbiamo riportato ci inducono a rispondere affermativamente alle domande con cui abbiamo aperto questa nostra riflessione e a credere che sia giusto parlare di guerra civile per i primi anni Venti; fu, del resto, lo stesso Claudio Pavone a rilevare come dopo l’8 settembre il conflitto tra fascisti e antifascisti fosse il naturale proseguimento di uno «aperto del 1919-1922».[29] Certo si deve procedere con cautela, secondo Gabriele Ranzato ci sarebbero molti elementi (ad esempio il non venir meno del monopolio della violenza da parte delle autorità legittime) che rendono problematico l’utilizzo della categorizzazione di guerra civile per l’Italia degli anni Venti.[30] Nonostante questo, ci troviamo pienamente d’accordo con Fabio Fabbri quando dice come «in uno scenario di scontri sempre più drammatici tra l’immobilismo di ceti sociali rigidamente arroccati ai privilegi della ricchezza e l’aspirazione a nuovi bisogni rivendicati dal protagonismo delle masse popolari», la categoria di guerra civile fosse continuamente evocata: «sia dal socialismo riformismo come sintomo di smarrimento della ragione politica, sia da Mussolini come inevitabile strumento finalizzato all’immediato ritorno alla normalità» e quindi possa essere, oggi, legittimamente utilizzata dagli storici.[31]
L’ambito locale, e in questo senso vanno i lavori tanto di Stefano Bartolini quanto di Giorgio Sacchetti, si rivela l’approccio forse più proficuo per capire questa guerra civile; siamo sostanzialmente d’accordo con lo storico pistoiese quando scrive che proprio la storia locale «permette di seguire passo passo» la nascita e lo sviluppo delle dinamiche conflittuali del primo dopoguerra, il loro «concreto realizzarsi in una comunità di non grandi dimensioni. […] Qui», continua Bartolini, «la microstoria acquista di senso e non si smarrisce nell’aneddoto locale, ma dà ragione della storia, mostra con dovizia di particolari il suo sviluppo, donandoci un punto di vista vicino agli attori stessi della storia».[32] Scendere sin quasi al livello biografico ci consente di comprendere quanto i protagonisti di quegli anni sentissero il proprio mondo privato direttamente coinvolto in una vera e propria guerra civile. Fabio Fabbri, in chiusura al proprio volume, scrive:
Le elezioni del 1921 chiudono la prima fase del dopoguerra, quella decisiva, all’interno della quale è stato sperimentato con successo l’uso della violenza, quale strumento principe per la conquista della piazza e la sottomissione dell’avversario politico. Da allora, la percezione dei luoghi e dei modi della politica fu completamente sovvertita. Non solo s’erano già imposti i canti, le marce, gli appelli, lo stile fascista nell’abbigliamento, dal fez alla camicia nera, e l’eloquio diretto fra l’oratore e il suo pubblico. Soprattutto furono scelte altre platee, altri palcoscenici del dibattito politico. Il Parlamento, le riunioni sindacali, le assemblee di sezione e di partito, i grandi organi di stampa vennero sempre meno considerati come il luogo naturale di meditazione e di proposizione politica. Le accese e invasate manifestazioni pubbliche, l’appello allo scontro finale, la roboante esaltazione della gioventù fascista, la inondante retorica militarista dei capi squadra, la demagogia populista di ras e gerarchi, coniugata col più esasperato nazionalismo, alimentarono una mistica e una pratica della violenza. Essa entrò in scena avviluppata nelle maglie retoriche della salvaguardia delle memorie patrie, nel corso di riti pubblici finalizzati alla conquista del consenso, alla rimozione di qualunque incrostazione ideologica oscurasse l’affermazione trionfante del fascismo.[33]
L’Italia uscì profondamente cambiata dal passaggio dagli anni del dopoguerra; i traumi che si erano prodotti in questo periodo, e questo emerge da tutti e tre i lavori, avrebbero lungamente segnato la storia del nostro paese. Vogliamo chiudere con un augurio che Fabbri consegna alle prime pagine del proprio volume e che, crediamo, i tre saggi di cui ci siamo occupati siano riusciti con successo a rispettare: «compito della storiografia», secondo lo storico romano sarebbe «quello di ridisegnare senza veli i termini aspri e violenti di quel contrasto, e stimolare una riflessione che deve essere sempre meno latitante e reticente: sia nei riguardi della guerra civile del 1943-1945 che di quella provocata dal primo conflitto mondiale».[34] Quelli di Fabbri, Sacchetti e Bartolini sono, in estrema sintesi, lavori imprescindibili per capire non solo il primo dopoguerra ma, soprattutto, la storia del nostro paese sul lungo periodo.
[1] E. Nolte, La guerra civile europea 1917-1945 – Nazionalsocialismo e bolscevismo, Sansoni, Milano, 1988 [ed. orig., 1987] e E. Traverso, A ferro e fuoco – La guerra civile europea 1914-1945, il Mulino, Bologna, 2007.
[2] Ivi., p. 9.
[3] S. Luzzatto, Padre Pio – Miracoli e politica nell’Italia del Novecento, Einaudi, Torino, 2007, pp. 97-201.
[4] C. Pavone, Una guerra civile – Saggio storico sulla moralità della Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino, 1994.
[5] A.M. Banti, Storia della borghesia italiana, Donzelli, Roma, 1996, p. 337.
[6] M. Franzinelli, Squadristi – Protagonisti e tecniche della violenza fascista (1919-1922), Mondadori, Milano, 2003, p. 7.
[7] F. Fabbri, Le origini della guerra civile – L’Italia dalla Grande Guerra al fascismo (1918-1921), UTET, Torino, 2009; G. Sacchetti, Sovversivi e squadristi – 1921: alle origini della guerra civile in provincia di Arezzo, Aracne, Roma, 2010 e S. Bartolini, Una passione violenta – Storia dello squadrismo fascista a Pistoia, 1920-1923, CUDIR, Pistoia 2011.
[8] G. Albanese, La marcia su Roma, Laterza, Roma-Bari, 2006 e M. Mondini, La politica delle armi – Il ruolo dell’esercito nell’avvento del fascismo, Laterza, Roma-Bari, 2006.
[9] C. Berneri, Mussolini grande attore, Edizioni Archivio Famiglia Berneri, Pistoia, 1983, p. 93.
[10] Sacchetti, op. cit., p. 21.
[11] Bartolini, op. cit., p. 11.
[12] Albanese, op. cit., p. 20.
[13] Mondini, op. cit., pp. 52-53.
[14] G. Salvemini, Memorie e soliloqui. Diario 1922-1923, il Mulino, Bologna, 2001, p. 39
[15] Sachetti, op. cit., pp. 99-210.
[16] Ivi, p. 102 e pp. 117-148 e Bartolini, op. cit., p. 23 e p. 39.
[17] Ivi, p. 19.
[18] Cfr. F. Espinosa (a cura di), Violencia roja y azul – España, 1936-1939, Critica, Barcellona, 2011 e J. Rodrigo, Hasta la raiz: violencia durante la Guerra Civil y la dictadura franquista, Alianza, Madrid, 2008.
[19] P. Calamandrei, Il manganello, la cultura e la giustizia in: M. Franzinelli (a cura di), “Non Mollare”, Bollati Boringhieri, Torino 2005, p. 65.
[20] A. Tasca, Nascita ed avvento del fascismo, Laterza, Roma-Bari, 1965, p. 166.
[21] G. Amendola, Intervista sull’antifascismo, Laterza, Roma-Bari, 2008, p. 40.
[22] Sacchetti, op. cit., p. 137.
[23] Citato in Albanese, op. cit., p. 22.
[24] Ivi., p. 26.
[25] AA. VV., Della Maggiora, Patronati Italiani delle Vittime del Fascismo, Parigi, 1928.
[26] Ivi, pp. 6-7.
[27] E. Lussu, Marcia su Roma e dintorni, Einaudi, Torino 2002, p. 14.
[28] D. Melosi, Andamento economico, incarcerazioni, omicidi e allarme sociale in Italia: 1863 – 1994, in: L. Violante (a cura di), Storia d’Italia – Annali 12, la criminalità, Einaudi, Torino, 1997, p. 47.
[29] Pavone, op. cit., p. 256.
[30] G. Ranzato (a cura di), Guerre fratricide. Le guerre civili in età contemporanea, Bollati Boringhieri, Torino, 1994, pp. XXXIV-XXXVIII.
[31] Fabbri, op. cit., p. XXIV.
[32] Bartolini, op. cit., p. 20.
[33] Fabbri, op. cit., p. 608.
[34] Ivi, p. XXV.