Il “grande armadio”. A proposito dell’archivio Andreotti e della storia della Repubblica

Gli studi sugli anni repubblicani sono in fermento e in grosso sviluppo. La ricerca e la disponibilità di nuove fonti archivistiche sembrano spesso promettere più quanto si potrà davvero trovare ai fini dello sviluppo della conoscenza storica.

E’ allora forse opportuno ritornare su una vicenda che all’inizio dell’anno suscitò una grande eco nella stampa italiana: il “lancio” mediatico, in occasione del suo novantesimo compleanno, dell’archivio di Giulio Andreotti, donato all’Istituto “Luigi Struzzo”, impegnato a classificarne la imponente documentazione: 3500 faldoni per 600 metri lineari, comprensivi di carte, immagini, audio e video.

A fare da apripista fu un servizio dell’Ansa, per la quale Paolo Cucchiarelli, dopo aver visitato e fotografato l’archivio,  confezionò un articolo destinato ad essere largamente ripreso dai giornali (L’archivio nel caveau blindato dello Sturzo, 10 gennaio 2009). « E’ una leggenda politica. Un mito archivistico. Il “grande armadio” della Prima repubblica. [….] Eccolo l’archivio più temuto e ambito della Repubblica depositato nel caveau blindato dell’Istituto Don Sturzo dove tutti i principali esponenti della Dc hanno lasciato le loro carte». «L’Archivio Andreotti è già stato definito due anni fa di “interesse storico particolarmente importante”» (sempre Cucchiarelli). Insomma, chi non conosca come si alimenti la ricerca storica, era indotto ad aspettarsi mirabilie, tra segreti rivelati e chissà quali scoop. Sarà davvero così? Vogliamo entrare “dentro la notizia” oltre che “dentro l’archivio”?

Nel visitare gli ampi spazi sotterranei dell’Istituto Sturzo e parlando amabilmente con la competente archivista Luciana Devoti, la prima impressione è davvero di trovarsi di fronte ad un fondo fuori dell’ordinario. L’archivio contempla due sezioni principali; la prima con documenti in serie, secondo la classificazione di quindici temi: Camera dei Deputati, cinema, Dc, discorsi, divorzio, elezioni, Europa, Fiumicino, governi, Parlamento, personale, Trieste, scritti, Senato e Vaticano. E’ un corpo di circa 110 buste. Assai più ampia è la sezione relativa alle “Pratiche numeriche”, con ben 2400 buste. Colpiscono non solo la mole della documentazione ma anche la perizia e il puntiglio con cui Giulio Andreotti (nato nel 1919), fin dagli anni giovanili, da buon giornalista, allestì e poi continuò ad arricchire l’archivio. Di esso egli si avvalse nello svolgimento dell’azione politica (dal 1946 in Parlamento, per sette volte Presidente del Consiglio e ancor più ministro di vari dicasteri) ma che ben presto avrebbe rappresentato un personale centro di documentazione nello sviluppo della sua ricca produzione pubblicistica: memorie, profili di personaggi e interventi su aspetti di una storia di cui egli era, allo stesso tempo, protagonista e testimone. Stiamo parlando di una quarantina di libri, tutti pubblicati con l’editore Rizzoli, per un complesso di «oltre un milione e seicentomila copie» (Recordman anche per libri, 39 in 38 anni, “Ansa”, 13 gennaio 2009). Un giorno occorrerà pur occuparsi di questo fenomeno editoriale e di quanto esso abbia inciso nella costruzione di un certo senso comune storico-politico sulla e nella Repubblica del secondo dopoguerra.
Detto della parte quantitativa e classificatoria, occorre interrogarsi sulla “costruzione” di questo archivio personale, su cui né i media che hanno amplificato la notizia né gli storici – assenti in quel battage giornalistico – hanno pensato di soffermarsi con la invece dovuta attenzione. L’archivio intanto non è “chiuso”, nel senso che «Giulio Andreotti continua ad “alimentarlo” quotidianamente e a consultarlo per i suoi libri, interventi, discorsi» (ancora Cucchiarelli). Ma come è avvenuta e sta continuando la sua “costruzione”? E’ stato lo stesso Andreotti, nelle diverse interviste rilasciate a quotidiani e organi di stampa, a ricordarlo.
Intervistato dalla «Repubblica», Andreotti ebbe subito occasione di dire con chiarezza cosa ricercatori e studiosi si dovessero o meno aspettarci: «“Conosco qualche segreto di Stato, molti no, qualcuno sì. Ma li tengo per me. Non farei mai un libro o un’intervista su certi episodi. La categoria del folklore politico non mi appartiene» (G. De Marchis, Sì, ho qualche segreto di Stato e lo porterò con me in paradiso, “La Repubblica”, 9 gennaio 2009). Intervistato dall’ “Unità”, così riassunse il senso del botta e risposta la giornalista Susanna Turco: «Naturalmente si aspetta domande su mafia,stragi, Moro, segreti di stato. Naturalmente non risponde. Sorride, se così si può dire, e sempre dice: “ Non lo so ma se lo sapessi non lo direi”» (Intervista a Giulio Andreotti «Delle colpe che ho nessuno mi ha mai chiesto conto», “l’Unità”, 14 gennaio 2009). Intervistato dal “Messaggero”, alla solita domanda («Contiene segreti di Stato?»), ebbe modo di aggiungere sul suo archivio: «Va detto innanzi tutto che nove cose su dieci sono inutili o ovvie, ci sono anche biglietti di auguri, ma c’è anche del materiale che potrà servire a dare elementi aggiuntivi alla conoscenza di alcuni periodi della nostra vita pubblica. Poi c’è qualcosa che non c’è neppure in quegli archivi….» (Mario Stanganelli, Andreotti: non mi pento di nulla, spero nel Paradiso e ..in una proroga, “Il Messaggero”, 12 gennaio 2009). A sua volta, l’“Osservatore Romano”, nel titolare una lunga intervista del giornalista Marco Bellizzi, aveva forse ben interpretato la “filosofia” andreottiana circa il tempo che scorre: Giulio Andreotti ovvero la sostenibile leggerezza della storia (13gennaio 2009).
Non si può certo dire allora che Andreotti abbia voluto sottacere la natura e la particolarità del suo archivio. Ciò che stupì qualche mese addietro e ancora oggi suscita perplessità è l’assenza di storici di professione nella valutazione e nella decostruzione della notizia: finalmente si potrà consultare il mitico archivio Andreotti! Non si comprende, invero, se per la scarsa rilevanza attribuita loro da giornali e mezzi di informazione ovvero per la distratta attenzione da essi riservata verso quello che invece il “senso comune” è indotto a ritenere come la chiave d’accesso a tutto quanto ancora non sappiamo sulla storia della nostra Repubblica.
Per nostra fortuna esistono interventi di giornalisti, come Filippo Ceccarelli, particolarmente attenti ai nessi tra storia e comunicazione, propensi a porsi domande sulla “costruzione” nel tempo non solo dell’archivio di Andreotti ma anche della sua immagine pubblica. E’ un mito, quello dell’archivio andreottiano, a lungo alimentato: «Invisibile entità che si collocava tra il divertente e l’intimidatorio, l’armadio dei misteri, la santabarbara della Repubblica, il sancta sanctorum dell’arcana imperii. Vero è che da quell’ineffabile giacimento zampillavano ogni tanto pezzi e pezzetti di storia patria, in genere secondo criteri abbastanza oscuri e motivazioni appena più decifrabili». Gli esempi sarebbero davvero numerosi e però con la paradossale circostanza di produrre reazioni e moti di opinione pubblica diversa a seconda delle atmosfere politiche e culturali. Come ancora a ragione postilla Ceccarelli: «Insomma Andreotti non solo conservava tutto di tutti, ma come ogni acuto e malizioso documentalista conosceva e nel caso applicava anche la suprema verità cartacea: che con il passare del tempo il materiale d’archivio cambia età e natura, libera simboli e irradia costellazioni di senso, acquista energia e luminosità, non di rado offrendo all’immagine la più spiccata e minatoria malevolenza» (Filippo Ceccarelli, Carte e misteri: ecco l’archivio del Divo, “La Repubblica”, 13 gennaio 2009). Così come solitamente avviene per gli archivi che divengono pubblici, anche nel caso del «moloch andreottiano», potremo distinguere il mistero dalla conoscenza, l’artificio dal documento, soprattutto se gli storici sapranno fare bene il loro mestiere, confrontando e discernendo criticamente il più ampio spettro di fonti.

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