Recensione: Vera Capperucci, Il Partito dei cattolici. Dall’Italia degasperiana alle correnti democristiane

Il libro di Vera Capperucci sembra andare incontro alla diffusa richiesta di un rinnovamento della storia politica in Italia. Esso rappresenta, infatti, un salto di qualità, in special modo dal punto di vista metodologico, per la storiografia repubblicana.

Lo studio ribalta il pregiudizio negativo sull’esistenza delle correnti nei partiti politici sedimentatosi nel dibattito scientifico, riflesso, in qualche modo, del dibattito pubblico e della memoria collettiva sui partiti di massa formatosi nella prima metà degli anni Novanta, in seguito agli sconvolgimenti del sistema politico italiano.

Il tema è affrontato dalla particolare prospettiva della storia della Democrazia cristiana, dagli anni della Resistenza alla prima metà degli anni Cinquanta, il partito che maggiormente ha risentito, fin dalla sua nascita, del fenomeno della «correntizzazione». Contrariamente a quanto sostenuto in una prima stagione di studi, il lavoro della Capperucci mostra come la presenza delle correnti non rappresentasse la misura della distanza tra sfera politica e sfera sociale. Al contrario, esse svolsero un ruolo fondamentale nella mediazione tra il partito e il mondo esterno, fungendo da fattore di stabilizzazione non solo degli equilibri interni della Dc, ma di tutto il sistema politico.

L’autrice riprende alcune considerazioni di Farneti sul ruolo svolto dalle correnti nel passaggio dalla concezione liberale e notabilare della politica all’istituzionalizzazione dei partiti di massa nei primissimi anni della Repubblica. Tale transizione, spiega Vera Capperruci, fu fondamentale nella storia politica del Paese: il sistema dei partiti, infatti, sanciva la fine del primato dell’esecutivo e affidava a questi il ruolo di mediazione di interessi e di spinte politiche e sociali diverse, a volte in contrasto tra loro. Le correnti, dunque, rappresentando gruppi e sottogruppi, divennero i canali attraverso i quali la Democrazia cristiana riuscì a mediare con la società e le istituzioni.

La presenza di indirizzi diversi, anche all’interno della stessa generazione, in riferimento al modello di partito che la classe politica cattolica, nel secondo dopoguerra, aspirava a costruire, caratterizzò la nascita della Democrazia cristiana e i suoi primi anni di vita. Si delineò, così, un vero e proprio modello federativo, all’interno del quale si confrontavano le tendenze di destra, di sinistra e di centro, destinato a rimanere inalterato fino al 1953.

Vere e proprie correnti, dunque, come quella degli ex-popolari, la neoguelfa, la sinistra cristiana reduce dell’esperienza della Resistenza, ecc., segnarono la vita del partito fin dai suoi esordi nella nuova vita politica iniziata dopo la disfatta del fascismo. Pluralità quindi, ma anche convergenza delle tendenze interne alla Dc nel ritenere il partito l’architrave dell’intero sistema politico del Paese. In questa visione strategica del ruolo della Democrazia cristiana, fu fondamentale la figura di Alcide De Gasperi convinto che la centralità istituzionale della Dc fosse l’argine per impedire che l’Italia venisse sconvolta dalle contrapposte derive rivoluzionarie e reazionarie. L’unità politica dei cattolici, di conseguenza, diveniva l’esigenza imprescindibile, nei confronti della quale tutte le tendenze presenti della Dc dovevano uniformarsi. In questo senso, le correnti di sinistra, di centro e di destra furono vere e proprie «braccia» verso l’«esterno», gli «strumenti attraverso i quali conservare l’unità e garantire la sintesi di orientamenti utili a realizzare la vocazione centrista di un partito cattolico, nel suo significato positivo e dinamico».

La discussioni sulla scelta istituzionale, sulla politica estera e in un secondo momento su quella economica non scossero questo equilibrio. La Dc doveva divenire il «partito-paese»: la conservazione dell’unità era funzionale al mantenimento della centralità politica, alla difesa della democrazia contro le spinte di estrema destra e quelle di sinistra, ed, infine, alla stabilizzazione dell’esecutivo. Certo, non mancarono le tensioni, in special modo per l’incessante richiesta delle correnti interne alla Dc di formalizzare la struttura federativa. Tuttavia, la strategia degasperiana salvaguardò l’unità del partito dal rischio di una scissione. Il successo nazionale della Dc e della leadership dello statista trentino, il contesto internazionale e l’appoggio della Chiesa furono, infatti, fondamentali fattori di stabilizzazione.

La storia che scrive Vera Capperucci è dunque una fittissima trama, dove molto spazio viene dedicato alle sfumature, alle differenziazioni e alle singole caratterizzazioni delle correnti, da quelle più importanti a quelle effimere. Si accennava ad importanti innovazioni metodologiche. Il contributo più importante di questo studio, infatti, ci pare la capacità dell’autrice di aver scritto una vera e propria mappa, tracciando le rotte e le traiettorie del mondo politico cattolico, anche al di fuori degli schemi classici che la storiografia sull’Italia repubblicana, e in particolar modo quella sui partiti politici, finora ci ha restituito.

In una fase storica, dove il ruolo dei partiti di massa sembra aver compiuto definitivamente la propria parabola e i rapporti di potere e le geometrie della politica sembrano di difficile decifrazione, il libro della Capperucci ci fornisce strumenti essenziali per analizzare le forme di politicizzazione e le relazioni politiche in questa epoca di transizione. A partire dalla capacità di individuare le tensioni, i tratti identitari e le cordate di un mondo politico diffuso e sparso nei partiti, nelle istituzioni e nella società civile.

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