Benito Mussolini prende il potere nel 1922 e subito comprende che per avere il consenso del popolo italiano è necessaria una forte azione di propaganda. “La cinematografia è l’arma più forte”: coerentemente con questo assunto, il Duce fonda nel 1923 L’Unione Cinematografica Educativa (LUCE), con lo scopo di creare una vasta produzione di documentari e di cinegiornali che offrano al pubblico, italiano e straniero, il resoconto delle imprese e dei successi dell’Italia fascista.
Negli anni ’30, poi, il governo vara una serie di provvedimenti per il cinema italiano: la nascita del Centro Sperimentale di Cinematografia, l’inaugurazione della Mostra del Cinema di Venezia, l’erogazione di finanziamenti per le pellicole italiane di qualità. Accanto ai cinegiornali, che esaltano dichiaratamente la politica mussoliniana, poche sono le pellicole di vera e propria propaganda fascista. La scelta del regime è favorire una produzione tesa all’evasione: nasce, così, il filone detto dei “telefoni bianchi”. Si tratta di commedie e melodrammi romantici, con protagonisti personaggi borghesi: l’idea di fondo è rassicurare il pubblico, facendolo divertire e sognare. Tra i successi dell’epoca si annoverano: “La canzone dell’amore” (1930) di Gennaro Righelli, “La segretaria privata” (1931) di Goffredo Alessandrini, “Il signor Max” (1937) di Mario Camerini. Il primo film di chiara ispirazione propagandistica è, invece, “Camicia nera” (1932), prodotto dall’Istituto Luce e diretto da Gioacchino Forzano. Quest’ultimo, come scrive Francesco Bono in “Casta diva & Co – Percorsi nel cinema italiano tra le due guerre”, è una figura singolare nel cinema italiano degli anni ’30: accanto all’attività di regista, è, infatti, autore di testi per il teatro e di libretti d’opera ed è in rapporto di amicizia con Mussolini. “Camicia nera” doveva essere, in origine, il film del decennale ma, per complicate vicende produttive, finì per essere distribuito nel 1933. La pellicola si compone di materiali di repertorio e di parti di fiction, “recitate” da contadini veri delle paludi pontine: è, insomma, un documentario a soggetto. La vicenda narrata è semplice e ha un tono smaccatamente didattico: un fabbro delle paludi pontine viene chiamato alle armi durante la prima guerra mondiale, viene colpito in battaglia , perde la memoria e riesce a tornare a casa solo dieci anni dopo. Era partito lasciando la palude e torna a bonifica ultimata: grazie al fascismo, l’Italia conosce ordine e benessere. Forzano intende, attraverso la storia del fabbro, rileggere i fatti della storia d’Italia dal 1914 al 1932, secondo la versione delle gerarchie ufficiali. Non manca nessuno degli argomenti cari al fascismo: il mito della grande guerra e della vittoria mutilata, il reducismo, il nazionalismo, il patriottismo, l’anticomunismo. “Camicia nera” sottolinea, inoltre, l’importanza dei valori familiari tradizionali, nonché il legame del fascismo con la Chiesa di Roma. L’ultima parte di questa docu-fiction è dedicata, invece, alle conquiste del regime: la lotta alla crisi economica, il risanamento della moneta, le questioni internazionali ma, soprattutto, le bonifiche, segno tangibile del progresso realizzato dal fascismo. Il film di Forzano si conclude, non a caso, con il discorso del Duce nel giorno dell’inaugurazione di Littoria: “la terra che non aveva mai veduto il sole, è diventata feconda” – dicono le didascalie. Dopo “Camicia nera” furono realizzati altri film aventi come fine la celebrazione del regime e dell’Italia: “Vecchia guardia” (1934) e “1860” (1934) di Alessandro Blasetti, “Scipione l’Africano” (1937) di Carmine Gallone, “Luciano Serra Pilota” (1938) di Goffredo Alessandrini e altri ancora, sempre ispirati a successi bellici o a rievocazioni storiche. Tra le opere apologetiche del fascismo, la pellicola di Forzano resta, comunque, la più significativa e, insieme, la più ingenua: anche dal punto di vista tecnico, il regista è mediocre e la sua “Camicia nera” finisce per risultare retorica, prevedibile, senza alcun guizzo di originalità o di vera arte.