“La politica mediterranea dell’Italia. Il governo italiano e la Democrazia Cristiana di fronte al mondo arabo negli anni del centro-sinistra (1963-1972)

La ricerca qui presentata affronta il tema della politica estera dell’Italia nei confronti dei paesi arabi nei primi anni dei governi del  centro-sinistra organico. In particolare, lo studio si è posto l’obiettivo di analizzare le posizioni dell’Italia nei confronti degli eventi più rilevanti, che caratterizzarono il mondo arabo nel corso di circa un decennio, dal dicembre 1963, momento di formazione del primo governo di Aldo Moro, al maggio del 1972, termine della V legislatura. In particolare, il lavoro racconta la diplomazia italiana e le conseguenti iniziative assunte dalle autorità nazionali per affrontare il crescente stato di crisi che, in quel periodo, investì l’area mediterranea e, in particolare, il Medio Oriente. In questo senso, il lavoro fornisce un quadro, quanto più completo, delle iniziative politiche dell’Italia di fronte agli eventi politico-militari occorsi nel mondo arabo, ponendoli nel contesto della politica internazionale.

La scelta di tale tema, che l’attualità internazionale ha riportato alla ribalta, origina da diverse ragioni che sostanziano la rilevanza politico-economica del Levante mediterraneo, prima fra tutti l’abbondanza di risorse energetiche di tale area. Il fattore petrolifero, infatti, ha assicurato una costante attenzione delle grandi potenze per le sorti del mondo arabo. Come i recenti eventi della guerra in Iraq e le turbolenze nei rapporti della Libia e dell’Iran con l’Occidente dimostrano, la questione petrolifera continua a essere un interesse primario per gli Stati Uniti, l’Europa, la Russia e, recentemente, la Cina. A ciò si aggiunge la posizione geostrategica del Medio Oriente, posto là dove tre continenti, Asia, Africa ed Europa, s’intersecano, creando equilibri e condizioni storico-politiche uniche nel loro genere. Nel complesso, la volontà delle potenze occidentali di controllare quella preziosa porzione di mondo, la contestuale volontà della classe dirigente nei paesi arabi di raggiungere il pieno affrancamento da qualunque influenza straniera e alcune specifiche questioni, prima fra tutte il conflitto arabo-israeliano, hanno creato i presupposti per una situazione di forte e protratta conflittualità. Un simile quadro ha avuto un evidente riverbero sulla politica dei paesi rivieraschi del Mediterraneo, inclusa l’Italia, ponendo alle autorità italiane rilevanti questioni inerenti le sicurezza nazionale, le relazioni politiche bilaterali con i paesi nordafricani e mediorientali, e la tutela degli interessi economici nazionali collegati ai paesi arabi.

L’importanza storiografica della contemporaneità del Mediterraneo e del Medio Oriente è accresciuta da alcune considerazioni sul rapporto tra l’Italia e l’area mediterranea. Fin dagli anni Ottanta del Diciannovesimo secolo, lo Stato italiano ha tentato di esercitare una crescente influenza a tutto tondo, in Nord Africa e in Medio Oriente. Partendo dai governi liberali, passando per il regime fascista, per arrivare al nuovo Stato repubblicano, le autorità nazionali hanno costantemente cercato, pur se con finalità e modi d’azione diversi, di esercitare una politica attiva nel mondo arabo, rafforzando le relazioni con i paesi e i popoli presenti nel Mediterraneo.  Tuttavia, la Seconda Guerra Mondiale e la sconfitta bellica hanno rappresentato una sorta di iato per la politica mediterranea nostrana. Pur continuando a perseguire una politica d’influenza nel Mediterraneo e in Medio Oriente, le autorità repubblicane rigettarono gran parte degli eccessi ideologici derivanti dalla febbre nazionalista del periodo fascista.

Tuttavia, dopo la firma del trattato di pace del 1947 e il naufragio di ogni progetto di affidamento di una parte delle ex colonie di epoca liberale, i governi centristi, a guida democristiana, tornarono pian piano a esercitare una diplomazia mediterranea, riservando ancora una volta una particolare attenzione ai rapporti con gli Stati arabi. Fin dagli anni Cinquanta, la diplomazia italiana si pose l’obiettivo di recuperare i rapporti con gli Stati arabi e ricostruire il diffuso sistema di relazioni economiche del periodo prebellico. Tale impostazione doveva essere funzionale a una nuova penetrazione economico-commerciale delle grandi imprese italiane in Nord Africa e Medio Oriente. La diplomazia bilaterale mediterranea divenne, quindi, principalmente uno strumento di sostegno all’iniziativa dei grandi gruppi italiani, primo fra tutti l’ENI di Enrico Mattei, per creare occasioni di espansione industriale e commerciale, e, soprattutto, stabilire canali di approvvigionamento petrolifero garantiti e a costi di favore.

Nonostante la svolta politico-istituzionale postbellica, nella politica mediterranea dei governi repubblicani si sarebbe conservato qualcosa del bagaglio ideal-storico, ispiratore del passato coloniale dell’Italia. La classe dirigente repubblicana non avrebbe rinnegato l’idea di un’Italia nazione-ponte tra l’Europa e il Levante mediterraneo, riconoscendo al nostro paese un’unicità storica, politica e culturale tra le nazioni del vecchio continente. Emblematico in questo senso è il neoatlantismo sostenuto da Giovanni Gronchi, Amintore Fanfani e lo stesso Mattei. E proprio l’ideale neoatlantico, rivisto e corretto, è un elemento costante nelle pagine della ricerca, considerato come uno dei principi ispiratori delle iniziative diplomatiche italiane nel Mediterraneo, a partire dagli anni Cinquanta. Di fronte a crisi cruciali per la diplomazia del nostro paese, come la Guerra dei Sei Giorni e il colpo di Stato in Libia nel 1969, le decisioni italiane sarebbero state influenzate dall’idea che l’Italia vantasse un grande credito politico presso le cancellerie arabe. Si riteneva che il paese non solo avesse la possibilità di esercitare un’azione di mediazione politica tra i paesi occidentali e quelli arabi, ma potesse contare anche su una sorta d’immunità da eventuali ritorsioni del mondo arabo.

Quanto descritto finora non conclude il tema della ricerca. Ho, infatti, inteso integrare la questione della politica mediterranea con un’ulteriore variabile d’analisi, quest’ultima di politica interna. Ho ricostruito il dibattito interno al partito di maggioranza relativa del tempo, la Democrazia Cristiana, rispetto alle questioni mediterranee e alle posizioni politico-ideologiche emergenti nel mondo arabo. In particolare, ho cercato di comprendere se e in quali termini nel partito cattolico vi sia stato un confronto interno sulle dinamiche politico-diplomatiche dei paesi arabi. Ciò ha significato ricostruire la posizione della DC su questioni quali la nascita dell’OLP e le prime azioni dei gruppi armati palestinesi contro Israele, la Guerra dei Sei Giorni, le relazioni italo-libiche dopo il colpo di Stato di Gheddafi del 1969 e altro ancora.

L’interesse per la realtà democristiana è nata dalla convinzione che ciò avrebbe certamente aiutato a comprendere meglio le strategie della politica estera italiana degli anni Sessanta e Settanta. Basti pensare che i presidenti del Consiglio dei Ministri, dal 1948 in poi, sono stati sempre democristiani, almeno fino alla formazione del primo governo guidato dal repubblicano Giovanni Spadolini nel 1981. A questo, si aggiunga che anche il Ministero degli Esteri è stato controllato per decenni dalla DC, con alcune brevi parentesi come la nomina a ministro degli Esteri di Saragat nel 1963, nel primo governo Moro, e quella di Nenni nel 1968, nel primo governo Rùmor. Bisogna, inoltre, dire che ho considerato l’integrazione del piano interno con quello internazionale, attraverso lo studio della realtà democristiana, come un tentativo di seguire un percorso di studio, nell’ambito dei rapporti italo-arabi, che ritengo non ancora concluso nel panorama della letteratura italiana.

In definitiva, la struttura scelta per la ricerca mi ha permesso di valutare integrandoli tre elementi diversi e distinti quali la diplomazia italiana, le vicende panarabe e le posizioni democristiane in politica estera, con particolare riguardo per i paesi di nuova indipendenza. Fare ciò ha comportato la necessità di integrare non solo la politica interna e la politica estera dell’Italia, ma anche la storia politico-istituzionale degli Stati arabi e le dinamiche del movimento panarabo nel Ventesimo secolo con gli eventi internazionali. Del resto ciò è stato indispensabile per descrivere un contesto storico-politico da cui partire per analizzare le interazioni tra l’Italia del centro-sinistra, rappresentata dai governi Moro, Rùmor e Colombo, e gli Stati del Medio Oriente e del Nord Africa.

Nel complesso i quattro capitoli della ricerca affrontano una fase storica molto intensa, sia in campo nazionale, sia in campo internazionale. Mentre l’Italia avrebbe sperimentato l’esperienza riformista dei primi governi del centro-sinistra, affrontando una crescente crisi sistemica e una forte instabilità socio-economica, il mondo arabo avrebbe visto l’emergere del nazionalismo panarabo e vissuto da protagonista il processo di decolonizzazione, grazie soprattutto all’azione del presidente egiziano Gamel Abdel Nasser. In particolare, a partire dal 1964 si registrò un progressivo deterioramento delle relazioni tra il mondo arabo e i paesi occidentali, concorrendo all’inaugurazione di una fase di forte instabilità politico-militare nella regione mediorientale, culminata nella Guerra dei Sei Giorni nel 1967 e nel conflitto dello Yom Kippur nel 1973. In questo complesso panorama, per l’Italia si aggiunse un ulteriore fattore di crisi, il colpo di Stato avvenuto in Libia nel 1969. L’ascesa al potere di Muammar Gheddafi e le iniziative del nuovo regime libico, prima fra tutte la cacciata dell’intera comunità italiana nel 1970, costrinsero Roma ad affrontare la questione della tutela degli interessi nazionali e a gestire una cruciale crisi con un paese arabo. Il governo italiano dovette districarsi attraverso un difficile equilibrismo tra le spinte interne per una politica decisa contro le autorità libiche e la tendenza ormai storica di favorire buone relazioni con gli Stati arabi. Questo avrebbe inaugurato rapporti bilaterali, per così dire, incerti e contraddittori, le cui conseguenze negative sono evidenti ancora oggi, nel pieno di una grave crisi politica e militare che investe la Libia.

Nel complesso la ricerca individua tre principali temi della politica araba dell’Italia. Il primo di questi è la costante preoccupazione per la stabilità geopolitica dell’area mediterranea e, in particolare, dello scacchiere arabo. La sicurezza e la pace nel mondo arabo, posto a pochi passi dal Canale di Sicilia, furono un obiettivo cruciale per la diplomazia di Roma. Le autorità nazionali ritenevano l’equilibrio geopolitico presupposto irrinunciabile per garantire al paese un contesto adeguato per la crescita economica e lo sviluppo sociale, finalità primarie per il centro-sinistra. In questo senso, la ricerca dà conto delle preoccupazioni degli esecutivi italiani di fronte alle crisi politico-militari nel mondo arabo di quel periodo, sottolineando i continui aggiustamenti della diplomazia italiana agli eventi. Paradigma di ciò fu la crisi della Guerra dei Sei Giorni nel 1967, quando il governo Moro fu costretto a trovare una formula di compromesso, in grado di garantire il complesso degli interessi italiani, la cosiddetta politica dell’equidistanza. La soluzione, sostenuta dal ministro Fanfani, evidenziò le contraddizioni di una politica estera sempre in bilico tra la vocazione mediterranea e l’ortodossia euro-atlantica, che porta a parlare di una diplomazia, per così dire, strabica. Pur non segnando il disconoscimento dell’alleanza con le potenze occidentali, tale condotta fece emergere una graduale tendenza verso posizioni più vicine al mondo arabo, che negli anni Settanta si sarebbe rafforzata.

Il secondo tema individuato è la necessità del governo italiano di essere presente nello scacchiere mediterraneo, per garantirsi uno spazio politico nelle vicende del mondo arabo ed esercitare un’influenza nelle relazioni interarabe. E’ la ricerca di una presenza politica a tutti i costi, che giustifica gran parte del frenetico attivismo, in qualità di ministri degli Esteri, di Amintore Fanfani, prima, e di Aldo Moro, dopo. La ricerca dà ampiamente conto dei numerosi incontri avvenuti, tra il 1965 e il 1972, tra i politici democristiani e i rappresentanti degli Stati arabi. In quel periodo, Roma divenne un punto di riferimento per le cancellerie di quei paesi. Certamente ciò non fece dell’Italia il principale interlocutore dell’occidente con il Levante e l’Africa settentrionale, secondo l’ideale neoatlantico, tuttavia rese le autorità italiane un interlocutore politico attento ai bisogni e alle rivendicazioni di un mondo arabo in cerca di riscatto.

Il terzo tema è il petrolio, divenuto un fattore determinante per il decollo economico dell’Italia fin dagli anni Cinquanta. La diplomazia italiana cercò di tutelare gli approvvigionamenti energetici dai paesi arabi, cercando di evitare lo scontro con questi ultimi anche nei momenti più incerti e difficili, come le vicende delle relazioni italo-libiche avrebbero dimostrato a partire dalla cacciata degli italiani nel 1970. Nonostante la prudenza da parte italiana, la politica di apertura nei confronti del mondo arabo e, in particolare, degli Stati produttori di petrolio non avrebbe posto il nostro paese al riparo dai grandi cambiamenti degli anni Settanta in campo energetico. La garanzia di un approvvigionamento petrolifero garantito e a costi convenienti si sarebbe dissolta a partire dal 1971, quando l’OPEC ottenne il rialzo dei prezzi, subendo un colpo definitivo nel 1973 con la Guerra dello Yom Kippur.

Il quadro descritto è integrato dal significativo ruolo del partito cattolico nella definizione della politica estera dei governi di centro-sinistra. Grazie alla sua centralità politica e ai suoi uomini, Moro, Fanfani, Rùmor e Colombo, la DC influenzò decisamente l’andamento della politica araba dell’Italia. In verità la politica estera divenne spesso questione rilevante soprattutto per i membri del partito, con incarichi di governo, come i già citati Fanfani e Moro. Personalità di assoluto rilievo, questi furono in grado spesso di raggiungere una sintesi su scottanti temi della politica internazionale, come la questione mediorientale, nel governo e in seno al partito cattolico. Infatti, nella DC non mancò il dibattito sulla politica estera nei confronti del mondo arabo, favorendo l’elaborazione di due principali visioni. La prima di queste, d’ispirazione euro-atlantica, pretendeva un maggiore impegno politico e di risorse per la NATO e il processo comunitario. I sostenitori di questa impostazione, eredi degli avversari del neoatlantismo, pensavano che il futuro dell’Italia non fosse verso Sud, nel Mediterraneo, ma a Nord, in Europa. L’avversione per la direttrice mediterranea risiedeva nel timore che il tendere verso il Mediterraneo avrebbe prodotto una vera e propria discrasia nella diplomazia italiana tra gli obblighi derivanti dal sistema di alleanze occidentali e una politica di apertura nei confronti degli Stati arabi.

Tra i maggiori sostenitori di questa impostazione è da ricordare Giuseppe Vedovato, giornalista e parlamentare, che avrebbe fatto anche parte del Consiglio Nazionale della DC. Dalle colonne di autorevoli di periodici come «Relazioni Internazionali», Vedovato non avrebbe mai smesso di denunciare i pericoli di una politica estera eccessivamente sbilanciata verso lo scacchiere mediterraneo, chiedendo insistentemente agli esecutivi di centro-sinistra di percorrere in modo coerente la strada dell’ortodossia atlantica. Questi non avrebbe mai smesso di denunciare, anche in Parlamento, la tentazione di forze interne alla DC di adottare politiche neutraliste o, comunque, che conducessero a una politica autonoma, libera da vincoli di appartenenza agli schieramenti militari caratterizzanti la guerra fredda.

La seconda visione emerse nell’ambito della sinistra democristiana, che invece riteneva giunto il momento di attuare una politica estera, meno legata all’ortodossia atlantica. In quella parte della DC, alcuni spingevano per una politica estera maggiormente autonoma rispetto ai vincoli derivanti dal sistema di alleanze occidentale. La diplomazia italiana doveva sviluppare con maggior decisione le potenzialità di cooperazione politica-economica nello scacchiere mediterraneo, andando oltre l’ormai tradizionale politica estera condizionata dagli impegni euroatlantici. Secondo tale interpretazione, l’Italia doveva ridare spazio alla diplomazia bilaterale mettendo a frutto le sue peculiarità geografiche, storiche ed economiche. Era lo stesso contesto internazionale che lo richiedeva, poiché il processo di distensione tra le grandi potenze, pur con tutti i suoi limiti, apriva spazi di manovra impensabili fino a qualche anno prima. La richiesta al governo di una politica bilaterale più coraggiosa, in grado di cogliere queste occasioni, s’indirizzava soprattutto verso i rapporti con i paesi del Terzo Mondo, di cui il mondo arabo era parte integrante. Molti dei sostenitori di questa svolta avevano quali principi ispiratori quelli del dossettismo e degli insegnamenti della Chiesa del Concilio Vaticano II. Le parole di Papa Giovanni XXIII e della sua “Pacem in Terris” nei primi anni Sessanta erano state fonte di ispirazione dell’idea della necessità di un quadro di cooperazione nel Mediterraneo per la tutela della pace e della sicurezza regionale. La dignità umana, l’eguaglianza tra gli uomini, l’equità nei rapporti tra gli Stati e, soprattutto, la pace universale, quale bene assoluto per lo sviluppo umano, erano alcuni dei principi ispiratori di questi democristiani, che guardavano al Mediterraneo e ai suoi popoli con speranza. Tra questi si ricorda certamente Giorgio La Pira, sindaco di Firenze, ma anche Virgilio Rognoni e Carlo Fracanzani, tutti esponenti della sinistra DC. Meno noto forse è il nome di un altro cattolico, il parlamentare Luigi Granelli. Questo ultimo avrebbe legato il suo nome a un convegno sulla politica estera dell’Italia, organizzato a Gorizia nel 1969. In quell’occasione, lo stesso Granelli espresse la richiesta al governo Rùmor, allora in carica, di esercitare uno sforzo affinché la politica araba, e non solo quella, fosse meno legata agli schemi della guerra fredda, cercando di inventare nuove formule di collaborazione internazionale con gli altri Stati, soprattutto attraverso le relazioni bilaterali.

Il confronto tra le posizioni descritte non avrebbe visto un vincitore perché la politica mediterranea dell’Italia avrebbe continuato a correre lungo un percorso difficile negli anni Settanta, dovendo rincorrere costantemente un equilibrio precario tra le esigenze dei due pilastri della politica estera della Repubblica, l’Alleanza atlantica e le CEE, e quelle di una politica filoaraba sempre più marcata. Dimenticata la formula dell’equidistanza del 1967, la vicinanza nei confronti dei paesi arabi divenne un elemento costante, caratterizzando le posizioni dei governi guidati da Andreotti e di Moro a metà degli anni Settanta e oltre.

In quel periodo la politica mediterranea dell’Italia si sarebbe collegata sempre più alle esigenze di distensione nel Mediterraneo, ponendosi come politica di pace e di cooperazione economica con i tutti i paesi dell’area. Gli esecutivi degli anni Settanta avrebbero cercato di rafforzare le relazioni con i paesi arabi, volendo assicurare la stabilità geopolitica del contesto mediterraneo attraverso una politica filoaraba. In questo senso, bisognare leggere l’attivismo del presidente del Consiglio Andreotti nei confronti dei paesi arabi moderati come la Tunisia di Bourghiba, ma anche di Stati come la Libia di Gheddafi, nonostante la crescente imprevedibilità della politica di Tripoli. Altrettanto significativo è il tentativo italiano, ispirato da Moro, di coinvolgere anche i paesi della costa meridionale del Mediterraneo nel sistema di promozione della sicurezza e cooperazione tra gli Stati in Europa definito dalla CSCE a metà del decennio. Tutto questo rappresentò in sostanza la riconferma da parte di Roma della validità del principio ispiratore della politica mediterranea degli anni Sessanta. Solo una stabile collaborazione politica-economica tra tutti gli attori presenti nel Mediterraneo era in grado di garantire la stabilità geopolitica di quell’area.

La tendenza filoaraba degli esecutivi italiani si sarebbe confermata nel decennio successivo. La politica del primo presidente del Consiglio socialista, Bettino Craxi, avrebbe continuato a favorire la vicinanza nei confronti degli Stati arabi, in particolare quelli moderati. Come era accaduto nel passato, questa diplomazia avrebbe spesso tentato di evitare il confronto in caso di crisi politica tra Roma e gli stessi governi arabi, per salvaguardare un’immagine dell’Italia diversa dal resto dell’Occidente. Questa sorta di imperturbabilità diplomatica avrebbe raggiunto il suo culmine nel 1986, in occasione del lancio di un missile da parte libica verso Lampedusa, come ritorsione dell’attacco aereo americano contro il paese arabo.

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