“Il poeta è un fingitore”, scrisse Fernando Pessoa, “finge così completamente che arriva a fingere che è dolore,
il dolore che davvero sente”. I versi dello scrittore portoghese mi sono venuti in mente confrontando il contenuto de Le questioni dell’età contemporanea con quanto il suo autore, Alberto Mario Banti, docente di Storia contemporanea all’Università di Pisa, afferma a p.VI dell’introduzione. Qui Banti scrive: “Nei limiti del possibile, ho cercato di mettere a tacere tutte le mie idiosincrasie, non esprimendo giudizi, né positivi, né negativi, ma sforzandomi di descrivere i punti essenziali dei lavori che ho scelto”.
Già, perché in questo libro Banti sceglie quindici nodi storiografici di particolare rilievo – dalla Rivoluzione francese alla globalizzazione – e a ognuno di essi dedica un capitolo di una ventina di pagine all’interno del quale riassume il contenuto dei principali studi portati a termine negli anni dagli storici di tutto il mondo. Ebbene, se è vero che Banti difficilmente esprime in modo aperto valutazioni di merito, altrettanto vero risulta essere l’appalesarsi di predilezioni o di posizioni critiche nei confronti di taluni o talaltri studi. Gli esempi possono essere diversi: nel terzo capitolo, Banti affronta il tema Nazioni e nazionalismi, partendo dalle analisi storiche, sostanzialmente coeve e non dissimili tra loro, di Hans Kohn e Federico Chabod. Proprio per questo, egli si sofferma sugli studi di Miroslav Hroch, il quale ritiene che i nazionalismi nell’Ottocento si svilupparono in tre tappe: a) gruppi di intellettuali studiarono la cultura e la storia di gruppi nazionali oppressi; b) gruppi politici sensibili a tali temi ”assorbirono” tali studi; c) lo spirito nazionalista permeò ampie fasce di popolazione che strutturarono i movimenti nazionalisti. Ebbene, Banti non nasconde le sue perplessità dinanzi a tale modello interpretativo in quanto (p.49)
quand’anche si segua Hroch e si accetti che la molla fondamentale per la ribellione contro l’ordine costituito sia il disagio socio-economico personale, non si riesce a capire perché mai tale disagio debba prendere necessariamente la forma della protesta nazionalista, piuttosto che non quella, per esempio, del cosmopolitismo, magari alimentato dall’appartenenza massonica.
Analogo discorso deve farsi per quanto scrive Banti nel capitolo successivo, quello dedicato al Risorgimento italiano. Qui lo storico toscano non nega alcuni motivi di perplessità rispetto ad un celebre studio di Marco Meriggi, Amministrazione e classi sociali nel Lombardo-Veneto (1814-1848), edito nel 1983 da Il Mulino, perché egli non vede spiegata la ragione per la quale l’aristocrazia e l’alta borghesia lombardo-veneta avrebbero espresso la loro inquietudine appoggiando, peraltro in maniera piuttosto strumentale, la politica unionista del Regno di Sardegna (cfr. pp.70-71) invece che altre cause politiche, magari affiliandosi alla massoneria.
Sempre a proposito del Risorgimento, Banti afferma che Rivoluzione liberale e Risorgimento senza eroi di Piero Gobetti furono opere filologicamente non ineccepibili, e questo è certamente un giudizio. Nel dodicesimo capitolo – Il nazismo e lo sterminio degli ebrei – l’autore scrive che l’interpretazione fornita da Daniel J. Goldhagen nel suo I volenterosi carnefici di Hitler propone “una generalizzazione [che] sembra effettivamente eccessiva” (p.258), ed anche questo è ovviamente un giudizio.
Al contrario, ci sono autori verso i quali Banti mostra una simpatia piuttosto evidente: a George Mosse sono dedicate cinque pagine del terzo capitolo e sei dell’ottavo, quello avente come tema La Grande guerra, tutte molto elogiative. Quando egli ricostruisce la storiografia sul fascismo (decimo capitolo) lo spazio più ampio è quello riservato allo studioso italiano che ha maggiormente portato avanti gli schemi interpretativi di Mosse, vale a dire Emilio Gentile (cfr. pp.203-309), Il sesto capitolo – Imperialismo/colonialismo – vede un ampio spazio dedicato a Eduard Said e ai suoi studi Orientalismo (1978) e Cultura e imperialismo (1993) seguito da un paragrafo in cui si lumeggia il lavoro del Subaltern Studies Group indiano (cfr. pp.107-116). Suggestioni come queste rivelano che Banti è un ammiratore e un assertore del croisement, vale a dire di un procedere storiografico epistemologicamente consistente e duraturo in quanto capace di rimettersi sempre in discussione e di contaminarsi con altre branche del sapere. Ciò è confermato dal fatto che tra i quindici nodi da lui proposti in Le questioni dell’età contemporanea, vi è anche uno, Disciplinamento del desiderio, disciplinamento dei corpi, il quale non è solo e semplicemente storico, ma prevede una lunga trattazione delle opere di Sigmund Freud e Michel Foucault e prende in considerazione studiosi certo non conosciutissimi alla platea italiana come Bram Dijkstra. Ulteriore esempio di questo atteggiamento è il quattordicesimo capitolo, dedicato a Storia delle donne, storia di genere, che denota da un lato l’ampiezza degli interessi di Banti e, dall’altro, ancor prima di fare della storiografia, tesse in breve la storia del femminismo a partire da Simone de Beauvoir.
Insomma, se si parte dalla premessa, non si può non scrivere che Banti fallisce nel suo tentativo dichiarato di voler essere il più possibile asettico e imparziale. Ma questo non vuol dire che Le questioni dell’età contemporanea sia un libro non riuscito. Al contrario, credo si possa dire che esso è riuscito nella misura in cui ha saputo distanziarsi dalla volontà bantiana di essere osservatore neutrale delle altrui analisi scientifiche, e cioè molto. Del resto, Banti è troppo colto per non sapere che lo storico non è e non può mai essere “obiettivo”, ma che invece deve perseguire il fine di interpretare gli eventi in base a ciò che le fonti da lui esaminate gli dicono. Ecco allora che la frase contenuta nella premessa altro non è che una sorta di captatio benevolentiæ ad uso e consumo del lettore non troppo addentro al come si fa correttamente la storia, il quale proprio per questo ha bisogno di sentirsi tranquillizzato da “dichiarazioni di terzietà” come quella contenuta nell’introduzione de Le questioni dell’età contemporanea.
Certo, la necessità di contenere l’esposizione in un numero accettabile di cartelle obbliga Banti a non commentare analiticamente ogni posizione storiografica ed a lasciar intuire molte valutazioni mediante una lettura tra le righe. Questo è un peccato, perché uno storico acuto come Banti avrebbe saputo arricchire il volume con osservazioni che, condivisibili o meno, avrebbero certo ampliato le tematiche considerate. Tuttavia, una disamina contenente commenti sistematici avrebbe cambiato la natura de Le questioni dell’età contemporanea trasformandolo dal libro di sintesi che è in uno studio di natura simil-enciclopedica troppo pesante da leggere, specie per il lettore che si avvicina per la prima volta a questo tipo di studi.
Ecco allora che le 318 pagine di testo, cui devono aggiungersi 31 utilissime pagine di glossario e profili biografici, per la loro natura sintetica richiedono una lettura molto attenta. Nell’esposizione di Banti, peraltro piana e godibile, non c’è infatti spazio per pause discorsive. I concetti, in sé evidentemente articolati, riempiono le pagine senza lasciare alcunché a momenti morti che possano far rifiatare il lettore. Le questioni dell’età contemporanea è dunque un libro che necessita di tempo per essere apprezzato e compreso appieno.
Personalmente, ho solo una piccola perplessità rispetto al volume: nel dodicesimo capitolo, intitolato Il nazismo e lo sterminio degli ebrei, Banti dedica quasi una cartella (cfr. pp.248-249) ai negazionisti, senza peraltro nominare nessuno di essi. Ovviamente, lo storico toscano smonta i percorsi e le conclusioni di questi pseudo-studiosi ritenendoli del tutto inattendibili. Eppure la presenza del negazionismo della Shoah in un libro che parla di storia fatta con tutti i crismi della scienza risulta fastidioso. Quella dei negazionisti, infatti, non è storia, ma sequela di convinzioni strumentali indegna di figurare in un simile contesto.
Altro aspetto che un po’ duole è l’assenza di un capitolo dedicato all’Italia repubblicana, che certo nell’economia di un volume come Le questioni dell’età contemporanea sarebbe risultato assai gradito. Da questo punto vista, è da ritenersi vivamente auspicabile che Banti in futuro possa ritornare su questo tema con un saggio specifico nel quale possa sviluppare le sue riflessioni sulla storia e la storiografia riguardanti gli ultimi sessantacinque anni del nostro paese.
In conclusione, Le questioni dell’età contemporanea è un volume la cui lettura è consigliata sia a chi per la prima volta si avvicina ai temi storici, sia a chi invece li conosce e desidera approfondirli incrociando diverse sensibilità. La sintesi di Banti restituisce i contenuti altrui con completezza e vivacità, contestualizzandoli in modo mirabile, vale a dire con la perizia e l’entusiasmo che solo un fingitore – ovviamente in senso pessoiano – può avere.