A proposito di Salò e della nostra storia

Insieme al “fare” c’è il problema del “comunicare” storia; ormai lo sappiamo bene. La recente polemica sulla Repubblica Sociale di Salò sull’8 settembre ha molto da insegnarci. L’antefatto è presto richiamato. Nel giro di pochi giorni, due esponenti di Alleanza nazionale con importanti incarichi istituzionali, il sindaco di Roma Gianni Alemanno e il Ministro della Difesa Ignazio La Russa, avevano riacceso le polemiche sul fascismo; il primo, sminuendo le responsabilità del regime, fatta eccezione per le leggi razziali del 1938; il secondo, di fatto equiparando, nelle celebrazioni dell’8 settembre, il patriottismo dei partigiani con quello degli aderenti alla Rsi. Guardiamo in questa sede non tanto ai politici ma a come gli storici hanno interpretato il loro ruolo nello scenario del discorso pubblico, in particolare sui giornali e sulla carta stampata.
“Il Giornale” del 10 settembre 2008 pubblicò un’intervista di Luca Telese al giornalista Giampaolo Pansa, con il seguente titolo: Pansa: «Vi svelo le ipocrisie degli antifascisti». L’intervistatore dice che «il giornalista più famoso d’Italia è un fiume in piena» e che vuole capire «cosa pensa» della polemica sull’armistizio dell’8 settembre, nonché sulla Repubblica Sociale di Salò e sulla sua memoria nella cultura della Repubblica. L’ultimo suo libro, I tre inverni della paura, definito da Pansa stesso «un via con il vento nella guerra civile», stava dando nuove soddisfazioni al suo compiaciuto autore: «Cinquecento persone a Parma domenica…Chissà quante ne troverò sabato a Revere, in provincia di Mantova. Per questo pubblico, fra cui molti giovanissimi, è come se parlassi di ieri».
Pansa diceva di non capire lo scandalo suscitato dalla frasi di Ignazio La Russa, Ministro della Repubblica, sulla cui funzione esprimeva una opinione singolare: «il Ministro della Difesa non è un sacerdote della repubblica, tenuto all’imparzialità! Non siede al Quirinale. E’ un politico, un ministro». Immaginiamoci uno scenario simile in Francia, con un Ministro della Difesa che avesse dato giudizi analoghi sul regime di Vichy: il patriottismo repubblicano di tutti, sinistra e destra, senza neanche dover fare appello agli storici di professione, avrebbe indotto il malaugurato a rassegnare le proprie dimissioni.
A proposito dei “ragazzi di Salò”, nonostante le cautele opportune a cui lo richiamava l’intervistatore, Pansa dimostrò ancora una volta di non trovarsi a suo agio quando la riflessione storica voglia dimostrarsi capace di contestualizzare eventi e protagonisti. Quei ragazzi intanto, egli diceva, non possiamo «etichettarli come torturatori e amici dei nazisti!». Si potrà discutere sui “torturatori”, ma che nella Rsi non ci fosse la consapevolezza di stare con i nazisti di Hitler e per il “nuovo ordine europeo” totalitario, come farebbe un qualunque e serio studioso di storia a metterlo in dubbio? E ancora, come se quello fosse il problema storico: « Molti di coloro erano cresciuti nel regime fascista, immersi in un clima di propaganda perenne […] E quindi, la maggior parte di loro, non poteva certo schierarsi per un parlamento legittimo. […]. Quella educazione, fatalmente, portava molti di loro all’idea che difendere la patria dagli angloamericani fosse il primo dovere». Ma quale patria? Quella fascista e certamente non quella di tutti gli italiani, negata dal fascismo fin dalle sue origini. La semplificazione (“giornalistica”?) portava, come si vede, a confondere piani di riflessione che uno storico vuole invece tenere disgiunti e indagare con spirito critico. Ci torneremo.
Ma il passo laddove emergeva il nocciolo del “fare storia” di Pansa era il seguente: «Da storico “dilettante” mi occupo di queste cose dai tempi della laurea… Sono storie complesse. Altrimenti non si capisce come mai, fra questi ragazzi, ce ne’erano molti che divennero sinceri antifascisti». E qui il giustificazionismo della “buona fede” dei “ragazzi di Salò” ancora ritornava; come se tra le categorie di giudizio storico essa sia un criterio accettabile. Quante infamie e quanti delitti dovremmo, in tal caso, giustificare? Per non dire dei diversi “tempi storici” dell’antifascismo – prima e dopo il regime -, presentati invece nel filo della continuità. Anche qui ci ritorneremo.
Pansa, a dir il vero, ebbe modo anche in precedenza di dirsi uno “storico dilettante”, forse però più per conquistare un po’ di simpatia e non per convincimento e senso della misura. Glielo vogliamo dire, amici e colleghi storici? Caro Pansa, noi la leggiamo sempre volentieri, ma si convinca: lei è proprio un dilettante nel “fare storia”! E’ invece un maestro della comunicazione e si vede anche nel modo in cui i suoi libri entrano nel circuito mediatico.
Tanto per essere più chiari e non ingenerare fraintendimenti, guardiamo un vocabolario della lingua italiana (un classico Zingarelli, edizione 1967), il quale ci dice alla voce Dilettantismo: «Il coltivar per diletto qualche arte e studio; spesso per vanità e superficialmente» (p. 379). Alla voce Professione invece si legge: «Studio ed esercizio di un’arte, spec. di studio e sapere; per utilità pubblica o per guadagno» (p. 1247). E’ chiara la distinzione delle figure a cui si allude.
A questo punto però, occorre mettere in campo un esempio possibile di storico professionista. Proprio in relazione alla polemica in questione – mi perdonerà l’amico Emilio Gentile se lo tiro in ballo a sua insaputa e in funzione di un percorso tutto mio – abbiamo avuto un bell’esempio di cosa voglia dire comunicare storia. “LaRepubblica” dell’11 settembre pubblicava un’intervista di Simonetta Fiori a Gentile sulla realtà storica del fascismo, sotto il titolo Il fascismo negato. Falsi miti e luoghi comuni. Tutti noi storici e studiosi, nel leggere l’intervista, abbiamo plaudito al rigore del metodo e dell’analisi, nonché alla passione civile con cui si incitavano i nostri concittadini a riappropriarsi di una critica conoscenza della storia nazionale.
La premessa rinviava al problema di fondo che soggiace al frustro riemergere di polemiche sul passato fascista, altrove inimmaginabili.
«È il nostro paese, la nostra cultura nazionale, a non aver mai fatto i conti fino in fondo con il totalitarismo fascista. Le recenti sortite del sindaco di Roma e del ministro della Difesa avvengono in un contesto politico e culturale che le legittima, in un terreno favorevole concimato in questi anni da formulazioni e stereotipi diffusi purtroppo anche in parte della storiografia e nel discorso pubblico». Si voleva riprendere il «fenomeno tutto italiano che è la “defascistizzazione del fascismo”. «In Italia è stato cancellato tutto quello che il fascismo ha rappresentato come distruzione della democrazia e umiliazione della collettività. La defascistizzazione del fascismo nasce da un totale travisamento di quello che il regime è stato. A quest´offuscamento non è estranea la cultura antifascista. Per molti anni è prevalsa a sinistra l´immagine d´un regime ventennale sciolto come un castello di carte, una “nullità storica” con cui in sede storiografica s´è cominciato a fare i conti troppo tardi. A destra gli umori hanno oscillato tra la caricatura e l´indulgenza, fino alla tesi del fascismo modernizzatore: un´interpretazione che dura tuttora».
Gentile metteva a fuoco quel problema storico in quanto origine di ogni successiva valutazione, anche di ciò che ritorna così spesso nei discorsi pubblici sulla nostra storia nazionale: «la dittatura è un fatto accidentale o appartiene all´essenza del fascismo e alla volontà di Mussolini? Le leggi razziali sono estranee a ciò che il fascismo era stato fino a quel momento? Se noi optiamo per una lettura accidentale, le leggi antisemite furono un incidente di percorso dovuto a influenze esterne. Con tutto quello che ne consegue: la buona fede, il patriottismo, i valori di chi servì il fascismo».
Il tema del patriottismo, da diversi anni ormai declinato in modo sommario e indistinto su giornali e media, va sottratto ad ogni uso distorto. Ci sono ragioni, che non siano politiche, affinché un ministro della Repubblica democratica, come il ministro La Russa, renda omaggio al valore dei “patrioti di Salò”?. A Gentile ancora la parola.
«Quale patria? Una delle caratteristiche del fascismo fin dalle origini fu quella di negare l´esistenza di una patria di tutti gli italiani: esisteva soltanto la patria di coloro che aderirono al fascismo. Anche soggettivamente il patriottismo fascista fu liberticida. È Mussolini che il 4 ottobre del 1922, prima della Marcia su Roma, dichiarò che lo Stato fascista avrebbe diviso gli italiani in tre categorie: gli indifferenti, i simpatizzanti e i nemici. Questi ultimi, annunciò, andavano eliminati. Se si parte da queste premesse, non c´è più una patria degli italiani: c´è solo la patria dei fascisti. Per i seguaci del duce, Amendola e Sturzo non sono italiani. È questa stessa logica che nel 1938 conduce Mussolini ad affermare che gli ebrei sono estranei alla razza italiana e per questo vanno discriminati».L’altro tema ricorrente nei discorsi pubblici è quello della “buona fede” di quanti, tra cui molti giovani, aderirono alla Rsi. Come si pone uno storico di fronte a questo problema? Ancora Gentile: «Per capire storicamente si deve considerare anche la buona fede. Ho scritto anch´io sul patriottismo nella Rsi. Ma la buona fede non può essere un criterio di valutazione storica! Se avessero vinto Mussolini e il Führer, che ne sarebbe stato di questi patrioti idealisti o non fascisti? Che fine avrebbero fatto in un nuovo ordine dominato da Hitler, ancor più totalitario, razzista e nutrito d´odio feroce? Anche i responsabili dei campi di concentramento nazisti come Rudolf Höss, il comandante di Auschwitz, professarono d´essere bravi padri di famiglia e sinceri amanti della patria. Forse lo pensavano anche i guardiani dei gulag».

Lo scioglimento in una chiave storica, seria e rigorosa, dei due temi accennati – il patriottismo fascista e la “buona fede” dei saloini – è preliminare rispetto all’interrogativo oggi attualissimo: «senza fare i conti con la vera natura del regime – nella complessità della sua origine, del suo svolgimento e della sua fine – sarà difficile affrontare con consapevolezza critica il problema dell´eredità fascista nelle istituzioni, nella politica, nella società e nei costumi degli ultimi sessant´anni». E ancora. «Dopo le grandi passioni ideologiche d´una volta, su una spinta cinica e irrazionale il nostro paese ha forse rinunciato sia all´ideologia che alla conoscenza storica. Appare come svuotato, isterilito sul piano etico e nella coscienza civica. Sull´apologia del fascismo prevale l´apatia, l´insensibilità ai problemi della libertà. Gli italiani sembrano indifferenti alla storia, dunque più esposti alle semplificazioni».
E proprio in relazione alla necessità di contrastare le letture semplificate del nostro recente passato, al di fuori di ogni seria riconsiderazione storica, che assume rilevanza la necessità di distinguere, all’interno della comunità di studiosi e nella proiezione nel discorso pubblico, tra la professione dello storico e la sua declinazione dilettantesca, tanto più se si insegue il favore acritico del “grande pubblico”, disabituato ormai a confrontarsi con la complessità del “fare storia”. La chiave privilegiata in questa occasione trova conforto in diversi altri interventi di studiosi, storici e politologi, in quei giorni apparsi sulla stampa.
Amare e realistiche risultarono le annotazioni di Gian Enrico Rusconi sulla “Stampa” del 13 settembre, nell’articolo titolato Populismo e il passato che ritorna. «Il Paese ha perso l’orientamento. Nessuno lo rappresenta più davvero. […] Il ceto degli intellettuali si è dissolto in singoli individui o in piccoli gruppi. Non solo ha perso valore la qualifica di destra o sinistra, non ci sono più conservatori e progressisti, ma si è smarrito il senso di ciò che tiene insieme questo Paese. […] La storia nazionale è impunemente sequestrata da dilettanti e mistificatori. Ormai si può dire tutto su tutto – dall’8 settembre al terrorismo delle Brigate Rosse. Ciò che importa è il rumore mediatico che copre ogni altra voce e può contare sulla spossatezza degli studiosi seri. La serietà è diventata noiosissima in questo paese: è intollerabile e incompatibile con il talk show permanente».
Nelle sue sempre preziose “Mappe”, sulla “Repubblica” del 14 settembre e sotto il titolo Prigionieri del passato, Ilvo Diamanti si interrogava sul paradosso di un paese, il nostro, quasi paralizzato, tra oblio diffuso e memorie conflittuali invece riemergenti nel discorso pubblico. Ai dilettanti di cui si diceva, diremmo noi, si univano quanti, dal privilegiato palcoscenico della politica, contribuiscono senza discernimento alcuno a riscrivere una storia a proprio uso e consumo. «Il ritorno del passato è, per molti versi, giusto e utile, perché dalla nostra storia possiamo trarre identità comune. Ma da noi succede l’opposto. La storia viene riscritta ad arte, da una stagione all’altra. La memoria è usata per dividere. Per cui, non solo il fascismo, neppure il comunismo passa mai di moda». Diamanti proponeva una via d’uscita dalla condizione di «prigionieri del passato»”: ritornare a guardare e progettare di nuovo un futuro per il paese. «Un paese smemorato e, al tempo stesso, incalzato dalla memoria. Sospeso tra rimozione, revisione nostalgia. Per sottrarsi alle trappole del passato che non passa mai, resta solo una via. Guardare avanti. Progettare – o almeno immaginare – il futuro».
Intervistato nel quadro di una inchiesta giornalistica dell“Espresso” del 2 ottobre, apparsa sotto il titolo Barbari in casa (a cura di Wlodek Goldkorn e Gigi Riva), Giovanni De Luna ricordò ancora una volta quale debba essere la distinzione tra memoria e storia nel guardare al passato fascista, rimarcando proprio lo spazio nel frattempo conquistato da chi proprio storico non è. «La confusione tra i due generi aiuta e nutre coloro che la nostra storia la vogliono manipolare per definire i valori della Repubblica. La memoria è individuale: quindi carica di emozioni e di rancore. [La storia invece] è pacata, perché frutto di ricerche, perché fatta da chi se ne intende». E qui si precisava quanto ai più, lettori dei giornali e spettatori televisivi, nei giorni delle polemiche innescate dal ministro La Russa, era ignoto. «la Russa può rivendicare il patriottismo dei soldati del Nembo perché viviamo in abisso di ignoranza della storia. Perché nessuno sa che quei soldati erano inquadrati organicamente nella Wehrmacht, non difendevano la patria (neanche quella fascista), ma il terzo Reich». De Luna non sfuggiva però alla responsabilità di noi storici, soprattutto nella nostra qualità di insegnanti. «La colpa di questo stato di cose è di noi che insegniamo la storia, sia nelle scuole, che come me, nelle università. La scuola è ferma ai vecchi manuali che gli studenti non vogliono leggere, incapace di usare mezzi audiovisivi, raccontare ciò che si vede nelle fotografie e nei filmati»; proprio mentre quella che passa in televisione «è una storia usa e getta, che rifiuta la complessità: appiattita al presente consumista» (pp. 124-125).
La condivisione di un «orizzonte comune» non può fare a meno di un discorso pubblico alla cui costruzione gli storici diano un rinnovato contributo di critica conoscenza, dimostrando non solo di saper scrivere buoni libri di storia ma anche di distinguersi dal dilettantismo semplificatore e mediatico, comunicando in un linguaggio altrettanto nuovo – verso studenti e pubblica opinione – i risultati dei nostri studi.

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