Il libro curato da Paul Ginsborg ed Enrica Asquer – spesso più criticato che realmente letto – raccoglie gli atti del convegno promosso, nell’ottobre del 2010, dall’associazione «Libertà e Giustizia» e dalla rivista di storia contemporanea «Passato e presente» sul tema Società e stato nell’era del Berlusconismo[1]. Vi presero parte storici, giuristi, giornalisti, antropologi, attivisti della società civile, sociologi ed economisti.
Si tratta, dunque, di un libro di non facile lettura per la molteplicità di approcci e di interpretazioni offerte al lettore.
L’intento del convegno, caratterizzato da una spiccata connotazione politica, era quello di fare il punto sugli anni che vanno dal 1994 al 2010, un «periodo lungo quasi quanto il fascismo»[2]. Si assume, dunque, la prospettiva che in Italia vi sia stato un «regime». Esso viene posto in continuità con la storia del Novecento italiano, a cui viene attribuito il primato di aver introdotto in Occidente «modelli innovativi di regimi autoritari»[3]. La categoria di «berlusconismo» viene quindi adoperata come esclusiva chiave interpretativa degli ultimi vent’anni di storia italiana, in sintonia con alcuni indirizzi della recente storiografia e delle riflessioni del mondo intellettuale[4].
Il volume compie una prima ricognizione degli elementi costitutivi il «berlusconismo» quale fenomeno politico e sociale. Essi vengono individuati nella natura patrimoniale del sistema di potere berlusconiano, nel controllo dei media, nel segno populista del discorso culturale e politico, nell’esasperazione del ruolo attribuito al carisma del capo, nella distorta visione dei ruoli di genere e, infine, nel particolare rapporto con la Chiesa cattolica.
Le radici del «berlusconismo» sono rintracciate nelle culture neoliberiste che precedettero e accompagnarono l’ascesa, negli anni Ottanta, di Ronald Reagan negli Stati Uniti e di Margaret Tatcher nel Regno Unito. Berlusconi rappresenterebbe uno dei volti del modello culturale egemone in Occidente negli ultimi trent’anni. Tale disegno si sarebbe costruito secondo ben delineate direttive: l’esaltazione del privato rispetto al pubblico, la competizione tra individui, la teorizzazione della riduzione del ruolo dello Stato, la rivendicazione della supremazia dell’economia di mercato e dell’impresa, la celebrazione delle figure professionali e dei ceti sociali in ascesa, l’accettazione acritica della società dei consumi ed, infine, la definizione di un inedito concetto “negativo” di libertà.
L’insieme di questi elementi si sarebbero tradotti in Italia nella nascita di un nuovo regime politico che Ginsborg definisce «patrimonialismo», parafrasando la categoria weberiana di «patriarcalismo». Un sistema, in sintesi, gerarchico, costruito sull’estensione spaziale dell’autorità e delle proprietà private di Silvio Berlusconi nella società e nella sfera pubblica. Fino ad arrivare dentro lo Stato di diritto, mutandone dall’interno forma e sostanza, a danno della collettività, sempre più imbrigliata nelle maglie di una rete molecolare di favori e fedeltà. Il «berlusconismo» si presenterebbe, così, come la sintesi di tendenze di lunga durata nella società italiana – il clientelismo – e di una inedita forma di dispotismo.
Tale interpretazione era già stata avanzata nel 2002 nel corso di una giornata di studi, organizzata dalla rivista «Passato e Presente» e dal dipartimento di Studi storici e geografici della facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Firenze, sul tema Le destre in Italia dal regime fascista al governo Berlusconi. Senso e limiti di una comparazione[5].
Negli ultimi dieci anni, in particolar modo dopo la vittoria della coalizione di centro-destra nelle elezioni nazionali del 13 maggio 2001, si è assistito ad una prima fioritura di riflessioni storiografiche sui principali eventi che hanno scandito la vita politica del Paese. Si tratta di interventi e di analisi di storici che hanno riflettuto sulle mutazioni in seno alla democrazia italiana, non di rado manifestando preoccupazioni per una sua torsione in senso autoritario. Non sono mancati i tentativi di leggere tali cambiamenti in chiave europea, come nel caso del convegno La politica di Berlusconi 1994 – 2009. I governi del centro–destra in un confronto europeo, promosso dalla Fondazione Bruno Kessler di Trento nel settembre del 2009. A queste riflessioni è seguita una prima stagione di studi e di ricerche che si sono occupate delle trasformazioni politiche, economiche, culturali e sociali negli anni della transizione dalla prima alla seconda Repubblica (1989-1994/1996)[6].
Il convegno promosso nell’ottobre del 2010 dall’associazione “Libertà e giustizia” e dalla rivista «Passato e presente» si inserisce, dunque, in un contesto più ampio. Esso si differenzia, tuttavia, per il taglio decisamente militante e per l’aperta polemica nei confronti dei maggiori partiti di opposizione, degli intellettuali e delle fondazioni culturali ad essi legati, accusati di aver rinunciato alla loro originaria vocazione, compromettendosi con l’attuale sistema di potere. Diverso, tuttavia, era anche il contesto in cui il convegno prendeva luogo, segnato dai ripetuti scandali del presidente del Consiglio, dalla radicalizzazione delle posizioni politiche della maggioranza di governo, dall’opacità con la quale venivano assunti i principali indirizzi strategici del Paese in materia economica e di politica estera, dal deterioramento della vita civile innescata dalla recrudescenza degli episodi di razzismo e di intolleranza e dalla commistione tra politica e criminalità organizzata.
La presenza di giornalisti come relatori (solo 3 su 17) ha suscitato qualche perplessità, in particolar modo per il timore che il convegno si trasformasse in un’assemblea di denuncia. In realtà, proprio dai giornalisti venivano avanzati dubbi sulla continuità dell’esperienza berlusconiana con quella dei regimi autoritari della prima metà del ventesimo secolo[7].
Non sfugge, infatti, ad uno sguardo più attento, l’eterogeneità delle interpretazioni presenti nel volume, nonostante il tentativo di lettura unitaria del «berlusconismo», presente nell’introduzione scritta da Paul Ginsborg ed Enrica Asquer.
A partire dalla comparazione con il fascismo. Il problema era stato formulato organicamente da Stuart Woolf durante il seminario di studi di Firenze nel 2002[8]. Ponendosi su un terreno diverso della querelle giornalistica, Woolf riprendeva la categoria marxista di «crisi di sistema» per tentare di spiegare le differenze e le analogie tra l’ascesa del fascismo in Italia e l’avvento di Berlusconi dopo il crollo della prima Repubblica (1992-1994). Dopo una rassegna delle mutazioni nel sistema elettorale, negli assetti istituzionali e nelle culture politiche della maggioranza di centro-destra, Woolf concludeva il suo saggio con la suggestiva evocazione che l’Italia potesse emergere come il laboratorio d’involuzione delle democrazia rappresentativa in Occidente.
Si potrebbe obiettare che l’Italia degli ultimi vent’anni ha sperimentato per la prima volta nella sua storia repubblicana l’alternanza di governo e che nel Paese le differenze in termini di voti tra maggioranza e opposizione siano minime, con il conseguente corollario che approssimativamente metà della popolazione non si è riconosciuta nella coalizione di centro-destra, sebbene quest’ultima abbia registrato la costante preminenza sulla coalizione di centro- sinistra in termini di favori elettorali[9].
Il nocciolo della questione, tuttavia, non è questo. Il metodo comparativo, impiegato comunemente nelle scienze sociali e nella politologia, non è di facile applicazione in campo storiografico[10]. Esso è ricorso, inoltre, con più frequenza nello studio dei sistemi totalitari, come dimostra il caso della storiografia tedesca[11]. Vi è quindi una questione metodologica molto delicata. D’altra prospettiva manca uno studio che abbia portato a fondo il tentativo di comparare il fascismo e il «berlusconismo». Siamo in presenza, infatti, in ambito storiografico, di enunciati e di ipotesi metodologiche e non di un piano di ricerche compiuto. Così come la riflessione intellettuale si è limitata ad invocare parallelismi e similitudini. Con il risultato che in entrambi i casi sono più le differenze che le analogie ad essere poste in rilievo. È il rischio implicito nel metodo comparativo, come ha scritto March Bloch: «rettamente inteso, esso riserva…un interesse particolarmente vivo alla percezione delle differenze, che siano originarie o che siano il risultato di percorsi divergenti, tratti da uno stesso punto di partenza»[12]. In un libro intervista del 2009, ad esempio, Alberto Asor Rosa si era espresso in favore di una forte discontinuità tra fascismo e «berlusconismo». Pur riconoscendo a quest’ultimo un carattere «populistico-autoritario», esso si differenziava dal fascismo perché posto al di fuori della «tradizione nazionale italiana. Tradizione con cui l’attuale evo berlusconiano non ha nessun rapporto, né buono né cattivo. Questa è la straordinaria rottura storica con cui dobbiamo fare i conti. L’homus novus berlusconiano ha tagliato le nostre radici storiche»[13].
Senza entrare nel merito di tale giudizio, esso ci pare comunque significativo del dibattito intellettuale in corso, in cui la storiografia italiana sta giocando un ruolo non secondario. Ci si interroga, allora, se il metodo comparativo, con riferimento specifico alla storia repubblicana degli ultimi vent’anni, non sia più proficuo in una dimensione sincronica che, al contrario, in una prospettiva diacronica[14]. Non sarebbe più utile rileggere la parabola del «berlusconismo» all’interno delle mutazioni – istituzionali, sociali, economiche e culturali – che hanno investito le democrazie liberal-democratiche in Occidente negli ultimi vent’anni? Come scrive Bloch vi è infatti un’altra «applicazione del procedimento di comparazione: studiare parallelamente società al tempo stesso vicine e contemporanee, influenzate senza interruzione le une dalle altre, soggette nel loro sviluppo, proprio in ragione della loro vicinanza e del loro sincronismo, all’azione delle stesse grandi cause, e risalenti, almeno parzialmente, a una comune origine»[15].
Gli squilibri nei rapporti tra il mondo politico e quello economico, la crisi delle istituzioni rappresentative, l’uso politico dei mezzi di comunicazione di massa da parte dei poteri forti, il problema della cittadinanza, lo smantellamento dei sistemi di sicurezza sociale, sono fenomeni che hanno interessato, con maggiore o minore intensità, buona parte delle società occidentali. Si pensi, ad esempio, alla problematicità della legislazione dei Paesi dell’Unione Europea in materia di emigrazione. O al conflitto d’interessi, tra pubblico e privato, operante all’interno della macchina bellica anglo-americana durante il secondo confitto irakeno, con l’appalto a strutture private di fasi non secondarie del conflitto. E del resto lo stesso Paul Ginsborg aveva messo in guardia dal rischio di assumere il modello democratico come positivo in sé e per sé: «per quanto la democrazia rappresenti un’intima e manifesta caratteristica della modernità», scrive Ginsborg, «essa non possiede un’inevitabile dinamica di progresso, né ha insito in sé un controllo qualitativo»[16].
Assumendo questa prospettiva, rimane aperto, allora, l’interrogativo se il «berlusconismo» sia la declinazione italiana di un processo di mutazione delle democrazie occidentali o rappresenti un’anomalia all’interno, però, di analoghe trasformazioni che hanno investito, sulla scena internazionale, le società ad alto sviluppo capitalistico negli ultimi trent’anni[17].
A monte, tuttavia, manca ancora una definizione univoca della categoria di «berlusconismo». Se con essa s’intende un’egemonia esercitata sulla cultura e sulla politica da parte di Silvio Berlusconi o si indichi un vero e proprio modello politico e sociale. Rimane poi il dubbio che il «berlusconismo» esprima il segno di una stagione intera della storia repubblicana, in maniera unilaterale e soprattutto uniforme nel nord, nel centro e nel sud del Paese.
Sono significative, a questo proposito, le diverse interpretazioni di due tematiche presenti nel volume: la questione della continuità tra gli anni Ottanta e i decenni successivi e il problema se il «berlusconismo» rappresenti una versione inedita, autoritaria, basata sul monopolio dei mezzi di comunicazione di massa, del populismo.
Se gli anni Ottanta sono genericamente e acriticamente assunti come decennium horribile, diversa è l’interpretazione del legame tra la stagione del craxismo e quella successiva egemonizzata da Berlusconi[18]. Gianpasquale Santomassimo, ad esempio, mette in discussione la «tendenza diffusa a vedere una linea di continuità assoluta tra Craxi e Berlusconi»[19]. L’assenza di una retorica antipolitica e populista e la diversa sensibilità internazionale, nelle alleanze e nella politica mediterranea, rappresenterebbero le differenze principali tra Craxi e il Cavaliere. Così come appare meritevole di approfondimento, attraverso una ricerca sulle fonti oggi disponibili, la divergenza di atteggiamenti e di interpretazioni tra Craxi e alcuni degli intellettuali a lui vicini sul tema dell’antifascismo e della riforma istituzionale, con quest’ultimi schierati su posizioni più radicali del loro leader[20]. Di segno opposto la lettura di Gabriele Turi del rapporto tra «craxismo» e «berlusconismo», tra cui esisterebbe un legame di ferro. Craxi e il mondo intellettuale riformista a lui vicino avrebbero anticipato, addirittura, molti degli elementi costitutivi il populismo di destra degli anni novanta e duemila, in special modo nella polemica anticomunista e nell’esaltazione dell’individualismo e del liberismo[21].
Fanno riflettere, in questa prospettiva, i diversi percorsi interpretativi, presenti nel libro, rispetto al tema del populismo. L’analisi dei ceti medi compiuta da Ginsborg, la loro differenziazione sociale e geografica, il ragionamento sulla connotazione patrimoniale del sistema di potere berlusconiano inducono a ridimensionare la natura populista di Silvio Berlusconi, del suo progetto politico e della sua capacità egemonica[22]. Così come l’intervento di Giovanni Gozzini è orientato ad una problematizzazione del rapporto tra politica e televisione, mettendo in discussione la meccanicità di tale legame avanzata in alcuni studi e nella polemica pubblicistica[23].
D’altra prospettiva gli interventi di Asquer, sul discorso populista presente nei rotocalchi del gruppo editoriale Mondadori, di Amalia Signorelli, sulla questione femminile, di Gustavo Zagrebelsky sulla mutazione del linguaggio politico berlusconiamo e il già citato saggio di Turi, delineano un quadro dove «dietro le quinte della pubblicità incessante si presenta con grande senso di continuità un messaggio politico di una durezza notevole, un lavorio costante sulla verità, una grandissima attenzione al carisma del capo»[24].
Uno degli aspetti più interessanti del libro, dunque, appare il rapporto che viene individuato tra politica e cultura, in special modo tra il populismo di destra e la sua genesi intellettuale, attraverso la panoramica delle fondazioni culturali che hanno accompagnato l’elaborazione teorica del centro-destra dal 1994 ad oggi[25]. Si tratta, sul piano storiografico, di un riconoscimento non secondario, se si pensa a quanto è stato contestato il rapporto tra cultura e fascismo in passato. Perfino in controtendenza rispetto all’autorappresentazione degli intellettuali di area che non di rado hanno negato la presenza di una cultura di destra negli anni della Repubblica[26]. Vi è anche un’indicazione metodologica: rintracciare, cioè, le radici del «berlusconismo» al di là dei tradizionali percorsi di ricerca, che hanno posto al centro della loro indagine il legame tra mezzi di comunicazione di massa, potere economico e potere politico. In questa prospettiva, il «berlusconismo» viene fatto coincidere rigidamente con il populismo. Percorrendo tale vita, però, c’è il vantaggio di poter rintracciare radici culturali e filosofiche di fenomeni politici, che altrimenti sarebbero ricondotti al solo mondo del consumo e della comunicazione pubblicitaria. Basti pensare al ruolo svolto da una rivista come «Ideazione», alla lettura da essa compiuta del craxismo e del populismo[27]. Scrive a tal proposito Alessandro Campi: «il populismo ha anche significato affermazione di una autentica volontà popolare, richiamo al “buon senso” dell’uomo comune contro l’eccessiva intellettualizzazione dell’esistenza, rifiuto dello spirito burocratico, del centralismo e di un’ingegneria sociale troppo spinta, naturale diffidenza per un potere eccessivamente concentrato e per oligarchie politico – economiche non solo molto distanti dal modo di vivere e di pensare dei comuni cittadini, ma anche poco attente alle reali necessità di questi ultimi»[28].
Nel libro curato da Paul Ginsborg ed Enrica Asquer sembra emerge, dunque, un campo di forze, in costante interazione tra loro, piuttosto che un quadro omogeneo e fisso. Un insieme di tendenze che meriterebbe di essere approfondito. Il neo-liberismo e il populismo di destra, ad esempio, sembrano essere direttrici culturali diverse e il rapporto tra esse si è tradotto non di rado, in termini politici, in reciproca strumentalizzazione[29]. Così come nel libro la questione della Lega Nord, della sua politica territoriale e della sua cultura, rimane sullo sfondo, quasi a voler indicare la difficoltà di utilizzare la categoria del «berlusconismo» come esclusiva chiave interpretativa degli ultimi vent’anni di storia repubblicana. Lo stesso dicasi per il sud d’Italia, spesso assente nelle riflessioni degli interventi degli autori o descritto come perennemente in preda ad una deriva antropologica, conseguenza dell’impatto del «berlusconismo» nelle regioni meridionali del Paese. Senza considerare che i maggiori consensi alla coalizione di centro-destra e della Lega vengono proprio dalle regioni settentrionali, dove gli indicatori di civismo e di modernizzazione hanno raggiunto da tempo gli standard delle democrazie d’Oltralpe[30].
Il convegno si tenne a Firenze dal 15 al 17 ottobre 2010, con la collaborazione delle associazioni “Carovana per la Costituzione”, “Comitato per la difesa della Costituzione” di Firenze, Giuristi Democratici e Rete@Sinistra.
[2] Paul Ginsborg, Enrica Asquer, Berlusconismo. Analisi di un sistema di potere, Laterza, Roma – Bari 2011, p. VIII.
[3] Ibidem.
[4] Tra i titoli più significativi in ambito storiografico cfr. Antonio Gibelli, Berlusconi passato alla storia. L’Italia ai tempi della democrazia autoritaria, Donzelli, Roma 2010 e Nicola Tranfaglia, Vent’anni con Berlusconi (1993 – 2013). L’estinzione della sinistra, Garzanti, Milano 2009. Per le riflessioni del mondo intellettuale vedi i fascicoli di «Micromega», nn. 20 – 21, 2011, dedicati al tema Berlusconismo e fascismo. In ambito filosofico cfr. Carlo Chiurco (a cura di), Filosofia di Berlusconi. L’essere e il nulla nell’Italia del Cavaliere, Ombre Corte, Verona 2011.
[5] Gli atti furono pubblicati, a cura di Gianpasquale Santomassimo, in La notte della democrazia italiana. Dal regime fascista al governo Berlusconi, il Saggiatore, Milano 2003. L’intervento di Paul Ginsborg è Berlusconi in prospettiva storica comparata, pp. 35 – 40, poi ripreso e approfondito in Id., Berlusconi. Ambizioni patrimoniali in una democrazia mediatica, Einaudi, Torino 2003.
[6] Si vedano, ad esempio, i lavori del convegno La Repubblica in transizione 1989 – 1994, promosso dalla Fondazione Istituto Gramsci onlus, dalla Fondazione Luigi Einaudi Roma e dalla Società italiana per lo studio della storia contemporanea (Sissco), Roma 10 -11 marzo 2011; cfr. anche il panel curato da Marco Gervasoni, Le culture politiche italiane nella transizione tra prima e seconda Repubblica (1989 – 1996) nel corso dei lavori dei Cantieri di Storia Sissco, La storia contemporanea in Italia oggi: linee di ricerca e tendenze, Forlì 22 – 24 settembre 2011.
[7] Scrive, ad esempio, Marco Travaglio: «Per quanto riguarda il berlusconismo, c’è il pericolo che qualcuno pensi che sia una ideologia o comunque un disegno articolato, studiato a tavolino e perseguito coerentemente tutti i giorni. […] Magari ci fosse un disegno, magari ci fosse una ideologia, o una cultura: niente di tutto questo. C’è piuttosto un adattarsi quotidiano alle esigenze di un imputato impunito che vuole sottrarsi alla giustizia e contemporaneamente fare il suo esclusivo e personale interesse. […] Questo è un regime à la carte, dunque, un regime ad personam che non c’entra nulla con i regimi che abbiamo conosciuto nel secolo passato e nei secoli precedenti», Un regime «à la carte», Ginsborg, Asquer, Berlusconismo…cit., p. 149.
[8] Stuart Woolf, Crisi di un sistema e origini di una nuova destra. Senso e limiti di una comparazione, in Santomassimo, La notte della democrazia…cit., pp. 50 – 68.
[9] Cfr. le considerazioni di M. Lazar, L’Italia sul filo del rasoio. La democrazia nel paese di Berlusconi, Rizzoli, Milano 2009, pp. 41-53.
[10] Cfr. T. Skocpol, M. Somers, The Uses of Comparative History in Macrosocial Inquiry, in «Comparative Studies in Society and History, n. 2, a. 22, 1980, pp. 174 – 197.
[11] Sia per la genealogia dei sistemi totalitari che per la loro comparazione. Tra i tanti titoli cfr., ad esempio, M. Ponso, Una storia particolare. “Sonderweg” tedesco e identità europea, il Mulino, Bologna 2011 e Ian Kershaw e Moshe Lewin, Stalinismo e nazismo. Dittature a confronto, Editori Riuniti, Roma 2002.
[12] M. Bloch, Per una storia comparata delle società europee, in Id., Storici e storia, Einaudi, Torino 1997, p. 120.
[13] Alberto Asor Rosa, Il Grande Silenzio. Intervista sugli intellettuali, Laterza, Roma – Bari 2009, p. 129.
[14] È la prospettiva assunta, ad esempio, da Michele Battini in Il lapsus francese, in Santomassimo (a cura di), La notte della democrazia italiana…cit., pp. 185 – 1984.
[15] Bloch, Storici e storia…cit., p. 109.
[16] Ginsborg, Berlusconi…cit., p. 84.
[17] Una chiave interpretativa basata, invece, sull’analisi della storia nazionale è avanzata da Guido Crainz, Autobiografia di una repubblica. Le radici dell’Italia attuale, Donzelli, Roma 2009.
[18] Per una critica a questa interpretazione cfr. Marco Gervasoni, Storia d’Italia degli anni ottanta. Quando eravamo moderni, Marsilio, Venezia 2010, pp. 15-18.
[19] G. Santomassimo, L’eredità degli anni Ottanta. L’inizio della mutazione, in Ginsborg, Asquer (a cura di), Berlusconismo…cit., p. 8.
[20] Ivi., pp. 10-11.
[21] Gabriele Turi, I «think tank» della destra, in ivi., p. 33.
[22] Cfr. Paul Ginsborg, I ceti medi: cambiamenti, culture e divisioni politiche in ivi., pp. 48-56. D’altronde già in passato Ginsborg aveva espresso un giudizio simile in questa direzione: «Sarebbe tuttavia un errore confinare il progetto del Cavaliere al contesto analitico del populismo, poiché buona parte dell’essenza ne andrebbe perduta. […] Il suo è un istinto patrimoniale e accumulatorio, ispirato alla creazione e all’uso della ricchezza, alla creazione di fedeltà, all’esigenza di essere ammirato e amato. […] Tali istinti e priorità, se associati allo stile di vita plutocratico del Cavaliere, non ne fanno un leader populista per natura. Al limite possiamo dire che il populismo entra prepotentemente nel suo armamento linguistico, ma la struttura materiale del suo progetto resta un’altra», in Berlusconi…cit., pp. 44-45.
[23] Giovanni Gozzini, «Siamo proprio noi», in Ginsborg, Asquer, Berlusconismo…cit., pp. 15-29.
[24] Cfr. Enrica Asquer, Popolare, popolaresco, populista, Amalia Signorelli, Le ambigue opportunità e il nuovo maschilismo, Gustavo Zagrebelsky, La neolingua dell’età berlusconiana, in ivi., pp. 102 – 119, 207-222, 223-234.
[25] Turi, I «think tank» della destra, in ivi., pp. 30-47.
[26] Cfr., ad esempio, M. Veneziani, La cultura della destra, Laterza, Roma-Bari 2002.
[27] Rileggere il craxismo, in «Ideazione», n. 1, a. II, genn-febbraio 2000.
[28] Alessandro Campi, Populismo: oltre gli stereotipi, in Le virtù del populismo, in «Ideazione», n. 2, a. II, marzo-aprile 2000, p. 27.
[29] Cfr. il saggio di Guido Caldiron, La destra sociale. Da Salò a Tremonti, Manifestolibri, Roma 2009.
[30] Michele Salvati, Tre pezzi facili sull’Italia. Democrazia, crisi economica, Berlusconi, il Mulino, Bologna 2011, p. 109.