Per una storia pubblica del tempo presente: festivals e “processi” storici nell’Italia di oggi

Per una storia pubblica del tempo presente: festivals e “processi” storici nell’Italia di oggi di Maurizio Ridolfi

Anche in Italia si parla e si cerca di promuovere la Public History, quella che altrove è diventata un fenomeno assai diffuso (con riviste, associazioni, gruppi di studio e di attività professionali, ecc.); a tal punto da divenire anche una disciplina accademica (dagli Stati Uniti al Canada fino alla Germania, con la Freie Universität di Berlino). La Public History, se volessimo dire in poche parole, concerne invece la natura e i linguaggi del racconto storico nella vita quotidiana e comunque al di fuori tanto delle sedi universitarie quanto di istituzioni e associazioni storiche locali: in sostanza, come e a chi il passato venga comunicato e come esso influisca sul presente. Come muoversi, dunque, tra le suggestioni dell’anglosassone Public History e della francese Histoire du Temps Présent ?

Per gli storici di professione, gli accademici in primo luogo, la sfida riguarda i modi e i linguaggi attraverso cui contribuire ad andare oltre la storia contemporanea, nel senso di fare una storia pubblica del tempo presente. Possono e debbono, intanto, gli storici di professione occuparsi anche di “storia pubblica”? Lo vogliano o meno, essi sono sempre più spesso chiamati a fare i conti tanto con la propria deontologia professionale quanto con il dovere civile di essere presenti nel contrastare l’abuso della storia nella costruzione (anche politica, non dissimuliamo la realtà) del passato nazionale e comunque del senso storico di appartenenza. I terreni su cui ciò avviene sono diversi e spesso i più lontani dalla vita accademica tradizionale: in primo luogo i ricordi e le memorie di individui, gruppi e comunità. Ovvero ciò che permette alla storia di essere “condivisa”; una storia pubblica ed insieme del tempo presente che la rete internet facilita in modo diffuso (un esempio: Fabio Glauco Galli, Lo “spazio pubblico” della “città invisibile”, in “Memoria e Ricerca”, n. 32, settembre-dicembre 2009).

Facendo storia per i cittadini e non dentro (o per le) le istituzioni accademiche, gli “storici pubblici”si avvalgono di mezzi e linguaggi diversi: dal libro alla rete, dalla radio alla televisione, alla rappresentazione teatrale (si pensi alla “fortuna” anche in Italia del cosiddetto “teatro civile”). Lo scopo è quello di raccogliere, tutelare e diffondere informazioni e conoscenze sul passato. Si guarda pertanto ad una ampia gamma di documentazione: fotografie, testimonianze orali, musei e mostre, fonti audio-visive e multimediatiche (filmati, documentari, ecc.): tutto ciò che aiuta a raggiungere e coinvolgere un largo pubblico e più generazioni. Sta emergendo anche una nuova professione, in Italia con grandi difficoltà e soprattutto altrove, laddove sussistono (come accade negli Stati Uniti con il National Council on Public History) organismi sorti per valorizzare e tutelare sia la storia che gli storici “pubblici” (si veda Serge Noiret, “Public history” e “storia pubblica” nella rete, in “Ricerche Storiche”, n. 40, maggio-agosto 2009).

Anche in Italia, dopo la caduta del muro di Berlino e della Prima Repubblica, la storia contemporanea è divenuta sempre più una “storia pubblica”. Non solo. Attraverso nuovi metodi e linguaggi, la storia ha conquistato un pubblico più largo ed un proprio “mercato”. Il racconto tanto della storia quanto delle memorie del paese è diventata una pubblica arena di conflitto, in cui opinion makers e gruppi mediatici (con giornali, televisioni, radio, siti web, ecc.) competono per affermare distinte interpretazioni del passato. A maggior ragione in Italia, laddove, del resto in modo analogo ad altri paesi, il peso di un passato traumatico (dal fascismo al terrorismo) continua ad alimentare l’uso e l’abuso della storia nel discorso pubblico.

Fare una buona storia pubblica del tempo presente implica coniugare il rigore critico del racconto storico con modi e linguaggi capaci di risultare coinvolgenti, persino piacevoli nella forma dell’incontro e dell’intrattenimento. Si è dimostrata una formula, si direbbe nella società dello spettacolo, di successo, quella del “Processo d’estate” che dal 2001 si svolge a San Mauro Pascoli (www.sanmauropascolinews.it), nell’ampia corte di Villa Torlonia. Tutto ebbe inizio appunto il 10 agosto del 2001, con il “Processo Pascoli”, alla presenza di un migliaio di persone, quando si svolse un processo-dibattito sul delitto impunito di Ruggero Pascoli, con tanto di difesa e di accusa, e di giuria popolare. Da allora, ogni anno, sempre il 10 Agosto (nell’anniversario della morte del padre del poeta), con grande partecipazione di pubblico, la società economica “Sammauroindustria” promuove un “processo storico” di cui i giornali e i media, locali e nazionali, hanno dato sempre larga informazione, amplificando l’eco di una delle più significative esemplificazioni di Public History in Italia. I temi prescelti, intersecando “temperamenti” territoriali e soggetti persistenti delle memoria pubblica, hanno svariato dalla Romagna (nei suoi aspetti meno locali) al quadro nazionale: il Passatore di Romagna, prototipo del brigante nella transizione risorgimentale nazionale (nel 2002); la cucina romagnola, tra vita quotidiana e Pellegrino Artusi (2003); la Romagna di Benito Mussolini (2004), Giuseppe Mazzini e la tradizione repubblicana (2005); il musicista Secondo Casadei e il rapporto tra folklore e identità culturale (2006); Giuseppe Garibaldi e il nesso tra Risorgimento e storia d’Italia (2007), Palmiro Togliatti e l’“Italia rossa” (2008), Pietro Badoglio e le “tragedie necessarie” (tra Caporetto e 8 settembre) della storia nazionale (2009). E’ la formula del “processo” che ha dimostrato di compendiare al meglio l’approccio critico alla conoscenza storica e la spettacolarità del confronto, sempre in presenza di storici tra i più qualificati sui temi di volta in volta discussi e “giudicati”.

Lo si era visto anche nel 2006, in occasione della seconda edizione del Festival di Storia promosso in Piemonte (tra Saluzzo e Savigliano) da Angelo D’Orsi (www.festivalstoria.org). Il tema, svolto in più giorni, era stato proprio quello della evoluzione del “processo” nel corso dei secoli. La scelta era stata ben motivata: «Mi pare che i processi siano una forma che accompagna sempre la storia. Sorgono ovunque c’é un contenzioso, banalmente potrei dire dalla lite di condominio ai conflitti armati. E i contenziosi generano forme giurisdizionali. Ma il processo spesso è fonte di ingiustizia anziché di giustizia, dai tempi di quello a Socrate ai nostri giorni. E il processo, poi, pone problemi di ordine etico e politico. Mi sembra pertanto un tema conduttore piuttosto stimolante» (“La Stampa”, 18 ottobre 2006). Il “giudizio” riguardò un ampio ventaglio di eventi e personaggi storici; affiancando quindi tempi, spazi e milieu socio-culturale davvero assai differenti: da Gesù ai fratelli Rosselli, da Socrate ai gerarchi nazisti di Norimberga, da Galileo ad Andreotti, dall´Inquisizione a Saddam Hussein, ecc. Il Festival di Storia, rassegna annuale internazionale di Public History, continua con programmia tema di sicuro e crescente interesse: il problema dei migranti all’esordio – nel 2005 -, quindi l’evoluzione appunto del processo nei secoli, il mito della «razza», la fine della guerra e infine, nel 2009, il potere del libro.
E’ un approccio – quello del programma a tema – fatto proprio dal Festival della storia che da tre anni si svolge nella capitale e nel Lazio: nel 2007 su “L’Italia s’è desta: l’avventura di un Paese in cerca di identità (1917-1994)”, nel 2008 sul tema “Dalla trincea alla piazza. L’irruzione dei giovani nel Novecento europeo”, nel 2009 su “Vacche magre… Tempi di crisi in Italia tra Otto e Novecento».

A San Mauro Pascoli soltanto però è divenuta stabile la forma del “processo” come modalità attraverso la quale confrontare e mettere in correlazioni tesi e antitesi, interpretazioni storiche e senso comune, storia e memoria. Ciò in relazione a temi e personaggi della recente storia contemporanea, divenuti, almeno per una sera, i soggetti di una storia pubblica, intergenerazionale e tale da sollecitare il senso di identità (individuale e collettivo). Semplice è la formula: capo d’accusa, arringa di uno o più accusatori, replica di altrettanti difensori, eventuali “testimoni” e quindi giudizio emesso solitamente da una giuria selezionata di pubblicisti e giornalisti, appartenenti alle testate locali o nazionali con redazioni anche territoriali. Fuorché nella prima e nell’ultima edizione, quando invece è stata una giuria popolare ad emettere il verdetto; il 10 agosto 2009, per la prima volta, attraverso il pronunciamento di tutti i presenti. Non senza segnare una discontinuità rispetto alle edizioni precedenti, quando le assoluzioni avevano sempre connaturato l’esito del giudizio finale. Questa volta l’imputato era il generale Pietro Badoglio e il capo d’accusa così recitava: “traditore o salvatore della patria”? Accolta è risultata la tesi di accusa (Aldo Ricci), che ha imputato a Badoglio – in relazione al decisivo periodo tra il 25 luglio e l’8 settembre 1943 -, di essere «l’uomo sbagliato nel momento sbagliato». Il processo si è avvalso inoltre di due testimonianze: Pietro Vaenti, ex-militare in Grecia e quindi ex-partigiano; Gian Luca Badoglio, nipote del Maresciallo d’Italia e curatore del Memoriale relativo alla rotta di Caporetto. A presiedere la serata, in qualità di presidente del ‘tribunale’, come sempre, c’era Miro Gori, Sindaco di San Mauro Pascoli, fondatore del Processo del 10 agosto. Non erano mancate letture di testi pascoliani (le radici storiche) e di testi badogliani (il tema della serata). Il verdetto della giuria popolare, composta da tutti i presenti, ha dato l’esito seguente: colpevole (219 voti), innocente (77 voti). Un centinaio invece sono stati i presenti che hanno voluto astenersi dall’emettere un giudizio, dimostrando di fare propri gli interrogativi avanzati dalla difesa (Aldo Mola) e comunque ritenendoli ancor privi di riscontri condivisi.

Abituati ormai ai processi mediatici, televisivo in particolare, non si potrebbe che guardare con perplessità a tutto ciò che rischia di creare un “senso comune” in modo artificioso, influenzando l´opinione pubblica fino a far ritenere inopportuno il serio discernimento di diverse ed anche opposte interpretazioni, per nulla corrispondenti alle “prove” indiziarie e testuali. E però l’ambientazione (l’imponente corte signorile), la messa in scena teatrale (con protagonisti che si alternano sotto le luci della ribalta) e tanto pubblico (nonostante la serata estiva di pioggia), hanno reiterato con successo l’appuntamento annuale del “processo storico” e riproposto il buon esempio di storia pubblica che San Mauro Pascoli è ormai in grado di garantire. L’anno 2010 sarà anche l’occasione per celebrare il primo decennio di vita.
Nel frattempo, a dimostrazione di quanto possa essere vitale il connubio tra storia pubblica e media, la rivista “Storia in rete” ha riaperto il processo a Badoglio. Non solo essa, nel suo numero mensile di ottobre 2009, ha riproposto le tesi di accusa e difesa già ascoltate a San Mauro Pascoli, ma ha chiesto ai propri lettori di pronunciarsi attraverso la rete (www.storiainrete.com), con una maggiore articolazione dei possibili giudizi (condanna con o senza attenuanti, assoluzione piena o parziale). Al di là di come il voto-sondaggio andrà a finire, pare questo un esempio di cosa possa essere una storia pubblica del tempo presente.
Che attraverso festivals e processi si porti «la storia al popolo», può trovare più o meno concordi. Si può verosimilmente pensare che essi contribuiscano a tener vivo il senso civico dei cittadini, di quanti comunque non vogliono rinunciare ad appassionarsi alla nostra storia e a dare un senso (anche storico) alle vicende del tempo presente.

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