Scheda di dottorato:
Il Post-concilio. Cattolicesimo e politica in Italia dal Vaticano II al dissenso (1966-1969)
Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”. XXIV ciclo del dottorato di ricerca in “Storia politica e sociale dell’Europa moderna a contemporanea”
Oggetto della ricerca qui presentata è la “ricezione politica” del concilio Vaticano II nel cosiddetto “mondo cattolico”: una definizione che includeva la Cei, la Democrazia cristiana, le organizzazioni cattoliche di massa (Azione cattolica, Acli, Cisl), alcuni gruppi intellettuali e movimenti politici e ecclesiali. Lo studio ha coperto un arco temporale delimitato, da un lato, dalla fine del concilio, dall’altro dal Sessantotto e dai suoi effetti nella società e nella chiesa italiana nel biennio 1968-1969. È stata presa in esame la documentazione conservata presso gli archivi centrali – verbali degli organismi dirigenti, atti dei congressi, convegni – e sono state spogliate le principali riviste cattoliche del tempo: accademiche, legate ad alcuni ordini religiosi, vicine alla Dc, prodotte dall’associazionismo cattolico, rappresentanti del laicato “progressista” e di quello conservatore. Il problema di partenza è stato capire come il concilio ha modificato l’azione politica dei gruppi dirigenti e, più in generale, come si è articolato il dibattito sulle relazioni tra fede e politica e tra lo Stato e la chiesa nelle seconda metà degli anni Sessanta. In questo duplice significato è stata utilizzata la categoria della “ricezione politica”. Sono state ricostruite poi la cronologia del biennio della contestazione 1968-1969 e le reazioni dei vescovi e delle organizzazioni del laicato al “dissenso cattolico”, qui considerato come il punto di ricaduta delle tensioni post-conciliari e della loro esplosione.
A indirizzare il dibattito post-conciliare sul binomio fede e politica (chiesa e potere) sono state la “politicità” del Vaticano II, che nel rinnovare la tradizione del Vangelo non si era sottratto ai problemi più urgenti del mondo, ma anche, e soprattutto, il contesto sociale e politico nel quale il concilio è stato recepito. Fin dalla conclusione del secondo conflitto mondiale, aveva preso forma in Italia un cattolicesimo fortemente politicizzato che, per far fronte al “pericolo comunista”, era ricorso alle grandi mobilitazioni di massa, aveva sostenuto il “partito cattolico” e aveva ottenuto il mantenimento del Concordato con il regime fascista. Si era instaurato uno “Stato confessionale”, certamente non monolitico anche nella sua componente religiosa – si pensi ai difficili rapporti tra la Dc e la gerarchia e a figure come Balducci, Mazzolari o Turoldo – , ma comunque solido. Non stupisce, dunque, che la celebrazione del concilio abbia scosso profondamente l’assetto politico esistente determinando contrasti molti duri, dal momento che la chiesa aveva elevato a dottrina proprio quelle critiche al “modello costantiniano” che erano cresciute sottotraccia. Più precisamente, la seconda metà degli anni Sessanta ha visto emergere uno scontro tra i vertici della chiesa italiana, le sue organizzazioni e la Democrazia cristiana, da un lato, e gli ambienti della cultura cattolica “progressista” (riviste, centri di studio) e i rappresentanti del cattolicesimo “di base” (i cosiddetti “gruppi spontanei”), dall’altro. La polemica, che ha attraversato le stesse organizzazioni coinvolgendo soprattutto i settori giovanili, si è incentrata soprattutto sullo “spirito” del Vaticano II, di cui ciascuno intendeva farsi interprete e ha riguardato in primo luogo l’unità politico-confessionale dei cattolici, sostenuta dai vescovi e dalla Santa Sede fin dal 1943. Altri punti di frizione sono stati il superamento del Concordato, la battaglia per l’introduzione della legge sul divorzio, la questione del dialogo con i comunisti e i problemi politici e morali sollevati dalla guerra in Vietnam.
Uno dei risultati della ricerca è stato mettere in mostra attraverso lo studio della pubblicistica come si è sviluppata la “ricezione politica” del corpus conciliare. Per esempio, se alcuni passaggi della Gaudium et spes sulla non ingerenza della chiesa in politica (75, 76) e la dichiarazione sulla libertà religiosa (Dignitatis Humanae) erano i riferimenti di coloro che polemizzavano con la crociata antidivorzista e contro il Concordato, sul fronte opposto, anche gli avversari del divorzio si richiamavano alla costituzione conciliare, ma al paragrafo 48, in cui era stato ribadito «l’irrevocabile consenso» coniugale. Nel dibattito sull’unità politica dei cattolici, da una parte, c’era chi parlava di cooperazione tra Stato e autorità ecclesiastica e dell’impegno dei cattolici per rendere l’ordine temporale «più conforme ai principi superiori della vita» (Gaudium et spes, 76, Apostolicam actuositatem, 7). Inoltre, ricordava quanto stabilito dal concilio circa il compito dei credenti di operare unitariamente «in nome della Chiesa e in comunione con i loro pastori» sulle questioni politiche che riguardavano direttamente la vita cristiana (Gaudium et spes, 76). Dall’altra, chi si richiamava all’affermazione del concilio sulla «legittima molteplicità e diversità delle opzioni temporali tra i cattolici che si ispirano alla stessa visione cristiana della realtà» e chiedeva alla gerarchia di smobilitare le sue “istituzioni”: partito, giornali, scuole e università cattoliche (Gaudium et spes, 75, 76). L’insegnamento “politico” del concilio ha riguardato anche il problema della “presenza” dei laici nella società. Nella costituzione Lumen Gentium (capitoli II e IV) si parlava del contributo di tutti i battezzati (il “popolo di Dio”) alla missione della chiesa, tuttavia in un altro testo, il decreto Apostolicam actuositatem (IV capitolo), erano state definite le caratteristiche dei gruppi del laicato dipendente dalla gerarchia. In Italia, dove l’Azione cattolica poteva vantare una lunga storia, il problema è stato particolarmente avvertito dai nuovi movimenti ecclesiali, che hanno messo in campo esperienze di vita comunitaria alternative all’“apostolato gerarchico”. Uno spazio importante nella discussione lo hanno avuto infine i problemi internazionali. Nel contesto della “distensione” il Vaticano II aveva rilanciato il messaggio di pace di Giovanni XXIII, ma non aveva sciolto alcuni nodi. La Gaudium et spes, infatti, aveva condannato il ricorso alla guerra come strumento di risoluzione delle controversie tra Stati, tuttavia aveva confermato la legittimità della guerra difensiva e delle cosiddette “armi moderne”. Della legittimazione religiosa dei conflitti si è discusso animatamente a proposito dell’invasione statunitense del Vietnam, sostenuta da alcuni settori del cattolicesimo (soprattutto della Dc) sulla base di motivazioni geopolitiche, ma anche in virtù di quella casistica che la maggioranza dei credenti riteneva superata, oltre che inapplicabile in difesa dell’intervento militare in Indocina. In particolare, i “progressisti” criticavano l’atteggiamento dell’episcopato americano e il “terzaforzismo” di Paolo VI, considerato incompatibile con lo “spirito conciliare”. Ambiguità avevano caratterizzato anche il messaggio conciliare sull’obiezione di coscienza, per la quale i padri conciliari avevano chiesto una maggiore clemenza giuridica e forme alternative di servizio, ma non avevano preso le distanze dal modello della leva militare. Si trattava di un problema particolarmente sentito in un paese in cui l’obiezione era ancora punita come un reato di renitenza e sul quale si è sviluppata un’animata discussione scandita dalle proposte di legge e dai processi penali.
Entrando nello specifico, nella prima parte del lavoro si è presa in esame la discussione interna alla Conferenza episcopale, nella quale si potevano individuare diverse correnti di pensiero sul Vaticano II: dagli ex-animatori della minoranza conciliare ai vescovi “riformatori”. Quella dominante, sulla quale hanno fatto luce le fonti presso l’archivio della Cei, considerava l’applicazione del concilio quasi come un fatto “meccanico” che avrebbe dovuto modificare nelle forme, ma non nella sostanza, l’azione della chiesa nello scenario politico. Come emerge dallo studio dei verbali del Consiglio di presidenza, dagli atti della prima Assemblea generale (1966), ma anche dalle polemiche suscitate dal primo convegno nazionale della rivista fiorentina «Testimonianze», fin dalla conclusione del concilio ha iniziato a crescere tra i vescovi la preoccupazione che un’errata interpretazione teologico-politica del Vaticano II, alla quale si faceva ricorso per mettere “tutto in discussione”, potesse prendere piede anche in Italia proprio come stava accadendo in molti paesi europei. A impensierire era l’effetto che le campagne per il divorzio, pubblicamente avversato dall’organizzazione dei vescovi, e contro il Concordato e la Dc avrebbero potuto avere sui flussi elettorali, ma destava sconcerto anche la crescente critica alla gerarchia. Dopo le polemiche suscitate dalla rimozione di Raniero La Valle dalla direzione dell’«Avvenire d’Italia», la percezione della “crisi” si è rafforzata nel corso del ’68 con lo sviluppo di forme comunitarie che, sulla base del concilio, si proponevano di costituire un’“Altra” chiesa, slegata dal potere politico e indirizzata verso la sinistra rivoluzionaria: di rilievo è stato il dibattito sviluppatosi tra i vescovi sulle critiche suscitate dall’enciclica Humanae vitae, sul “caso Isolotto” e sui movimenti politici nel “cattolicesimo di base”. Come è stato chiaro alla III Assemblea generale e nelle discussioni che hanno accompagnato la preparazione del documento di sostegno alla Dc per le elezioni politiche del 1968 (I cristiani e la vita pubblica), la Cei considerava la radicalizzazione delle nuove generazioni un effetto della secolarizzazione (dello “spirito dei tempi”), non intendeva disimpegnarsi dalla politica nel momento della crisi del centro-sinistra e del blocco “doroteo” e non valutava tale scelta in contrasto con il Vaticano II. Al contrario e nonostante poche eccezioni, la maggioranza dei vescovi sosteneva che fosse proprio l’avanzata delle forze di sinistra nel “mondo cattolico” a giustificare l’unità politica dei cattolici attorno alla Dc in difesa della democrazia e della chiesa del concilio.
Il problema del disimpegno ha caratterizzato anche la ricezione politica del Vaticano II nelle organizzazioni del laicato dipendenti dalla gerarchia, prima tra tutte l’Azione cattolica. Come si è detto, l’Aci ha dovuto fare i conti con gli attacchi di coloro che intendevano superare il controllo gerarchico dell’apostolato. Ad aggravarne la situazione hanno concorso anche fattori di natura extra-ecclesiale, come la crescente disaffezione delle nuove generazioni alle organizzazione della chiesa e quindi la diminuzione delle iscrizioni e della partecipazione parrocchiale. La dirigenza nazionale ha reagito al concilio e alla propria crisi con la “scelta religiosa”, che si è tradotta in un progressivo allontanamento dalla Dc, tuttavia il cambiamento di registro non ha comportato una critica all’unità dei cattolici nella Dc e, soprattutto, un disimpegno definitivo dalla politica, come è stato evidente nella campagna contro la legge Fortuna. A questo proposito, lo studio dei verbali della Giunta centrale ha rivelato la presenza di uno scontro interno con i settori giovanili della Giac/Gf e (in misura minore) della Fuci, che desideravano una riforma “dal basso” della struttura e una rottura netta con la Dc e con le campagne dei vescovi. Si è cercato quindi di mettere a fuoco le posizioni in campo sulla riforma dello Statuto e il ragionamento politico-conciliare che vi stava alla base. Non è casuale, infatti, che soprattutto dopo la “sconfitta” della battaglia contro la centralizzazione (1969) le organizzazioni giovanili diventeranno dei bacini della contestazione cattolica e studentesca.
Specularmente all’Aci, anche la dirigenza delle Acli ha posto al centro il problema dei rapporti con il partito politico. Dal suo punto di vista, l’azione pastorale raccomandata dalla Gaudium et spes non poteva che svolgersi a stretto contatto con i laici (lavoratori) e le loro esigenze materiali e quindi nella dimensione politica e sindacale. Inoltre, il concilio aveva fornito le pezze per giustificare la rottura del collateralismo tra le associazioni cattoliche e la Democrazia cristiana, alla quale si imputava di aver abbandonato la rappresentanza delle istanza sociali. Il passo successivo doveva essere il superamento dell’assistentato ecclesiastico e il percorso si sarebbe concluso con l’approdo all’ “ipotesi socialista” del 1970. In questa sede si è voluto di ricostruire, facendo uso della pubblicistica associativa e della documentazione prodotta dagli organismi centrali, come dal concilio gli aclisti abbiano attinto non per avallare una linea politica – accusa ricorrente della minoranza interna e dai vescovi – ma per rivendicare il diritto a scegliere liberamente la direzione del movimento. Nel contesto dell’Italia del Sessantotto ciò non poteva che significare un collegamento con il socialismo.
Tra gli effetti della crisi dell’associazionismo cattolico c’è stato lo sviluppo di nuove forme di vita comunitaria e dei movimenti ecclesiali. Il fenomeno precede il Vaticano II, ma indubbiamente quest’ultimo ha contribuito ad accelerarne l’affermazione, perché, come si è detto, ha valorizzato l’azione di tutti i battezzati e non soltanto degli “associati”. Nella ricerca qui presentata è stato indagato il movimento di Gioventù studentesca, poi Comunione e liberazione, facendo ricorso però unicamente alla sua pubblicistica. Negli ultimi tempi gli studiosi hanno discusso sulla fedeltà del gruppo di Giussani al concilio, ma si tratta di un falso problema. È innegabile, infatti, che Gs si considerasse figlia legittima della lezione della Lumen Gentium sul “popolo di Dio” e che nel Vaticano II vedesse la conferma della propria missione. Ma quale era la visione “politica” del concilio di Giussani? Il movimento era estraneo alle discussioni che hanno caratterizzato il dibattito post-conciliare su Concordato, divorzio e unità politica dei cattolici. La “politicità” di Gs è riscontrabile, invece, nella sua contrarietà all’interpretazione “progressista” del Vaticano II e nella sua proposta di “presenza” del cristianesimo come alternativa alla modernità “illuminista”/secolarizzata. A questo proposito, sono state indagate due vicende esemplari: il coinvolgimento dei “giessini” nello scandalo della «Zanzara» e la conseguente polemica con «Testimonianze».
Tra i movimenti nati dal concilio, l’elemento politico è più evidente, invece, nell’esperienza dei gruppi spontanei e delle comunità di base, figlie del loro sviluppo. I gruppi hanno coltivato una visione iper-politica del concilio e focalizzata sul contrastare le compromissioni della chiesa con il potere capitalistico. Dello spirito del ’68 condividevano la proiezione internazionale(-ista), che ha alimentato la critica alla prudenza di Paolo VI nei confronti della “guerra ingiusta” in Vietnam e ha rafforzato la vicinanza alle lotte del Terzo Mondo, nelle quali vedevano un modello positivo di ricezione del Vaticano II. A proposito della situazione italiana, i gruppi erano convinti che il Vaticano II avesse sancito la fine del “mondo cattolico” e la rifondazione di un nuova politica (a sinistra) priva di una copertura ecclesiastica e religiosa, tuttavia sono stati anche i promotori del “dissenso” nella chiesa e gli animatori della prima stagione di protesta contro la “restaurazione aggiornata” di Paolo VI. Nel movimento era quindi avvertibile una contraddizione tra la dichiarata volontà di separare la fede dalla politica e la loro attività vera e propria. Lo stesso problema si è presentato anche nelle comunità di base. Dai gruppi le Cdb si distanziavano anche per il rinnovato afflato religioso e soprattutto biblico e liturgico. Più in generale, avvertivano quel bisogno di rifondare la comunità cristiana che i gruppi avevano scelto di lasciare fuori dalla assemblee politiche. Dalle Cdb prenderanno forma alcuni movimenti, tra i quali i Cristiani per il socialismo, volutamente schiacciati su una dimensione politica vissuta con la stessa “ambiguità religiosa” che aveva caratterizzato la lotta dei gruppi spontanei contro la Dc: cristiani e non per questo socialisti, ma socialisti anche perché partecipi del messaggio sociale di Cristo.
Dal punto di vista dei due partiti principali (Dc e Pci), il Vaticano II ha rappresentato un fattore di crisi e, nello stesso tempo, un’opportunità. La crisi ha riguardato soprattutto la Democrazia cristiana, alle prese con i problemi della nuova stagione del centro-sinistra. Dopo averlo sostanzialmente ignorato il più a lungo possibile, la Dc ha cercato di chiudere i conti con il concilio al convegno di Lucca (1967). L’operazione ideologica era chiara e fu sostenuta anche dalla Santa Sede: inserire il Vaticano II nella storia del “movimento cattolico” per mettere in mostra la continuità tra la lezione politica dei padri conciliari sull’autonomia dei cattolici e l’esperienza del cattolicesimo democratico. Nelle conclusioni dei convegnisti la Dc era proclamata il prodotto di quell’impostazione politica che la chiesa aveva finalmente ufficializzato: il partito non aveva quindi motivo di mettersi in discussione. Le critiche sollevate dal convegno hanno allargato il solco tra la sinistra democristiana e la maggioranza e tra la Dc e certi settori del cattolicesimo intellettuale (riviste e centri culturali) e militante (“gruppi spontanei”, ecc). Dunque, sebbene sia ormai riconosciuto che l’isolamento culturale della Dc è stato soprattutto il risultato della sua difficoltà a far fronte alla modernizzazione del Paese, la contestazione cattolica non può essere derubricata come un fattore di crisi secondario.
Mentre il “partito dei cattolici” ha percepito il concilio come un pericolo, il partito comunista vi ha scorto un’opportunità. Per la dirigenza comunista l’avvio del Vaticano II, accolto solo inizialmente con scetticismo, si collocava lungo il medesimo percorso di distensione. A ciò si aggiunga che i lavori dell’assise sono stati interpretati dal Pci come un’occasione per rompere il blocco elettorale che sosteneva la Democrazia cristiana. La strategia del Pci si è articolata lungo due assi: da un lato, il dialogo intellettuale, dall’altro, l’interessamento alle nuove formazioni dei “gruppi spontanei”, senza comunque perdere di vista le correnti della sinistra democristiana. La “strategia dell’attenzione” verso le masse cattoliche è culminata nell’“operazione candidature” per il Senato, conclusasi con la formazione del gruppo della “Sinistra indipendente”, ma con una scarsa adesione dei cattolici. Pesava nei confronti del Pci l’accusa, anche dei settori cattolici più avanzati di coltivare un rapporto strumentale, ma anche la tiepidezza con la quale il partito conduceva la battaglia per il divorzio e la sua indisponibilità a schierarsi per l’abolizione del Concordato.
Il periodo che va dalla conclusione del Vaticano II allo scoppio del ’68, due avvenimenti ormai riconosciuti come periodizzanti per la chiesa e per la società, è stato quindi decisivo per il cattolicesimo italiano. Di pari passo con la Santa Sede e con le altre chiese la chiesa italiana ha intrapreso i primi sforzi di applicazione del concilio, sono maturate le tensioni che porteranno all’esplosione della contestazione nel mondo cattolico e hanno iniziato a delinearsi alcuni percorsi del cattolicesimo post-conciliare: quelli politici (dal cristianesimo socialista alle nuove correnti del cattolicesimo democratico) e quelli religiosi e politico- religiosi (dalla “scelta religiosa” a quella comunitaria, al modello di Comunione e liberazione). Come si è cercato di mostrare in questa ricerca, nel provocare la nascita del dissenso ha giocato un ruolo decisivo la querelle sulla de-confessionalizzazione della politica dei cattolici, sulle ingerenze della chiesa nello Stato e quindi sul superamento dell’“Età costantiniana”. In una società fortemente politicizzata con una chiesa altrettanto immersa nei problemi temporali e influente sulle vicende del Paese, l’istanza di una riforma politica ha fornito la cifra del dibattito sul concilio in Italia. Si è provato a spiegare, inoltre, come nel contesto della secolarizzazione e della crisi del tessuto cattolico l’elusione da parte delle autorità ecclesiastiche e politiche delle richieste “conciliari” abbia contribuito a indirizzare una minoranza (generazionale) fuori dalla chiesa e verso la contestazione. L’esplosione del ’68 dei credenti e la radicalizzazione delle scontro con l’autorità ecclesiastica può quindi a buon diritto essere considerata la ricaduta delle aspettative di riforma innescate dal Vaticano II e un momento di frattura. In questo quadro non si esaurisce il problema del post-concilio e neppure quello della sua prima stagione. Anche lo stesso fenomeno della contestazione religiosa non può essere ricondotto alla sola querelle politica e deve ancora essere studiato nelle sue varie componenti. Alla conclusione di questa ricerca rimangono dunque aperte molte domande. Per esempio, se, specularmente alla protesta sessantottina, la politicizzazione abbia rappresentato un manto sotto il quale sono state soffocate le istanze di riforma religiosa (peraltro presenti in alcune componenti come le Cdb) che riemergeranno nei decenni successivi e quindi in che misura la contestazione possa essere considerata la spia di un desiderio di riforma della chiesa avvertito anche al di fuori del dissenso.