Recensioni:
– Sergio Bianchi, Storia di una foto. 14 maggio 1977, Milano, via De Amicis. La costruzione dell’immagine icona degli «anni di piombo». Contesti e retroscene, Derive e Approdi, Roma, 2011, ISBN 978-88-6548-018-2, € 20, pp. 168.
– AA.VV., Daddo e Paolo. L’inizio della grande rivolta. Roma, piazza Indipendenza, 2 febbraio 1977, Derive e Approdi, Roma, 2012, ISBN 978-88-6548-043-4, € 20, pp. 168.
– Raffaele Perna, Sergio Bianchi, Le Polaroid di Moro, Derive e Approdi, Roma, 2012, ISBN 978-88-6548-052-6, € 20, pp. 215.
di M. Di Giacomo
La casa editrice Derive e Approdi continua in questo 2012 la sua serie “Fotografie” con tre nuovi volumi incentrati sul biennio 1977-’78. Con questi, la collana prende un carattere più omogeneo rispetto ai titoli pubblicati in precedenza, caratterizzandosi ora con la volontà di bloccare i momenti più significativi della lotta armata degli anni Settanta attraverso le immagini che ne sono diventate simbolo. Pur essendo affini tra loro e parte di un unico discorso narrativo, i tre volumi non si strutturano però intorno agli stessi assi e intorno alle stesse scelte narrative. Ad accomunarli è una scarsa bibliografia di riferimento e spesso interna allo stesso movimento che si vuole raccontare; note a margine quasi inesistenti e per lo più esplicative piuttosto che documentative; e un sostrato di sottintesi amplissimo. Paradossalmente, per quanto si ricostruiscano dettagliatamente eventi e personaggi, anche la più minuziosa delle schede è in parte slegata da un contesto generale – l’Italia degli anni Settanta – che appare più come contorno che come scenario. Il lessico è (volutamente?) di un registro basso, che rispecchia l’istantaneità di quei momenti ma che evidentemente ambisce anche a raggiungere un vasto pubblico da un lato e un determinato target che a quegli stessi eventi è ancora legato dall’altro. Un lessico che diventa a tratti “retrò”, costellato dalle parole d’ordine d’allora come se fossero pienamente inserite nell’oggi. Infine, hanno in comune un continuo andare avanti e indietro tra le voci del passato e le analisi del presente. Non si strutturano cioè secondo un ordine cronologico o tematico ma alternano gli interventi più “scientifici” alle testimonianze e alle schede di ricostruzione degli eventi.
Non per questo non si possono considerare lavori “ricchi”. Sono ricchi anzitutto di immagini: inedite, riscoperte, rilette in una chiave più fotograficamente filologica. Poi sono densi di documentazione: articoli di giornali dell’epoca, ricostruzioni giudiziarie, trascrizioni di radiocronache. Sono libri “militanti”, nel senso che, pur con trentacinque anni di distanza, sono parte di un movimento nei confronti del quale, se non empatia, c’è però volontà di fare quella chiarezza che sembra oggi necessaria a pulirne l’immagine. Dopo anni ed anni di analisi che l’avevano coperta “di piombo”. Il che li rende anche libri utili: sfatare ricostruzioni che, pur radicate nella memoria collettiva, hanno sostanzialmente fornito una visione distorta degli eventi è un’operazione storiografica sempre fruttifera. Tanto più se svolta in una forma accattivante anche per i non “addetti ai lavori” come questi volumi ambiscono – e riescono – a fare.
Storia di una foto è un libro intelligente. Nel senso che tenta di ricostruire dettagliatamente e con quante più sfaccettature possibili il contesto politico e sociale che condusse a dare vita all’immagine immortalata nello scatto di Paolo Pedrizzetti in Via de Amicis a Milano, il 14 di maggio del 1977: un tiratore dal volto coperto sul punto di sparare a un nemico invisibile. Molti spettatori di quegli anni riconoscono immediatamente nello scatto il momento in cui Memeo, militante del movimento degli autonomi milanesi, sta per colpire il Vicebrigadiere Custra nel pieno di un conflitto a fuoco esploso nel corso di una manifestazione studentesca di poco successiva all’uccisione a Roma di Giorgiana Masi. La volontà del libro – in buona parte riuscita – è rendere fedelmente la concitazione di quei momenti, ma anche renderli di nuovo “storia” e non più immagine statica di un soggetto che, per quanto mitizzato, è diventato nella memoria collettiva uniforme ed opaco. Per far ciò, accosta un marcato tratto memorialistico – con le testimonianze di protagonisti dell’epoca come Paolo Pozzi, allora direttore di “Rosso”, e Andra Bellini e persino con una history-fiction – ad un’intelligente uso dell’analisi visiva che pone al centro uno scatto, ma lo circonda di altri 26 altrettanto indispensabili per capire l’unicità di quell’uno – ciò che l’ha reso un simbolo e le ragioni della sua ricezione –, ma anche la sopravvalutazione e distorsione che di esso fu fatta – ricollocandolo in un clima collettivo che gli riconsegna significato storico. Di quello scatto si presenta al lettore un’analisi socio-politica “classica” – quella coeva e celeberrima di Umberto Eco che codificò la lettura di quello scatto come dell’affermazione della figura dell’eroe individuale ma negativo, in contrasto con l’elemento collettivo o sacrificale delle raffigurazioni del concetto di rivoluzione di tutte le generazioni precedenti; una estetico-semiologica di Paolo Fabbri e Tiziana Migliore – che tenta di risalire a prima che la foto diventasse un simbolo e ne descrive gli aspetti di imminenza e le scelte stilistiche che a questo taglio fortemente ritmico e narrativo concorrono; una “artistica” di Raffaella Perna che ripercorre l’uso che di quella foto è stato fatto nella storia dell’arte, con ulteriori slittamenti semantici tanto rispetto all’originale significato quanto a quello simbolico successivo. Il volume riesce a far riemergere una dimensione corale, ma anche una frammentarietà, una confusione, del movimento dell’autonomia milanese. E soprattutto rimette in discussione il paradigma dell’eroe solitario che la lettura di Eco aveva proposto e che la sua autorevolezza ha poi diffuso e cristallizzato – tanto da produrre versioni modificate della foto che esaltavano la solitudine del tiratore. Infine, il volume riesce nel suo scopo di mimare il ritmo sincopato dei pochi minuti in cui gli eventi precipitarono: in cui si sparò, cadde il Vicebrigadriere, fu scattata la foto, fu incendiato un tram, fuggirono gli autonomi. Ma in questa spettacolare vertigine crescente, rimane aperta una domanda: fu il 14 maggio l’inizio o la fine dell’autonomia?
Diversa la struttura di Daddo e Paolo. Diverso anche l’input alla base del volume: ossia la pubblicizzazione, da parte di Tano D’Amico, di una sequenza di 22 foto da lui stesso scattata in Piazza Indipendenza a Roma, il 2 di febbraio del 1977. Il giorno in cui, durante una manifestazione, furono feriti Leonardo “Daddo” Fortuna e Paolo Tomasini. La questione centrale che sorge dalla pubblicazione di queste foto è data dalla necessità di de-codificare le vicende di “Daddo-e-Paolo”, diventati quasi un unico soggetto nella memoria dei militanti dell’autonomia romana. Erano cioè due antifascisti indifesi, la versione “ufficiale” radicatasi sin dai primi istanti dopo il loro arresto e rimasta così senza potersi sottoporre a dubbio nei trent’anni successivi, o erano invece due provocatori – o quanto meno due appartenenti ad una parte del movimento che credeva nell’uso delle armi – andati armati ad una manifestazione? Per codificare la prima fu necessario far scomparire tutti gli scatti che potevano supportare la seconda. E mettere davanti agli occhi di giudici e opinione pubblica un’immagine che presentava anzitutto due persone a volto scoperto – dunque “familiari” –, in fuga e atterrate – dunque “indifese”. Enfatizzando inoltre gli aspetti collettivi, solidari, amichevoli dei rapporti interni al movimento dell’autonomia. Tutto il contrario di quel che la lettura di Eco codificò per l’immagine-simbolo dell’autonomia milanese. Questa fu la scelta operata dal movimento stesso, che mai legittimò pubblicamente l’uso delle armi e che in questo sempre fu distinto dai gruppi terroristi. Fu, questa, un’operazione che lo stesso Tano D’Amico riconosce di aver volontariamente portato a termine: la questione, ricorda il fotografo e conferma Raffaella Perna nel suo percorso nella fotografia giornalistica degli anni Settanta, era che i reporter non erano e non intendevano essere obiettivi ma concepivano la propria arte come un atto politico, come una scelta di parte. Il che implicava nascondere gli scatti che potevano danneggiare i due militanti nelle vicende giudiziarie successive al loro fermo. La volontà di proteggere loro e il movimento cui lo stesso fotografo si sentiva interno. Nelle foto pubblicate all’epoca, lo sguardo era dunque quello del fotografo, ma soprattutto quello dei militanti. Tre gli aspetti centrali del volume. Anzitutto, a differenza del precedente, non punta tanto sulla storicizzazione degli eventi quanto sulle immagini, sulla loro lettura e soprattutto sulla ricostruzione del clima di militanza che caratterizzava le scelte estetiche di un gruppo di fotografi che del movimento del 1977 fu testimone da Milano a Roma e a Palermo. In secondo luogo, presenta le diverse esigenze politiche che il movimento, il Pci, lo Stato – e poi la storia – hanno adottato rispetto a quegli eventi – e dunque l’uso più o meno distorto che delle uniche foto rimaste in circolazione fu fatto per accaparrarsi il primato dell’antifascismo. Infine, soprattutto, punta a rendere “reali” i due personaggi diventati emblema di un movimento, raccontandone con le parole di amici e compagni di militanza, la vita di prima e dopo il 2 febbraio, raccontandone le emozioni, i sentimenti e le certezze politiche che li avevano condotti alla militanza ma anche quelle dell’esperienza del carcere e della malattia. Segnalando come fu una fusione generazionale, biografica, prima che un’alleanza strategica, quella che condusse un proletario di Primavalle e un borghese della Balduina insieme nella militanza e infine insieme feriti su un marciapiede: una ricomposizione di classe che ha fatto di Daddo e Paolo gli emblemi di quel movimento in un momento in cui si andava armando ma voleva ancora rappresentarsi come innocente vittima di repressione.
Le Polaroid di Moro è dei tre volumi il più corposo. Racconta la storia del sequestro Moro a partire dallo spunto delle Polaroid inviate dai brigatisti con l’immagine del sequestrato a testimonianza della sua permanenza in vita e a smentita delle false voci che già circolavano sull’esito finale del sequestro. Si basa su una bibliografia molto più ampia di quella degli altri due libri: non solo sulle memorie dei principali testimoni ma anche su una ricca ricognizione tra la storiografia più recente. Importanti anche le fonti documentarie delle Br citate nel volume. Moltissime le foto: le Polaroid di Moro, dei brigatisti nel carcere, di Moro trovato cadavere, della tomba. Ma nessuna nuova e quantitativamente meno che negli altri. Come anche gli altri, però, è alquanto altalenante tra saggi densi di contenuti e ricostruzioni narrative. Tra i primi, il contributo di Pio Marconi, lungo e approfondito percorso nell’intero excursus interpretativo delle Br dal 1974 sino alla decisione di portare la lotta sul piano della “guerra guerreggiata” e dell’“attacco al cuore dello Stato”. Altrettanto interessanti le riflessioni di Tano D’Amico, che segnala come manca il fotografo negli scatti delle Br. Il fotografo, lo sguardo, è quello di Moro. L’unico regista del successo di quelle foto è Moro, che superano così la meccanica volontà documentaria di chi ha scattato – che aveva peraltro, segnala il fotografo, un immaginario visivo “vecchio”, frutto di una disumana servitù dell’uomo alla macchina. Ben fatte anche le schede sul contesto, dalla solidarietà nazionale alla formazione della colonna romana delle Br. Intelligente anche la scelta di ripartire dalle altre foto, quelle dei sequestri precedenti a quello di Moro – ma anche qui: dissonante la preferenza di dedicare ad alcune solo poche righe di memorie di brigatisti e ad altre analisi molto più dettagliate e a ricostruzioni dei sequestri cui si riferiscono e soprattutto assente una spiegazione delle componenti stilistiche di quelle foto e del significato che quelle scelte stilistiche intendevano veicolare. Duplice la narrazione di via Fani: Marco Clementi ne tenta una in piano americano, Sergio Bianchi ne “inventa” una in soggettiva. La volontà narrativa è la stessa che negli altri volumi: ritmi serrati, foto, copertine di giornali, tutti i comunicati delle Br riprodotti per intero, persino un fumetto uscito sul primo numero di “Metropoli” del giugno 1969. Tutto per rendere la complessità mediatica dell’evento-rapimento, di cui le foto sono però “la forma sintetica che si cristallizza nella mente” che sovrasta tutte le altre immagini del politico democristiano di prima, durante e dopo il rapimento, per usare le parole di Giovanni Fiorentino. E allora via libera alle lettere “al carcere”, alla storia della Polaroid come mezzo espressivo, alla negazione dell’identità di Moro-prigioniero. E soprattutto via libera alla serie infinita di passaggi e mediazioni che hanno reso Moro una presenza nell’immaginario collettivo degli ultimi trent’anni con quel preciso volto immortalato dalle Polaroid dalla prigione: cinema – il contributo di Francesco Galluzzi sui pochi film italiani che si sono confrontati con l’immagine di Moro senza riuscire a portare a compimento la sua “elaborazione mitologica”; arti visive – l’analisi di Raffaella Perna che spazia dalla prima opera che ha riciclato l’immagine di Moro, di Lamberto Pignotti nel 1978, sino alle ultime di Elisabetta Benassi nel 2011, evidenziando che l’uso di quell’immagine per quegli artisti è significato il confronto con la veridicità dell’immagine e con la manipolazione dell’informazione; satira – le vignette de “Il Male” che ironizzavano sul sequestro. Per concludere, Le Polaroid di Moro è un libro stimolante, tra il divulgativo, lo scientifico e l’originale. Aggiunge non molto alla già vasta produzione sul sequestro, e ciò – non per sua colpa ma rischio intrinseco alla scelta di quel soggetto – lo rende di per sé meno interessante degli altri due volumi della collana di cui si è parlato. Che tentano invece di fare luce su aspetti meno poco studiati di quel periodo e su cui ancora l’opera di smantellamento di stereotipi è lontana dall’essere compiuta.